Auschwitz, il progresso e il socialismo di Yorgos Mitralias

 

Pubblichiamo in italiano un testo illuminante scritto parecchi anni fa (oltre 20 anni fa, alla fine degli anni ‘90 del secolo scorso) in greco del nostro amico e compagno Yorgos Mitralias. Il testo è su Auschwitz e il suo significato. Lo pubblichiamo oggi non solo per la ricorrenza dell’80° anniversario della liberazione di quel campo di sterminio (di cui abbiamo già parlato alcuni giorni fa in occasione della “giornata della memoria”), ma perché l’epoca odierna è indelebilmente e profondamente segnata dal genocidio dei palestinesi e dalla distruzione di Gaza e dal ritorno in forze della minaccia fascista – e della guerra – su scala globale, incarnata dal duo Trump-Musk. 

È per questo che il testo di Yorgos assume un significato e un’attualità maggiori. Infatti, come affermava Ernest Mandel nel suo importantissimo testo Prémisses matérielles, sociales et idéologiques du génocide nazi (Premesse materiali, sociali e ideologiche del genocidio nazista, che nei prossimi giorni provvederemo a pubblicare in italiano), spesso citato nel nostro testo, “Per combattere meglio il neofascismo e il razzismo biologico oggi, dobbiamo comprendere la natura del fascismo di ieri. La conoscenza scientifica è anche un’arma di lotta e di sopravvivenza per l’umanità, non un esercizio puramente accademico. Rifiutare di usare quest’arma significa facilitare l’avvento di nuovi aspiranti assassini di massa e contribuire a far sì che commettano nuovi crimini. Spiegare le cause del fascismo e dell’olocausto rafforza il potenziale di rifiuto, di indignazione, di ostilità, di opposizione totale e irriducibile, di resistenza e di rivolta, contro la sempre possibile ricomparsa del fascismo e di altre dottrine e pratiche disumanizzanti. È un’opera di elementare e indispensabile salubrità politica e morale”.

 

Auschwitz, il fallimento dell’idea di progresso e la riabilitazione della dimensione utopica del socialismo    di Yorgos Mitralias

Autentico prodotto del nostro tempo e del “modernismo” capitalista, Auschwitz e la sua macchina industriale-burocratica per lo sterminio di massa di esseri umani rappresentano una sfida per noi in questo momento cruciale tra due secoli per almeno tre motivi principali:

  1. perché non rappresenta un presunto ritorno a barbarie ancestrali;
  2. perché rappresenta una profonda rottura nella civiltà e nel modo in cui consideriamo l’idea di progresso;
  3. perché le sue lezioni sono oggi – e continueranno a essere – più utili e più rilevanti di quanto non fossero 55 anni fa.

Pertanto, se oggi la storia si divide in un prima e un dopo Auschwitz, ciò è dovuto tanto alla “unicità” delle camere a gas naziste quanto al fatto che dopo di esse nulla è più come prima. Se Auschwitz è “unico” e “moderno”, non è perché non sia stato preceduto da altre manifestazioni di barbarie umana che hanno mietuto un numero ancora maggiore di vittime (ad esempio, lo sterminio e il genocidio di massa delle popolazioni indigene del “Nuovo Mondo” o dell’Africa da parte dei conquistatori e dei colonialisti europei). In realtà, ciò che rende Auschwitz diverso da qualsiasi altra cosa, che non è una semplice ripetizione – forse ancora più omicida – di barbarie passate e, di conseguenza, che non può essere spiegato con una presunta tendenza “metafisica” o “innata” a tornare a un’altra epoca (per esempio, al tanto vituperato Medioevo), è il fatto che sarebbe stato impossibile e impensabile al di fuori del capitalismo trionfante e della sua società borghese.

Dalla razionalità parziale all’irrazionalità totale

Prodotto del mondo occidentale moderno e della sua industria sviluppata, Auschwitz – secondo Ernest Mandel – “fu un’impresa di sterminio industriale e non artigianale. Per questo si differenziava dai pogrom tradizionali. Questa impresa richiedeva la produzione di massa di gas Zyklon B, camere a gas, tubature, forni crematori, caserme, l’intervento massiccio delle ferrovie, su una scala che era impraticabile nel XVIII secolo e nella maggior parte del XIX secolo, per non parlare dei tempi precedenti”. E Mandel prosegue: “In questo senso, l’olocausto è anche (non solo, ma anche) un prodotto dell’industria moderna che sfugge sempre più al controllo della ragione umana e umanistica, cioè dell’industria capitalistica moderna spinta da una concorrenza esacerbata che è diventata incontrollabile”.

Ma c’è di più. Questa mostruosa fabbrica di morte è stata resa possibile e ha potuto funzionare in questo specifico periodo storico perché solo lo stato borghese sviluppato le ha offerto un’altra delle sue precondizioni: la necessaria mentalità burocratica, la miope “razionalità” quotidiana delle sue centinaia di migliaia di esecutori diretti e indiretti. In altre parole, l’obbedienza e la sottomissione cieca all’onnipotente e “sacro” stato padrone, che si traduce nel ben noto spettro di atteggiamenti che vanno dall’autolimitazione acritica di ogni individuo ai suoi “doveri” parziali e frammentati (“faccio solo il mio lavoro e tutto il resto non mi riguarda”) alla trasformazione dei cittadini attivi in servitori involontari della dottrina “bene o male, è lo stato”, è il mio paese…

Eccoci qui, nel cuore del mostro moderno, con la domanda cruciale che ci viene legittimamente posta: se è davvero la nostra epoca che ha reso possibile Auschwitz, allora che garanzia c’è che non assisteremo a una sua ripetizione, o addirittura a qualcosa di peggio? Purtroppo la risposta è semplice e tragica. Assolutamente nulla. Dopo Auschwitz, tutto è ormai possibile, e negarlo categoricamente non può che equivalere a un’irresponsabilità politica. O, come ci avvertiva Brecht: “Il grembo da cui è scaturita la bestia immonda è ancora fertile”!

No, non è solo del mostro fascista che parlava Bertolt Brecht. Auschwitz non è solo l’esempio più estremo della barbarie moderna. In sostanza, è soprattutto un’espressione quasi tipica ed esemplare delle tendenze distruttive che sono esistite e continuano ad esistere (e che anzi si stanno sviluppando sempre di più) all’interno delle nostre società borghesi in questa fase del tardo capitalismo. Se Auschwitz è allo stesso tempo una rottura e un simbolo dell’era capitalista-imperialista moderna, è perché nessun altro “evento fondante” del nostro tempo ha evidenziato con tanta forza la sua caratteristica dominante e la sua suprema contraddizione: la combinazione del più perfetto razionalismo parziale con l’assoluto irrazionalismo totale. Il matrimonio tra la massima razionalità dei mezzi e la più estrema irrazionalità dei fini.

In fondo, cos’è Auschwitz se non questa “micidiale razionalità parziale” dell’organizzazione moderna del lavoro e della tecnica al servizio degli obiettivi più assurdi e irrazionali, cioè l’impresa crudele e barbara dello sterminio totale di esseri umani solo perché – in quanto ebrei e zingari – avevano commesso la “colpa” di esistere? Non si tratta nemmeno di un obiettivo totalmente “immorale”, come quello dei Gulag staliniani, dove milioni di Zek (prigionieri) venivano trasformati in una forza lavoro a bassissimo costo per la costruzione (forzata) dell’economia “socialista”. Qui abbiamo raggiunto un livello di barbarie qualitativamente diverso, che non può essere spiegato né da alcuni obiettivi economici dei carnefici, né dal loro odio razzista. Gli ebrei, in quanto esseri umani condannati esclusivamente allo sterminio, non possono ovviamente nemmeno lavorare come schiavi, né continuare a svolgere il ruolo di capro espiatorio riservato loro dall’antisemitismo tradizionale.

L’idea di progresso storico e la distruzione del pianeta

L’“indicibile” e l’“impensabile” di Auschwitz non risiedono né nell’entità dell’efferato crimine dei nazisti, né nelle dimensioni mostruose del loro antisemitismo, ma piuttosto in quella vera e propria frattura civile, senza precedenti nella storia, implicata dal disprezzo e dall’abolizione di fatto di tutte le regole e i tabù millenari della più elementare solidarietà e convivenza degli esseri umani. Visto il precedente di Auschwitz (e di Hiroshima), l’umanità può affrontare il suo futuro lasciando la porta aperta a qualsiasi eventualità, anche a quella del suo totale annientamento.

Purtroppo, quella che un tempo era una semplice premonizione degli anatomisti più perspicaci della pietosa realtà odierna (Walter BenjaminLeone Trotsky, Ernest Bloch, ecc.) sta diventando più o meno un’ovvietà che tende a essere adottata, anche se in modo frammentario, da milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Il dilemma di Rosa Luxemburg “socialismo o barbarie” è da tempo superato, perché stiamo già vivendo nella barbarie. Al suo posto sta subentrando un nuovo dilemma esistenziale, ancora più tragico, che si impone come inevitabile: socialismo o distruzione del pianeta ed estinzione della specie umana. Ora, non si tratta più “solo” dell’ondata di genocidi compiuti o incompiuti che sta attraversando il nostro tempo (Ruanda, Cecenia, Timor Est) e della pulizia etnica nell’ex Jugoslavia, o dell’orrore dei 45 milioni di bambini del Terzo Mondo che muoiono ogni quattro anni per la malnutrizione e la mancanza di medicine e acqua potabile, o ancora di tutta l’umanità martirizzata che viene sacrificata sull’altare della massimizzazione sfrenata del tasso di profitto. Non si tratta più di tutto questo, e nemmeno dell’esistenza della civiltà umana, ma di qualcosa di più, qualcosa di qualitativamente superiore, della distruzione totale già promessa e preparata dall’incubo dell’“irrazionalità totale” capitalista dell’aria che respiriamo, dell’atmosfera, delle foreste, dei mari e della terra che abitiamo – in breve, del nostro stesso pianeta e delle persone che si ostinano a viverci.

Nuovi problemi, nuovi dilemmi, nuovi incubi universali che ribaltano vecchie certezze e credenze tradizionali. Il primo e migliore di questi è la cieca fiducia nell’inevitabilità del progresso, a cui la razza umana è “condannata”. Mentre il XX secolo volge al termine, lasciando dietro di sé innumerevoli rovine materiali e, soprattutto, spirituali, è perfettamente giustificato notare, con Daniel Bensaid, che “due guerre mondiali, la barbarie dei campi di concentramento e dei gulag e la crescita esponenziale delle forze distruttive hanno da allora scosso queste convinzioni fino al midollo. Il crollo dei regimi burocratici in Oriente, la consapevolezza che le risorse non sono inesauribili e fornite gratuitamente dalla natura, la vertigine per le possibilità aperte dalla biologia in termini di procreazione e ingegneria genetica, l’offuscamento dei confini tra la vita e la morte sono tutti nuovi colpi: le ali d’angelo del Progresso sono crivellate di piombo”.

Sì, in fondo è l’idea stessa del lungo, lineare e “inevitabile” progresso storico della specie umana che non può reggere e deve essere relativizzata, se non radicalmente rivista, in un momento in cui la stessa sopravvivenza dell’uomo sulla Terra è ormai in discussione, quando “l’Apocalisse cessa di essere una visione profetica e diventa una minaccia del tutto tangibile”. Se ad Auschwitz furono ebrei, zingari, omosessuali e poche altre categorie di “Untermenschen” (cioè “subumani” a cui i nazisti negavano qualsiasi status umano) a essere offerti come “materia prima” alla macchina divoratrice di esseri umani che funzionava grazie alla cooperazione e alla convergenza del razzismo biologico, della moderna scienza-tecnologia e dell’industria capitalista, ora è l’intera umanità a essere offerta come cavia per la sperimentazione dell’enorme potenza distruttiva che questo brutale tardo capitalismo ha accumulato.

Per il socialismo che sogna la nuova qualità della vita

Criticare e rivedere l’idea dell’“inevitabilità del progresso” significa anche criticare e rivedere un certo tipo di marxismo. Un marxismo che, pur cercando di sostituire la legge del profitto con la soddisfazione dei bisogni umani, “non ha alcuna intenzione di rovesciare i fondamenti della società identificati con l’industria, la tecnologia, la scienza e il progresso”.

Mai come oggi questo marxismo deterministico, prosaico ed economicista degli “stadi” dell’evoluzione storica è stato così irrealistico, inutile e soprattutto inefficace. E mai come oggi si è scontrato frontalmente con il marxismo rivoluzionario emancipatore, visionario e umanista che non si accontenta di “andare oltre” la civiltà occidentale, ma cerca di invertire – o meglio di capovolgere – il corso che la civiltà occidentale ha seguito per secoli.

Non ha quindi nulla a che vedere con il marxismo volgare e anchilosato che disdegna di vedere il corso della storia dal punto di vista dei “perdenti”, condannati ex-cathedra a non essere altro che… “polvere della storia” (come è avvenuto in passato, ad esempio, con gli indios “incivili” o con i piccoli popoli “storicamente arretrati”, e molto più recentemente con gli ex jugoslavi ripuliti etnicamente), e che rifiuta ostinatamente di affrontarla attraverso la possibilità di una (imminente) catastrofe totale. E naturalmente non ha nulla a che vedere con il marxismo burocratico di tanti “epigoni” che credono ancora ciecamente nel presunto automatismo progressivo dello sviluppo delle forze produttive e nell’ancor più temuto “addomesticamento” della natura (necessariamente ostile) da parte dell’uomo e della tecnologia “miracolosa”.

No, non è un caso che questo marxismo stalinista e socialdemocratico si “dimentichi” costantemente di proporre una visione strategica, di riabilitare l’utopia rivoluzionaria, di proporre “una civiltà radicalmente diversa, una nuova qualità della vita, una nuova gerarchia di valori, un diverso rapporto con la natura, rapporti di uguaglianza tra i sessi, le nazioni e le ‘razze’, rapporti sociali di solidarietà e fraternità tra i popoli e i continenti”, un nuovo e radicalmente diverso rapporto (discriminazione positiva) tra mondo ricco e mondo sottosviluppato. E naturalmente non è un caso – come sottolinea Bensaid – che tale marxismo adotti ciecamente “l’idea di progresso (che) è solo la forma piatta, svalutata e imborghesita di questa capacità di progredire, che porta impercettibilmente all’abbandono dell’azione politica a favore di automatismi tecnici e commerciali”.

Il dado è tratto. La rivoluzione non può più essere semplicemente – come un tempo – “la locomotiva della storia”, perché nulla giustifica o impone la sua necessità storico-esistenziale, così come, più di ogni altro, deve tirare – per dirla con Walter Benjamin – il “freno di emergenza” che ferma la folle corsa del treno verso la distruzione. D’ora in poi il dilemma non è più socialismo o regresso dell’umanità. Il vero dilemma è il socialismo come nuova civiltà o la distruzione dell’umanità. E che nessuno ci dica che questo è un compito troppo ambizioso per la rivoluzione socialista. Non dimentichiamo che “prima si rinuncia all’impossibile, poi a tutto il resto”.

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