È ormai chiaro che la presidente del consiglio è riuscita a trasformare il caso Almasri in una disputa contro il potere giudiziario in Italia, oscurando il patto scellerato tuttora vigente che consegna i sopravvissuti delle traversate clandestine alle guardie costiere libiche e, quindi, a campi di concentramento al di fuori di ogni controllo. È meno chiaro che buona parte dell’opposizione, rispondendo nella stessa chiave, sta contribuendo, a sua volta, ad oscurare la vera posta in gioco: quella di vittime inermi prima ancora dell’indipendenza della magistratura. Resta, invece, del tutto nascosta la cattiva coscienza che spinge l’opposizione, consapevolmente o meno, a non smascherare se non, addirittura, a concorrere a questo espediente tattico del governo. Salvo la protesta delle SOS e qualche singola battuta – ad esempio di Formigli e della presidente di Magistratura Democratica – nessuno denuncia la radice del problema di cui la liberazione di Almasri, gestore del sistema di oppressione nei confronti degli emigranti, costituisce la coerente conseguenza. Si tratta dell’accordo sottoscritto dall’Italia – Renzi e Gentiloni consulibus – e poi assecondato dall’UE, con cui essa s’impegna a privilegiare la guardia costiera libica, consegnando ad essa i migranti sopravvissuti nelle acque del Mediterraneo. Per poi restituirli al porto libico tuttora dichiarato “insicuro” dalle competenti organizzazioni internazionali.
Una parte, ma non tutta la maggioranza governativa di centro sinistra a suo tempo si è opposta al rinnovo di quell’accordo, previsto in un comma surrettiziamente inserito in un provvedimento di altra natura. Non così Marco Minniti – prima sottosegretario con delega ai servizi segreti del governo Renzi e, successivamente, ministro dell’Interno del governo Gentiloni – autore dell’accordo raggiunto d’intesa con la rete degli scafisti, nel contempo adibiti a gestori di campi di concentramento libici, ad oggi inaccessibili dall’UNHCR e dall’OIM.
A suo tempo un editoriale del New York Times (25 settembre 2017) imputò all’Italia – dopo una precedente inchiesta (NYT, 17.9.2017) – a Minniti, la responsabilità di “essersi collocata nel ruolo di chi assume come sorveglianti [dei campi] la stessa gente che trae profitto dall’estorcere denaro, affamare, vendere come schiavi, torturare e stuprare migranti”. Una macchia, che annullò il credito conquistato in precedenza dalla nostra guardia costiera con il salvataggio di numerose vite umane, come riconosciuto dagli alti commissari per i diritti umani del Consiglio d’Europa e dell’ONU.
Resta da spiegare la rinuncia, apparentemente paradossale, da parte di Meloni a una chiamata a correo di una buona parte dell’opposizione, come in molti altri casi. La risposta è semplice. L’attuale governo non intende rinunciare alla paternità (o maternità) di una politica spregiudicatamente ostile ad ogni forma di immigrazione, anche legale e controllata, mettendo in pericolo l’accordo libico tuttora vigente. Preferisce tutelarlo con il ricorso al segreto di stato. È appena il caso di aggiungere che ogni opposizione, per risultare efficace, deve partire dal riconoscimento delle proprie responsabilità passate ed esigere la tardiva denuncia dell’accordo.
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