Ho già dedicato qui a Mario Tronti quattro lunghi saggi, uno dei quali è stato riproposto pure dalla bella rivista parmense “Dalla parte del torto”.[1] Ma ora arriva una sorta di messaggio finale in bottiglia di Tronti stesso: il suo ultimo saggio, il cui titolo riprende una frase di Hegel, di cui ‘autore è stato fine studioso[2]: Il proprio tempo appreso col pensiero.[3] Per Hegel questa capacità di pensare il senso della storia non in base a modelli morti, e neppure di un futuro sempre imprevedibile (quantunque implicito “da prima”), è il tratto forte del filosofare (politico). Si deve guardar dentro il proprio tempo profondamente, quasi immergendovisi dentro provando a pensarlo, senza fughe né all’indietro né in avanti, cercando col proprio Logos, la ragione infinita che ci accomuna, di fare il punto nel coacervo di eventi e pensieri tutt’attorno, per tutti. Naturalmente a partire da quello che urge nell’animo di noi stessi come esseri che fanno parte di un’umanità pensante-volente in cammino.
Ora il tema su cui Tronti si è sempre rotto la testa è quello del superare tutto un mondo ritenuto intrinsecamente disumano (e questo lo condivido totalmente da sempre). Il “comunismo” per lui era contemporaneamente il fine e il mezzo per superare la civiltà dominante, borghese, capitalistica. Il fine era la comunione umana tra esseri liberi e uguali, invece di “questa sozza società”; il mezzo, era l’unione di chi vuole uscire dal capitalismo (per lui i comunisti erano quelli che avevano tale urgenza, che resta al di là di loro). L’istanza è stata propria del comunismo, ma lo travalica fortemente perché è antropologica, se non degeneriamo pure antropologicamente, come secondo lui starebbe ampiamente accadendo. Sembra trionfare il “rovescio” del mito dell’oltreuomo, che Nietzsche chiamava dell’”ultimo uomo”. Stiamo perdendo o abbiamo perduto la nostra stessa umanità, o almeno moltissimi l’avrebbero fatto o farebbero, e dobbiamo innanzitutto rinascere a noi stessi. Questo è il problema: né più né meno quello del superare la nostra degenerazione antropologica, diventando, come aveva detto il miglior Nietzsche ripreso da Tronti nel suo ultimo libro compiuto, “spiriti liberi”, autocentrati ed a nessuno soggetti. Il problema, per evitare una decadenza percepita, lì e tanto più in questo libro estremo, come degenerazione antropologica, è quello di superare sé stessi accedendo a qualcosa che in noi late, ed è universalmente umano[4], ovviamente senza cadere in un superomismo alla Nembo Kid.
Ovviamente l’istanza, tipicamente antiborghese, per quanto poi totalmente fallita con la fine definitiva del comunismo, era al centro dell’idea e movimento or ora richiamati. Questo processo ha avuto, lì, una duplice forza motrice, forse già nel marxismo originario, e comunque nel marxismo riformato da Lenin.
Da un lato è risultato un processo sovrapersonale, attinente a quello che Marx chiamava “struttura”, che per lui era soprattutto l’economia in divenire, il gioco tra forze produttive e rapporti di produzione: in estrema semplificazione la lotta di classe, in particolare tra le due classi polarmente opposte della società, nel divenire ritenuto ampiamente necessario dell’economia[5]; dall’altro lato il dato “struttural-economico” è stato da molti, dal primo dopoguerra, soggettivato, umanizzato, visto come iniziativa di soggetti collettivi umanissimi nella storia, nel cosiddetto marxismo occidentale (dal Lukàcs dell’inizio degli anni Venti del Novecento a Korsch intorno al 1930, e più oltre al marxismo operaistico, come in Vittorio Foa, Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri). Gli operaisti marxisti sociologizzarono il discorso un poco economicistico di Marx, Engels, Rudolf Hilferding, Rosa Luxemburg e in parte Lenin, trasformando l’economia in sociologia economica: vedendo l’economia come proiezione delle classi a confronto nella storia viva, e mondo sociale conflittuale in fieri: sino alle intuizioni di Tronti già nel 1966, che vedeva il capitalismo stesso come il sistema di riproduzione – nel senso di realizzazione per i propri fini – della classe operaia.[6]
In via preliminare, tanto per orientarci, poniamo alcuni interrogativi e vediamo che cosa Tronti ci risponderebbe “in teoria” dal suo punto di vista (anche se sono io qui a farlo parlare così, e da ciò metto in guardia il paziente lettore).
Chi regge il sistema del Capitale?
– Chi lavora. E perciò chi volete che sia a fare il mondo della borghesia? Quei poltroni che vanno alle corse con le loro donnine o trescano come nelle miserande commedie di Feydeau? Ma non scherziamo …
– Ma tu come lo spieghi, Mario? Me lo sai dire? Questo tuo voler vedere la classe operaia come forza motrice e quindi protagonista dello stesso capitalismo, non fa a pugni con la grande miseria drammaticamente raccontata già nei Misteri di Parigi di Sue (ripreso pure da Marx e Engels nella Sacra famiglia) e nei Miserabili di Victor Hugo[7]?
– Sì, certo, veniva ben rappresentato un mondo capitalistico intollerabile … che però ben presto, e forse subito, è stato molto migliore del mondo dell’Ancien Régime, almeno in città, dove stavano fabbriche e operai, che con sapienza artigianale secolare, d’intesa con gli ingegneri, inventavano e usavano le macchine a quel tempo … Certo vivevano spesso in tuguri, come quelli raccontati da Dickens in Oliver Twist e altrove, ma andavano avanti. Progredivano pure loro.
– Ma tu, Mario, dove lo vedi nella storia?
(Qui gli faccio rispondere fingendo che questo Tronti immaginario conoscesse Bordiga, in specie il suo articolo Fiorite primavere del capitale, del 1953[8]: non il suo scritto più profondo, ma forse il suo scritto più “bello”).
– Chi credi abbia preso la Bastiglia nel 1789? E chi credi che fossero i volontari di Marsiglia i quali – nel 1792, contro gli stranieri i quali volevano invadere la Francia della Rivoluzione “borghese”, antinobiliare e anticlericale – composero e per primi cantarono la Marsigliese? E quelle decine, anzi centinaia di migliaia, di soldati della Grande Armata dell’ex giacobino, cittadino Napoleone Bonaparte, che discutevano di politica da mattina a sera da cittadini in armi, sino alla morte, chi credi fossero? Erano forse i tanti manigoldi arricchiti della situazione? O non erano forse “i nostri”, i proletari?
– Ma allora dove se ne va il discorso di Marx e Engels che, nel Manifesto del partito comunista del 1848, dicevano che la borghesia aveva fatto portenti più grandiosi delle piramidi nel suo sviluppo ininterrotto (e non avevano ancora visto niente poiché ora è arrivata l’Intelligenza Artificiale), ma che per svilupparsi aveva dovuto far crescere e moltiplicare i suoi becchini, i moderni proletari? – Che “becchini” della borghesia erano mai, se erano i costruttori del capitalismo?
– Lo costruivano e poi l’avrebbero abolito. Come “classe generale” – al pari della “classe generale” della borghesia – facevano come tra Orazi e Curiazi. Prima abolirono il potere sociale-politico delle classi e ceti coevi del vecchio mondo o Ancien Régime (nobiltà e alto clero), e poi, secondo lo schema, avrebbero dovuto far fuori la borghesia. E nessun marxista lo mise mai in dubbio.
– Dunque, totale spontaneismo operaista. La rivoluzione, prima con la borghesia contro l’aristocrazia e poi contro la borghesia, la fa la struttura, che sarebbe poi sempre almeno avant tout la classe operaia, e noi siamo qui ad aspettare che la storia si faccia da sola. Era questo il tuo pensiero?
– Quando presi a formularlo, insieme e poi in polemica con i “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri, quasi tutti i miei compagni l’intesero così, puntando tutto sull’identità tra azione rivoluzionaria e azione operaia. Così sembravo pensarla io. Così sembrava pensarla Toni Negri. Così Gianfranco Faina ed altri. Ma nel mio pensiero c’era già, da sempre, forse per un mio substrato hegeliano o neo-hegeliano, ma anche e soprattutto volontarista, un mio “retropensiero” che già portava a quell’”autonomia del politico” che si fece poi più matura ed esplicita quando scoprii, negli anni Settanta, il decisionismo di Carl Schmitt, che non a caso dapprima, nel 1921, in La dittatura, non l’aveva colto in Mussolini o Hitler, ma proprio in Lenin[9]. Questa torsione in più consiste proprio nella comprensione del circolo virtuoso che ha da esserci tra spontaneità operaia e coscienza-volontà rivoluzionaria, che è poi “il politico”. E infatti il mio famoso articolo di fondo nel primo numero di “Classe operaia” nel gennaio 1964, che apre poi Operai e capitale (1966), diceva proprio: Lenin in Inghilterra: come a dire che il soggetto era sì la classe operaia nel suo antagonismo, ma che su di essa andava inscritta l’azione creatrice del politico rivoluzionario (“Lenin”): un Lenin, però, non come stratega rivoluzionario dei paesi semifeudali o comunque paleocapitalistici come la Russia, bensì “in Inghilterra”, vale a dire nell’Occidente capitalistico avanzato, ovverossia “da noi”.
Tuttavia ben presto, già nel 1966, con costernazione degli estremisti operaisti, Tronti decise che sarebbe stato meglio rientrare nei ranghi, in quella che allora era detta “sinistra tradizionale”, provando a portare “lì dentro” l’istanza dell’antagonismo operaio. Infatti, se la classe operaia fa la storia, l’Organizzazione stabile o Partito in cui essa, “liberamente” e durevolmente, si riconosca nella storia, dev’essere pure il suo habitat politico, che per Tronti e Asor Rosa non avrebbe potuto essere una piccola avanguardia senza le masse proletarie. Così lui rientrò nel PCI, in cui era stato sino al 1964 credo da un decennio, a Roma, e il suo amico Asor Rosa entrò nel PSIUP, dove, per iniziativa di Dario Valori, fu poi cooptato nel Comitato Centrale. Come aveva potuto accadere?
Come mostra bene anche in più punti quest’ultimo piccolo libro, Tronti si è via via reinserito nel “comunismo”, in primis italiano, ma anche internazionale, vedendo in sostanza nel Comunismo, nel senso di mondo comunista effettivo, l’ovvia mediazione politica della C.O. nella storia, italiana (“italocomunista”, come era detto da altri), ma pure mondiale.
Tronti, anche se a me dispiace, ha sempre condiviso pure l’antisocialismo antico dei comunisti, in loro sempre latente: la scelta di campo post-socialista dei comunisti, sempre ipercritici nei confronti dei socialisti. Dietro c’è naturalmente la lettura dell’Europa e Italia del primo dopoguerra come mondo della rivoluzione proletaria mancata, come aveva detto Lenin, col comunismo tutto: un Lenin che in pratica aveva imputato la rivoluzione proletaria mancata (e poi si sarebbe detto il fascismo “riuscito”) all’imborghesimento prima dei capi del partito socialista nei gruppi parlamentari e “bonzi” del sindacato, e poi ai socialdemocratici più in generale.[10]
Ma invece “per me”, da circa quarant’anni, l’idea che la classe operaia in Occidente non abbia mai fatto la rivoluzione proletaria né dopo la Prima né dopo la Seconda guerra mondiale, per non dir del Sessantotto e dopo, perché “fuorviata” dai capi opportunisti e riformisti non pare persuasiva, tanto più per tempi così lunghi della Storia europea e americana. Io credo, invece, che già pochi anni dopo l’Ottobre 1917, se non addirittura subito, i lavoratori d’Occidente abbiano intuito che distruggere la democrazia liberale per poi trovarsi una dittatura di una minoranza che pretendeva di pensare e volere per tutti loro, pur andando bene in Russia o in Asia, non era una prospettiva allettante, magari arrivandovi spargendo sangue a più non posso.
Con ciò io non affermo neanche per una briciola che la rivoluzione di Lenin, e anche “molte” rivoluzioni consimili specie nel Terzo Mondo, in Cina o in Vietnam, non siano state rivoluzioni “a sviluppo combinato”, capitalistiche e socialiste insieme, borghesi nella società civile e socialcomuniste nello Stato. Solo che mentre Lenin e Trockij credevano di aver sfondato il capitalismo tutto nel suo ventre molle, nell’anello più debole, in Russia, agendo come battistrada della rivoluzione proletaria in Europa e America, stavano invece realizzando la Modernizzazione, il capitalismo con Welfare autoritario, in aree sottosviluppate o nell’insieme poco sviluppate del mondo. Da quelle parti sia lo sviluppo capitalistico che un certo Welfare State, per pochezza estrema della borghesia privata in quei paesi oltre a tutto tanto a lungo sottosviluppati, poteva essere promossa e diretta solo dall’alto, dalla piramide dello Stato, da una minoranza rivoluzionaria coraggiosa, audace, intraprendente e anche spesso e volentieri sanguinaria (cosiddetta “comunista”). E infatti in Cina e Vietnam funziona ancora e credo funzionerà per epoche intere.
Invece Tronti, vedendo sempre il Comunismo come partito di classe – distorto e in tanti paesi pure degenerato quanto si vuole, ma pur sempre coscienza e volontà delle grandi masse operose nella storia -dal 1966 al grande crollo dell’Est europeo “comunista” e dell’URSS del 1991, ha finito per salvare moltissimo della storia effettiva del comunismo.
Per ragioni espositive partiamo dal dato internazionale per arrivare dopo a quello nazionale (ed europeo occidentale).
Io pure mi sono fatto persuadere a lungo dallo Stalin di Isaac Deutscher, Questi, quantunque fosse stato il grande biografo, e sostenitore, di Trockij, scrisse una vera biografia positiva sul dittatore georgiano. Questa biografia ancora persuadeva Domenico Losurdo in anni relativamente recenti, e persuade ancora una forte testa pensante come quella di Luciano Canfora. Tra 1969 e ancora per qualche anno persuadeva pure perché l’URSS stava con l’eroico Vietnam bombardato per anni dagli americani.
Ma poi mi persuasi già verso il 1977 che si sarebbe dovuta condannare totalmente la degenerazione burocratica e liberticida dell’URSS e dei paesi consimili. Stalin mi è così apparso sempre di più come il grande rivoluzionario contro la rivoluzione, e non come l’erede di Lenin in condizioni drammatiche: piuttosto una sciagura per la rivoluzione proletaria.[11] Pur riconoscendo con Aldo Agosti che come statista – diciamo grande russo – aveva reso pure potente come non mai il suo immenso Paese[12], con i mezzi disumani ben noti; ma la cosa non aveva nessuna relazione con la pretesa “costruzione del socialismo”.
Invece Tronti al legame, distorto quanto si vuole, tra stalinismo e socialismo, almeno dal 1966 (e probabilmente dagli anni Cinquanta) alla morte (2023), ha sempre creduto. In ciò è rimasto un togliattiano critico. L’URSS restava l’Ottobre 1917 che tra mille contraddizioni, deviazioni e degenerazioni, certo da lui avvertite in modo acutissimo, proseguiva nei soliti meandri della storia viva. L’URSS avrebbe anche potuto autoriformarsi, ma alla fine non ci riuscì. Quando la sua crisi sistemica giunse all’acme, per lui, come pochi anni fa diceva in un’intervista che è pure su You Tube, ci sarebbe voluto un Bismarck, e invece arrivò Gorbaciov. Qui il discorso di Tronti, che ha superato il neohegelismo tramite Schmitt, dietro al quale Schmitt c’era pure molto Kierkegaard (come ha documentato Carlo Galli) – cioè molto esistenzialismo, molto contingentismo, molto primato della scelta nella relatività dell’”ex sistere” – si fa o svela discorso molto soggettivista. In spirito nietzscheano (anche qui esplicito), Tronti mi batteva. (Del resto ricordo molto bene che già nel 1966 Vittorio Saltini sull’”Espresso” ironicamente glielo diceva recensendo Operai e capitale). Infatti io sarei portato a dire non che al posto di Gorbaciov avrebbe potuto arrivarne un altro diverso, ma che la classe politica sovietica, a furia di essere inamovibile e mutata solo per cooptazione, a furia di essere gerontocratica, a furia di non rinnovarsi se non tramite quelli di sempre, alla fine aveva fatto emergere quelli che Togliatti con brutale realismo politico chiamava “fessi”. Mi spiace dirlo perché dapprima avevo sperato, e scritto nel 1990, che Gorbaciov avrebbe pure potuto essere un “Lenin liberalsocialista” (purché però – aggiungevo – fosse riuscito a frenare la fuga di paesi che componevano l’URSS fuori da quello Stato federale, Stato di Stati ma pur sempre Stato, evitando la frantumazione, che uccide lo Stato)[13], ma oggi Gorbaciov mi appare un pessimo uomo politico, anche dal grande cuore generoso (solo che era il capo del Cremlino e non il papa). Mi appare come il capo di una superpotenza che lasciò dissolvere un impero che tra vittime di Stalin e di Hitler era costato quaranta milioni di morti circa, senza sparare una fucilata. Non credo che sia mai accaduto a nessun grande impero nella storia del mondo. Su ciò Tronti concorda “ad abundantiam” (solo che per me era scontato che a furia di decadere un ceto politico produca capi sempre più inadeguati). Su ciò comunque Tronti dice cose interessanti, qua e là pure discutibili.
Procediamo dalle cose più interessanti. “E la domanda delle domande: perché e come mai il partito comunista dell’Unione Sovietica non si è fatto trovare, all’appuntamento con la Storia, con gli uomini giusti al posto giusto, nel giusto momento che doveva fatalmente arrivare, fatalmente annunciato già dal trauma del ’56 (…)? Com’è potuto accadere che un miracolo cominciato con il ‘Che fare?’ di Lenin sia giunto alla fine con le sbronze di Eltsin?”[14].Al proposito cita un saggio di un importante diplomatico russo, Leonid N. Dobrokhotova comparso su “Limes” nell’ottobre 2019, Ma quale Cia! A demolire il Muro e l’Urss ci pensò Gorbaciov[15]. Riferisce – Leonid Dobrokhotova – l’incontro tra George Bush e Gorbaciov avvenuto nel 1989 a Malta, in base a cose raccontategli da Baker, che affiancava Bush “padre”: “Gorbaciov annunciò solennemente che il governo sovietico ‘nello spirito del nuovo pensiero politico’ aveva deciso di sciogliere il Patto di Varsavia e ritirare le truppe sovietiche dall’Europa orientale. Colpiti da questa dichiarazione, continuò Baker, io e Bush chiedemmo se quindi da parte nostra avremmo dovuto sciogliere la Nato e ritirare le truppe americane. No, risposero i russi. Questa è una nostra decisione unilaterale. Voi agite come ritenete. (…) Soltanto le successive azioni del Cremlino mi assicurarono che era avvenuto tutto per davvero.”[16] Tronti ne trae motivi per segnalare l’irrazionalità della storia[17].
Io sarei più portato a vedervi conferma del rimbambimento dei capi politici in regimi in profonda decadenza. Ma Tronti risponderebbe di certo che invece di Gorbaciov il Politburo avrebbe benissimo potuto scegliere un altro e che la storia, come dicono Morin e la Kern, è sempre “bohemienne”.[18] Forse sono vere entrambe le cose. Anche Biden forse è stato, alla fine, frutto della crisi dell’impero americano. Tuttavia neanche la potenza dell’irrazionale è da buttar via.
Ma Tronti, che non teme certo la consequenzialità del pensiero, più oltre nota: “Quello non fu un ‘nuovo inizio’. Quello fu un cupio dissolvi. (…) C’era un’altra soluzione? Non lo sappiamo. Historia magistra ci dice che alla Riforma bisogna avere il coraggio di rispondere con la Controriforma, costi quel che costi[19].” Ma questo implica che i cinesi hanno, o avrebbero fatto bene, a rispondere con la repressione più dura alla contestazione di Piazza Tienanmen di Pechino, durata da aprile al giugno 1989, e repressa da esercito e carri armati con centinaia di morti (anche se Tronti non lo dice). La posta sistemica a volte è tanto alta da implicare scelte anche gravi. Registro senza commento. Sono cose su cui riflettere.
Lo stesso approccio, molto intracomunista, Tronti lo ebbe pure dal 1966 alla morte (2023), con la storia del PCI. Non ho seguito tutte le sue svolte, ma direi che sia stato un ingraiano. Egli condivide il carattere alternativo tra socialismo democratico e comunismo, dal ’21 in poi. E loda la scelta comunista degli ordinovisti torinesi del 1921. Non solo, ha un grande apprezzamento per Togliatti, che io ho sempre condiviso e condivido senza riserve. Apprezza pure decisamente Enrico Berlinguer (su cui la mia valutazione è molto più mossa, perché io lo considero un grand’uomo sul piano morale, direi esattamente come Pertini, ma non su quello strategico politico; non apprezzo il suo compromesso storico, né tantomeno la tattica scelta durante il rapimento di Moro, un rapito che a mio parere avrebbe dovuto essere salvato pure con compromessi necessari, ad ogni costo, anche se a mio parere i compromessi sarebbero stati formalmente da negare, nella logica che i teorici della “ragion di Stato” chiamavano arcana imperii). Scrive infatti Tronti: “Il Pci resse bene alla tempesta del ’56. Il ‘rinnovamento nella continuità’” [e qui certo si riferiva all’VIII congresso, della via italiana, democratico costituzionale, al socialismo], “era la risposta all’altezza. Cominciò a mostrare segni di cedimento quando si alzò la brezza del ’68. Ma non c’era più la salda guida del Migliore. E comunque il prestigioso gruppo dirigente togliattiano, pur diviso sulla leadeship, assicurò un livello di direzione autorevole. Finché fu in campo. Il carisma di Berlinguer poi, in grande sintonia con il popolo comunista, riuscì a farne un’ultima sintesi.”[20] Tronti dà sorprendentemente una valutazione ottimistica pure del compromesso storico, notando: “Le due strategie, con Moro e Berlinguer, avevano toccato il massimo punto possibile di espressione. I due incompresi dalle ottuse leadership internazionali di riferimento, Usa e Urss (…) cercavano realisticamente vie di realizzazione di un capitalismo e di un socialismo capaci ambedue di presentare al mondo un volto umano.[21]”
Per contro io credo che fosse assai ingenuo pensare che senza un’inequivocabile rottura con l’URSS si potesse fare una roba del genere, che non avevano potuto fare neanche Tito e Mao, o, nel nostro piccolo, Nenni (che iniziò la strategia del suo centrosinistra restituendo i soldi del Premio Stalin che i sovietici gli avevano dato). Entrambi i “grandi”, URSS e USA, potevano ammettere all’interno politiche varie, come la stessa Ungheria dall’ultimo periodo di Kruscev o la Romania di Ceausescu e, sull’altro fronte, la Francia di De Gaulle, ma senza equivoci sulla scelta del “campo”. E comunque non ne consentirono mai a nessuno, e purtroppo chi non l’aveva compreso pagò un prezzo molto forte, assolutamente ingiusto, ma prevedibile.
Comunque era vero che Togliatti era stato un grande leader, ma quello che egli aveva già scritto nel Memoriale di Yalta sulla democrazia come via al socialismo[22] era ancora quello che diceva Berlinguer, ma tanti anni dopo, sia pure a un congresso del PCUS (un controllo testuale sarebbe facilissimo). Non credo che un Togliatti sarebbe arrivato alla prima crisi del vecchio assetto democristiano-socialista, dodici anni dopo (nel 1976), senza aver fatto quello che il PCI fece nel 1982 (cominciando a rompere con l’URSS quando solidarietà nazionale e compromesso storico, nel 1979, erano già falliti).
Si può convenire con Tronti quando dice che è dopo Berlinguer “che comincia un’altra storia. Il Pci, prima ancora che dall’89, fu ucciso dagli anni ottanta.[23]” Egli vedeva gli anni Ottanta come il periodo del mancato rinnovamento sia del PCI che della DC, che si arroccarono. “I due congressi finali del Pci non sancirono la trasformazione ma l’estinzione di una forza politica. Non fu un passo indietro e due avanti, ma un passo indietro punto e basta. La verità di questo sta nella scelta del cambio di nome. ‘Democratici di sinistra’ voleva dire che si tornava alla contrapposizione democrazia-totalitarismo come unico asse strategico …[24].” In sostanza era evaporata l’idea socialista, era scomparso il fine. Si era ormai al socialismo senza socialismo.
Su ciò ci sono, in questo libro, pagine e pagine di sapore tragico, che stigmatizzano una vera decadenza storica, politica, morale e spirituale del mondo d’oggi: l’avvento di una sorta di epoca buia. I post-comunisti “hanno soppresso il fine”[25], cioè la stella polare del post-capitalismo. C’è stata una “deriva antropologica e culturale nel campo opposto: il lento graduale totalizzante processo di imborghesimento dei ceti politici e intellettuali che pure provenivano dalla grande storia del movimento operaio”[26] . E ancora, confrontando la vivacità politica del primo decennio del XX secolo e la pochezza del primo decennio del XXI, parla del “miserabilismus del nostro tempo”[27].
Sembrerebbe il trionfo della realtà, ma egli respinge il materialismo storico (p. 25), e a ciò plaudo dal 1992[28]. ritenendo che si possa avere ragione contro la realtà. Non, però, resistendo all’evidenza di un’epoca ormai “forse” persino post-socialista[29], ma niente affatto di accettabilità connessa del capitalismo, che seguita ad essere disumano, e ad esserlo, anzi, sempre di più.
Ma tenere insieme la coscienza di un nostro mondo scomparso e la “spes contra spem”, la speranza pure contro la speranza, è possibile solo ponendosi da un punto di vista che le si contrappone anche senza potersi fondare su rapporti di forza verificabili. Ma questo si può farlo solo se c’è un oltre che il reale non esaurisce, ma è un principio etico e spirituale in noi archetipico, in cui l’istanza di rinascita cristiana si sposa con quella di rivoluzione. La polemica contro la religione oppio del popolo del Marx del 1844[30] è del tutto superata, in una visione post-materialistica, che riconosce l’origine religiosa “cristiana” dell’idea del comunismo e la valorizza[31]. Riprende persino l’idea del San Paolo della seconda lettera ai corinzi: “… se anche il nostro uomo esteriore cade in sfacelo, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno.”[32]
Anche se avrei qualche resistenza a identificare il deus “in interiore homine” col Cristo (pur massima figurazione del Sé in noi infinitizzante, in Occidente), condivido l’idea dell’immanenza del divino in noi, con istanza ineludibile, per rivoluzionare il mondo, di rinascenza o trasformazione interiore o di metànoia[33]. Tronti pone l’istanza di una “metànoia collettiva, una trasvalutazione dei valori correnti: non era questo il sol dell’avvenire che cantavano in forme popolari le antiche canzoni proletarie?.”[34] Ricorre persino l’istanza di un nuovo monachesimo, e si cita lungamente un testo di Panikkar sulla necessità di spiritualizzare la materia e viceversa. Insomma, è posto il problema, di là da venire, di una rivoluzione solidale e post-comunista: una rivoluzione in fieri che s’intravede, oltre comunismo marxismo e “forse” socialismo, che però questa volta – anche secondo Tronti – potrà darsi solo previa rinascita interiore e spirituale, tenendo insieme nuova religiosità e trasmutazione rivoluzionaria solidale dei rapporti sociali. Tutta questa “Prospettiva” la condivido dalla prima all’ultima parola.
- FRANCO LIVORSI,Note su Mario Tronti e il marxismo operaista, “Città Futura on line”, 16 agosto 2023; Operai e capitale nell’Italia in cammino: il “punto di vista” di Mario Tronti, ivi, 3 dicembre 2023; Comunismo italiano, “autonomia del politico” e “spirito libero” nel pensiero di Mario Tronti, ivi, 3 dicembre 2023, ripresi nel sito Dalla parte del torto.it il 13 gennaio 2024 e l’ultimo sulla rivista cit., n. 105 del 2024, pp. 10-13. ↑
- TRONTI, Hegel politico, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1975. ↑
- TRONTI, Il proprio tempo appreso col pensiero. Scritto politico postumo, Il Saggiatore, Milano, novembre 2024. La frase sulla filosofia come proprio tempo appreso col pensiero è nella Prefazionedi G. W. F. HEGEL a: Lineamenti di filosofia del diritto (1821), a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari, 1987. ↑
- TRONTI, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, 2015.Nietzsche, all’inizio del suo Così parlò Zarathustra(1883/1886), a cura di L. Scalero, Longanesi, Milano,1956 e poi 1979, nel Prologo diceva: “Tutti gli esseri fino ad oggi hanno creato qualcosa che andava al di là di loro stessi; e voi invece volete essere la bassa marea di questa grande ondata e tornare ad essere bestie piuttosto che superare l’uomo?”.Si capisce perché Tronti qui, ne Il proprio tempo appreso col pensiero, a p. 31 scriva: “Esattamente nel 1900 muore Nietzsche e la sua inquietante ombra oscura l’intero Ottocento e illumina buona parte del Novecento”. Non avrei saputo dire di meglio. ↑
- Per questo i due testi fondamentali sono: K. MARX, Prefazionea: Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, Roma, 1959 (per la teoria della struttura); K. MARX – F. ENGELS, Il Manifesto del partito comunista (1848), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino, 1962, e con Introduzione di B. Bongiovanni, ivi, 1998 (per la teoria della lotta di classe come base della storia). ↑
- LOSURDO, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari, 5017; A. NEGRI,Dall’operaio massa all’operaio sociale, Intervista sull’operaismo, Introduzione e cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1979 e poi, con Postfazione di A. Zanini, Ombre rosse, Verona, 2007; M. TRONTI, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma, 2009. Ma ii veda soprattutto: M. TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 1966 (poi DeriveApprodi, 2013). ↑
- SUE, I misteri di Parigi(1842/1853), con Introduzione di U. Eco, Rizzoli, Milano, 2007. Sul romanzo fanno molte osservazioni pure K. MARX – F. ENGELS in: La Sacra Famiglia. Ovvero la Critica della critica critica, contro Bruno Bauer e consorti, 1844, e a cura di A. Zanardo, Editori Riuniti, 1972; V. HUGO, I miserabili (1862), Einaudi, Torino, 2014; Oliver Twist (1838), Feltrinelli, 2014. ↑
- BORDIGA, Fiorite primavere del capitale, “Il programma comunista”, 19 febbraio – 4 marzo 1953, e in: Scritti scelti, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 244-256. ↑
- SCHMITT,La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Laterza, Bari, 1975. ↑
- Su ciò è particolarmente da vedere il noto libro di LENIN del 1920L’estremismo, malattia infantile del comunismo, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1963. Lo recensii giovanilmente in: F. LIVORSI, Lenin e l’attuale estremismo di sinistra, “L’idea socialista”, Alessandria, n. 17, 19 ottobre 1963. ↑
- DEUTSCHER, Il profeta armato. Trotzki. 1874-1921 (1954), Longanesi, Milano, 1956; Il profeta disarmato. 1921-1929(1959), ivi, 1959; Il profeta esiliato. 1929-1940 (1965), ivi, 1965. Da confrontare col suo: Stalin. Una biografia politica (1949), ivi, 195. Ma si veda poi: D. LOSURDO, Stalin. Storia di una leggenda nera. Con un saggio di L. Canfora, Carocci, Roma, 2015. Rinvio pure a: F. LIVORSI, “Liberazione sociale e liberazione della coscienza nella storia della socialdemocrazia e del comunismo”, in: F. LIVORSI, Coscienza e politica nella storia. Le motivazioni dell’azione collettiva nel pensiero politico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 155-252. ↑
- AGOSTI, Stalin, Editori Riuniti, 1983. ↑
- LIVORSI, Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov, “Il Ponte”, a. XLVI, n. 6. Giugno 1990, pp. 19-49. ↑
- TRONTI, Il proprio tempo appreso col pensiero, cit., p. 67. ↑
- TRONTI, Ivi, p. 69. ↑
- Ivi, pp. 69-70. ↑
- Ivi, p. 72. ↑
- MORIN – A. B. KERN, Terra-Patria(1993), Cortina, 1994. ↑
- TRONTI, Il proprio tempo appreso col pensiero, cit., p. 81. ↑
- Ivi, p. 39. ↑
- Ivi, p. 39. ↑
- TOGLIATTI, Il Memoriale di Yalta, agosto 1964, ma “Rinascita”, 5 settembre 1964. ↑
- TRONTI, Il proprio tempo appreso col pensiero, cit., p. 39. ↑
- Ivi, pp. 41-42. ↑
- Ivi,p. 23. ↑
- Ivi, p. 27. ↑
- Ivi, pp. 32-33. ↑
- Ivi, p. 25. Ma si confronti con: FRANCO LIVORSI, La fine del materialismo, “Critica Sociale”, gennaio-febbraio 1992, pp. 22-25. ↑
- TRONTI, ivi, p. 60. ↑
- MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Introduzione(1844), in “Annali franco-tedeschi”, a cura di G. M. Bravo, Edizioni del gallo, Milano, 1965, pp. 125-142. ↑
- TRONTI, Il proprio tempo appreso col pensiero, cit., p. 137. ↑
- Ivi, p. 138. ↑
- Ivi, p. 139. ↑
- Ivi, p. 114. ↑
(tratto da: www.cittafutura.al.it/sito, /06/01/2025)
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