Negli ultimi cinquant’anni i cicloni tropicali, nel mondo, hanno fatto circa 800.000 vittime e provocato danni per circa 1.500.000 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti oltre 40 milioni di abitanti delle coste orientali e molte infrastrutture come autostrade, ferrovie, industrie, sono a rischio (Time, 30 settembre). I venti dell’uragano Milton, che ora si è sgonfiato, hanno toccato i 270 chilometri all’ora. Anche in Italia gli eventi estremi, sia pure meno drammatici, sembrano in aumento; si pensi alle recenti alluvioni in Emilia-Romagna.
La stragrande maggioranza degli esperti è certa che ciò dipende dall’aumento dell’effetto serra dovuto alle attività umane che provocano la crescita della concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera.
Ad esempio, nel 1995, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, aveva confermato che le attività umane stavano modificando profondamente il clima. Ma la questione era nota da tempo, addirittura dal 1895, grazie ell’allerta di Svante Arrhenius.
I negazionisti diffondono varie falsità: gli esseri umani non sono responsabili del cambiamento climatico; gli allarmi sull’ambiente sono un pretesto per destabilizzare i Paesi in via di sviluppo, eccetera. Nel 2012 uno dei maggiori esponenti della corrente negazionista scriveva: “Il concetto di Global warming è stato inventato dai Cinesi per rendere non competitiva l’industria degli Stati Uniti”. Javier Milei, il leader argentino, ha definito il cambiamento climatico “una menzogna socialista“!
Alleata involontaria dei negazionisti è quella frazione di ecologisti che potremmo chiamare “ecologisti religiosi”, perché adorano una Natura incontaminata e benevola, una Età dell’Oro che non è mai esistita. Questi si oppongono agli OGM, al nucleare, ma anche agli impianti eolici.
Altri interventi di critica alle misure per ridurre il rischio sono più comprensibili: le preoccupazioni per i contraccolpi negativi sull’economia e sull’ambiente.
Le misure in corso nei vari paesi sono di vario genere, ma, temo, hanno in comune di esssere largamente insufficienti.
In primo luogo lo sviluppo delle energie rinnovabili, ossia non soggette a esaurimento.
Sono dedicate prevalentemente alla conversione in energia elettrica, in sostituzione dei combustibile fossili. Nel 2019, le energie rinnovabili hanno fornito circa il 12% del consumo globale di energia e il circa il 27% di elettricità prodotta globalmente, suddivisa nel 16,45% dal settore idroelettrico, nel 5,50% da eolico, nel 2,72% dal solare e nel 2,64% dalle restanti (tra cui geotermico e biomassa). Secondo il report IEA 2023, nel 2025 la produzione globale da fonti rinnovabili arriverà a circa un terzo dell’energia prodotta globalmente. È importante proseguire su questa strada, anche se i problemi non mancano, in primo luogo quello dello stoccaggio dell’energia elettrica, per compensare l’intermittenza della fonte solare.
Ognuno di noi può contribuire a una minor dipendenza dai combustibili fossili, ad esempio: ridurre gli sprechi, usare in elettrodomestici a maggiore efficienza, rendere le abitazioni energeticamente piu’ efficienti, ridurre l’uso dell’automobile a vantaggio dei mezzi pubblici o della bicicletta, eccetera. Tutto giusto, ma largamente insufficiente.
È un’illusione che il ricorso alla trazione elettrica in sostituzione di quella a benzina e diesel, che certamente riduce l’inquinamento delle nostre città, porti a una riduzione dell’impiego di combustibili fossili, perché l’energia elettrica impiegata, a sua volta, è prevalentemente prodotta dalle centrali termoelettriche, inquinanti.
Lo stesso vale per la trazione a idrogeno.
In alcuni settori interventi risolutivi sono quasi impossibili. Si pensi al largo svilupo della petrochimica. L’industria chimica, compresa la produzione di ammoniaca e di cemento, è responsabile di una percentuale rilevante delle emissioni globali di carbonio, ed è difficile limitarle.
La sostituzione delle centrali termoelettriche con centrali nucleari è una via percorribile, porterebbe certo alla riduzione delle emissioni di CO2. Sono in programma innovazioni: reattori nucleari modulari di piccole dimensioni, i reattori nucleari di quarta generazione. Una delle criticità dell’industria nucleare sono i costi elevati e i tempi lunghi per la realizzazione dei nuovi impianti; esiste inoltre il problema, a oggi non risolto, della messa in sicurzza di una enorme quantità di scorie radioattive.
In aggiunta alla energia nucleare da fissione dell’uranio, spesso si prospetta la soluzione ideale, l’energia generata dalle reazioni di fusione dei nuclei di idrogeno per formare l’elio; la rezione non è inquinante e la fonte, l’idrogeno, è inesauribile (in realtà non si impiega l’idrogeno esistente in natura, ma due isotopi, il deuterio, che esiste in natura, e il tritio, che deve essere prodotto tramite reazioni nucleari).
È la reazione fisica che alimenta il Sole e le altre stelle. È già stata realizzata dall’uomo sulla Terra, la bomba H, o termonucleare, ma questa servirebbe a distruggere la vita, non a risolvere il problema di fonti alternative per impieghi civili.
Il primo test (1 novembre 1952), chiamato Mike, di una esplosione termonucleare, in un atollo
del Pacifico; ebbe una potenza equivalente a quella di mille bombe di Hiroshima.
Molti esperti ritengono che l’energia da fusione nucleare sia ancora lontana decenni. Dagli anni Cinquanta gli scienziati prevedono che la realizzazione di un reattore nucleare a fusione richiederà 25 o trenta anni. Gli investimenti mondiali per gli impianti sperimentali sono immensi, progressi sono ststi fatti, ma mancano sempre quei 25 o trenta anni! Probabilmente un impianto sperimentale entro qualche decina di anni verrà realizzato, ma ben difficilmente si giungerà alla realizzazione di reattori commerciali per impiego diffuso, come invece è stato per i reattori a fissione: si tratta di sistemi complessi che operano in condizioni estreme; si pensi che gli atomi del gas (plasma) di idrogeno reagenti devono essere confinati in uno spazio limitato, per tempi sufficientemente lunghi, a temperature intorno ai 100 milioni di gradi; non esistono recipienti che possano resistere temperature così elevate; si ricorre al confinamento magnetico: le particelle sono costrette a seguire traiettorie a spirale intorno alle linee di forza del campo mantenendosi lontano dalle pareti del recipiente. Occorre poi un sistema che trasformi l’energia ottenuta dalla reazione di fusione nucleare in energia elettrica.
Il metodo alternativo al confinamento magnetico è il confinamento inerziale: si innesca la fusione comprimendo i reagenti. L’anno scorso negli Stati Uniti si realizzò la fusione nucleare impiegando 192 laser pulsati ad alta potenza che hanno concentrato il loro flash di 100.000 miliardesimi di secando su una minuscola sferetta (0,05 centimetri di diametro) contenente il deuterio e il tritio congelati. Un successo, ma difficilmente trasferibile a un impianto che deve funzionare con continuità. Per avere un sistema efficace serve arrivare a migliaia di spari al giorno. Con questa tecnologia si ottenere solo qualche sparo al giorno perché i potenti laser impiegati non possono essere utilizzati con una frequenza molto alta.
Una volta realizzato un prototipo funzionante, il punto cruciale da risolvere è come passare da questi esperimenti alla realizzazione di impianti utili a fini civili, problema non semplice, data la loro estrema complessità fisica e ingegneristica.
Non essendo possibile una drastica limitazione delle emissioni di CO2, una strada che si tenta di sviluppare è quella di “sequestare” parte di quella che si produce nelle varie attività, invece che liberarle nell’atmosfera. Esperimenti sono in corso in varie paesi per immagazzinarla in modo permanente in formazioni geologiche sotterranee dalle caratteristiche adatte: giacimenti di petrolio e gas esauriti o falde acquifere saline. Anche questa soluzione, tuttavia, può dare solo un contributo modesto alla emissione globale di CO2. Inoltre è una tecnologia che richiede grandi quantità di energia.
L’imboschimento è uno tra gli approcci da utilizzare per sequestrare il carbonio e mitigare il riscaldamento globale. Ma anche il contributo che può dare è minimo. Comunque sarebbe bene smettere di tagliarli, come avviene in Amazzonia.
Tutte queste misure hanno sicuramente un effetto di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, e vanno perseguite. Agli stessi obiettivi mira la strategia di di adeguamento agli effetti attuali e futuri dei cambiamenti climatici per renderci meno vulnerabili, per anticipare gli effetti avversi e adottare misure per prevenire o ridurre al minimo i danni che possono causare. Ad esempio, modifiche infrastrutturali su larga scala, come la costruzione di difese per proteggere dall’innalzamento del livello del mare.
Il più recente rapporto speciale del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico indica una stima di aumento del livello degli oceani tra i 26 e i 77 centimetri entro il 2100, con un aumento delle temperature di 1,5 °C. Numeri sufficienti a creare un grave impatto su molte città costiere. Un’altra analisi basata su dati europei e della NASA prevede un aumento di 65 centimetri entro la fine di questo secolo, se l’attuale andamento dovesse continuare.
Nonostante tutti gli allarmi e gli accordi internazionali, le emissioni di gas serra mondiali passano da circa 6 miliardi di tonnellate nel 1950 a 37 miliardi di tonnellate nel 2022, e in tutto il mondo sono frenetiche le ricerche di nuove fonti di gas naturale e di petrolio. Unico dato positivo, la sostituzione del carbone, particolarmente inquinante, con metano e petrolio.
E non si è considerato il rischio aggiuntiva che deriverebbe, in seguito al riscaldamento globale, dallo scioglimento del ghiaccio del permafrost, abbondante nei terreni di Canada, Alasca e Siberia. Verrebbero rilasciate nell’atmosfera enormi quantità di metano, in un feedback positivo. Il metano è un gas serra 84 volte più efficace dell’anidride carbonica.
Data la situazione attuale e le prospettive in un futuro non remoto, in una visione pessimistica (o realista?), si incominciano a valutare misure di adattamento più radicali come la pianificazione dello spostamento ordinato di comunità o addirittura di popolazioni. Sulla Terra esistono zone immense e sottopopulate, come Alaska, Siberia settentrionale, Canada, dove gli effetti perversi del cambiamento climatico saranno più tenui.
Sono pessimista, ma spero di sbagliarmi.
*Auditorium Mattioli, Palazzo del Governatore. Messaggio di posta da Roberto Fieschi
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