CRISI CLIMATICA: CONTRASTARE IL NEGAZIONISMO ARMATO di Mario Agostinelli

 

PREMESSA

Non è compito di queste pagine fornire un’analisi approfondita del voto europeo, se non per i riflessi che una consultazione potenzialmente così vasta potrà avere sulla rappresentanza istituzionale e sui movimenti che dovranno continuare a farsi carico di una crisi climatica galoppante nelle sue manifestazioni, eppure sottratta alla vista da una politica assorbita da ben altro clima: quello delle guerre.

La somma di astensioni e di rigurgiti diffusi di destre anche estreme segnala come tra gli elettori l’associazione tra nuove forme di sentimento anti-migrante, negazionismo climatico e disattenzione al diritto della pace abbia raggiunto un livello inquietante, che non sarà facile invertire. Per il clima non abbiamo più tempo, eppure il Green Deal è stato rallentato e stemperato in alcuni dei suoi vincoli più significativi, dopo che l’UE era stata a lungo all’avanguardia dell’impegno al cambiamento, a favore delle fonti rinnovabili, dell’elettrificazione e del risparmio in un contesto organico e cogente. Al contrario, negli ultimi mesi ed in particolare dopo le elezioni si è ceduto il passo ai tentativi di prolungamento – più o meno mascherato – del ricorso ai fossili, gas in particolare, in ingannevole attesa di un rilancio inimmaginabile del nucleare, comunque in totale dissonanza temporale con gli obbiettivi di decarbonizzazione raccomandati dalla scienza climatica di tutto il mondo.

Non si può non riflettere sul fatto che, ad esempio, uno sguardo ravvicinato al voto giovanile in Germania mostra come il vero disastro sia stato tra i Verdi, sostenitori dell’invio di armi all’Ucraina e sempre meno aperti all’accoglienza di nuova immigrazione. Allo stesso tempo, dobbiamo constatare che l’arretramento opportunista della von der Leyen su tutto l’arco dell’ambiente e del clima non è stato affatto sconfessato dal voto, e che una traiettoria chiara dei partiti della sinistra europea per offrire qualche spunto forte sull’ecologia integrale, in particolare a chi avesse meno di 25 anni, non si è vista, salvo il segnale di una certa consistenza di AVS in Italia.

Di seguito, provo allora ad avanzare alcune valutazioni sulla distanza irragionevole che si sta creando tra ecologia integrale e cittadini, proprio quando l’atmosfera del Pianeta mostra segni più che evidenti di un degrado ormai insostenibile. Dato che temo che si stia sfaldando sotto i colpi delle guerre e della povertà una risposta di massa adeguata a questo vuoto, credo che, almeno sotto il profilo non indifferente dell’analisi e della comunicazione, si debba uscire da una illustrazione del problema tutta incentrata solo sui grafici di crescita dei gas climalteranti, per ancorare più efficacemente le nostre riflessioni sui limiti globali e sulle interconnessioni entro cui si riproduce o viene distrutta la vita, per quanto ci viene dato di osservare e, quindi, interpretare significativamente. Lo dobbiamo fare osservando, percependo e segnalando le inedite anomalie dell’Antropocene direttamente dai territori che abitiamo o elaborandole direttamente dalle immagini ricevute in tempo reale sui miliardi di schermi digitali che ci collegano ad ogni punto del globo. Si tratta di un approccio che ci potrebbe sottrarre allo spaesamento di attenzione che la guerra va imponendo alla crisi climatica.

SE LE GUERRE INCENDIANO IL CLIMA

Secondo il servizio relativo ai cambiamenti climatici di Copernicus (C3S) nel 2023 è stato superato il limite di 1,5°C collocandoci, definitivamente, sopra l’ultima soglia dichiarata sicura dalla comunità scientifica. Con una reazione esemplare, le Nazioni Unite hanno chiesto che le aziende dell’Oil& Gas venissero trattate come una minaccia per la salute. Ma non tutti mettono immediatamente in relazione l’impiego perverso e fuori misura di fonti di energia di elevatissima densità con il ricorso ad armamenti ed ordigni sempre più diffusi ed aggiornati per devastare vite, città, opere civili e territori e minare quindi l’equilibrio dell’ambiente. Passiamo, quindi, ad analizzare l’effetto guerra, che non tutti collegano ad un ulteriore balzo del clima verso la catastrofe.

Nel 2023 si sono verificati il 12% di conflitti in più rispetto al 2022, ovvero, il 40% in più rispetto al 2020. Una persona su sei vive in un’area in cui si registra un conflitto attivo. Nei 234 paesi e territori coperti dall’analisi di ACLED (v. https://acleddata.com/data/ ), la maggioranza – 168 – ha visto almeno un episodio di conflitto nel 2023. I responsabili che hanno gestito in quell’anno la spesa militare mondiale hanno amministrato 2.443 miliardi di dollari, un record storico, con un aumento del 6,8% rispetto all’anno precedente. Ma, ciononostante, gli stessi responsabili non forniscono né dati né misure che riguardino gli effetti climalteranti delle loro operazioni (e che l’istituto SIPRI valuta dell’ordine del 5% globale delle emissioni: un plafond già elevatissimo, che pur esclude gli effetti dei due maggiori conflitti in corso). Operazioni che, quindi, non sono computate nelle previsioni di contenimento della catastrofe climatica cui andiamo incontro. “Military free zone”. come afferma Chomsky. Infatti, le combustioni di carburanti per i mezzi di assalto anche solo in esercitazione, fino all’esplosione di proiettili e bombe utilizzati dalle armate, non vengono per nulla considerati fattori primarie misurabili ai fini dell’aumento dei gas serra, nemmeno in tempo di pace. Figurarsi quale potrebbe essere il loro effetto moltiplicatore nei molteplici teatri bellici sparsi per il mondo!

In una fase come l’attuale, in cui si afferma una economia di guerra, è quasi ovvio che le classi dominanti cerchino di attenuare il rilievo dell’emergenza climatica, dato per scontato che, per contrastarla, uno degli obiettivi sarebbe obbligatoriamente quello di ridurre proprio le emissioni e, quindi, le spese militari. Tutti sanno che i venti di guerra si affidano al possesso e all’approvvigionamento di fonti fossili, verso cui viene incentivata la spesa pubblica, con la conseguenza che obiettivi che prevedono, in uno slancio globale, di dimezzare entro il 2030 le emissioni di gas serra e di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050, rischiano di rimanere solo sulla carta. Frenati, per essere franchi, non in seguito ad una consapevolezza acclarata da tutta la scienza e inverata attraverso le catastrofi sempre più frequenti, ma in virtù del ritorno di un nazionalismo che riscopre confini e alleanze da presidiare, ottenendo un consenso popolare che si fa complice incosciente del negazionismo. La crisi climatica ed ecologica richiederebbe invece cooperazione tra i Paesi: non certo una accelerazione della militarizzazione, sostenuta dal sistema industriale-militare che punta a stornare quote sempre maggiori di investimenti. In questa situazione, la transizione ecologica è destinata a procedere a rilento, distraendoci sempre più dagli obiettivi globali, sempre asseriti nei consessi internazionali, ma mai attuati nelle sedi proprie.

Il persistere inarrestabile di guerre dagli effetti devastanti e di conflitti estesi a più parti del globo; l’enorme dispendio di energie da parte delle potenze nucleari e dei loro alleati per mantenere in allerta un spaventoso armamentario di ordigni micidiali; la insistita resistenza dei governi e delle corporation dei fossili e dell’uranio nel perpetrare un modello energetico centralizzato e altamente ammorbante, stanno, non solo rendendo il nostro mondo più insicuro e ingiusto, ma, nondimeno, annebbiando la percezione di un brusco collasso climatico in continua accelerazione. Mese dopo mese avvertiamo sempre meno che, col metodo della rana bollita, stiamo andando irrimediabilmente verso il superamento dei limiti di integrità e di riproducibilità di una biosfera irripetibile, rispetto la quale siamo interdipendenti e che stenta a convivere con la brusca variazione dell’energia interna che l’Antropocene e le guerre impongono al Pianeta.

Forse, una svolta vincente anche nell’immaginario comune per come e quanto la compatibilità delle attività umane sia posta in relazione con le stesse possibilità di infrangere i limiti della condizione di sviluppo della vita, può diventare la condizione necessaria per giocare a fondo e ad armi pari la partita in questa fase di regressione. Sotto questo punto di vista, ritengo che l’estrema essenzialità fornita dai grafici sui gas climalteranti esibiti mese per mese, luogo per luogo, non riesca a restituire appieno la drammaticità cui siamo esposti. Per questa ragione, prima di passare ad esaminare la situazione globale con un certo dettaglio, sia per quanto riguarda la cura della Terra che le lotte e i movimenti in lenta ripresa, proverò a descrivere la maggior potenza di un approccio diverso da quello da cui siamo stati fin qui prevalentemente attratti.

I GRAFICI DISEGNANO TENDENZE, MA NON ACCENDONO EMOZIONI

C’è stato, a mio parere, un eccessivo affidamento nel supporre che un meccanismo squisitamente quantistico e irreversibile come quello dell’interazione tra la radiazione solare e le molecole che compongono l’atmosfera, fosse colto, in tutte le sue implicazioni e ricadute sul mondo naturale e la vita, da una generazione come la mia o come quella della maggioranza dei politici, formata a scuola sulla fisica newtoniana. E, nemmeno, che se ne potesse far carico facilmente un’opinione pubblica che si è adattata a fidarsi del potere catartico della tecnologia, capace di agire risolutivamente in qualsiasi ambito – non solo artificiale – anche quando non se ne intendano a sufficienza i meccanismi di funzionamento. Pertanto, l’impennata di ppm di CO2 non ha turbato né tantomeno sconvolto abbastanza le generazioni umane Il fatto è che qui si tratta di Gaia, non di uno strumento o di un manufatto. Forse, altro vale per le nuove generazioni e per gli studenti, che apprendono che la realtà è diversa da quella che ci appare e che essa si estende dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande secondo leggi che sembrano bizzarre ai nostri sensi, ma che rendono conto di quanto accade davvero nel mondo naturale. E in presenza di limiti che riguardano la sopravvivenza della biosfera, affidarsi esclusivamente alla rappresentazione di quanto sia abnorme e deleterio l’aumento dei gas climalteranti tracciati su grafici di ogni tipo, significa per molti affidarsi, magari fideisticamente, alla scienza, ma non sapersi consapevolmente relazionare a fenomeni anomali della biosfera, che si manifestano in forma estrema sotto i loro occhi.

Questa discrasia, in parte, non è stata in grado di sollevare una reazione di massa che si muovesse con rigore democratico e con lotte adeguate per ottenere gli obbiettivi verso net zero prefissati sulla carta e sempre disattesi, opponendosi, contemporaneamente, al negazionismo più rozzo. Ne ho fatto esperienza diretta in lezioni tenute nelle scuole e in dibattiti pubblici dove quasi nessuno aveva letto – non dico pubblicazioni scientifiche o divulgative recenti – ma nemmeno provato ad interpretare la potente e rivoluzionaria struttura descrittiva della Laudato Sì sulla vita sulla Terra.

Vale tutt’ora quello che sostenevano i grandi del Rinascimento – a partire da Piero della Francesca o Dürer o Leonardo – che l’interdisciplinarietà è indispensabile e che “arte e scienza, creatività e matematica, rappresentano i fondamenti complementari e inscindibili per la ricerca della verità e delle leggi che governano l’universo”. Lo sforzo creativo è indispensabile per interpretare ogni misura e per offrire alla coscienza una comprensione che travalica il dato sotto osservazione.

Ho comunque la convinzione che l’insistenza esaustiva sull’indice di aumento dei gas serra e sulla loro correlazione con le temperature, pur articolate con precisione a varie altitudini e diverse altezze sul Pianeta, non sia stata a sufficienza in grado di favorire l’immaginazione da metabolizzare nelle coscienze per confermare l’attendibilità del degrado della nostra vita e della biosfera. Così, le catastrofi naturali crescenti sono apparse episodi e non fasi di uno stesso processo irreversibile. In sostanza, quelle brusche variazioni delle curve della CO2 o del CH4 sui diagrammi, non si legano immediatamente all’immaginario, né si imprimono nello spazio-tempo vitale dei contemporanei, che pure vedono infrangere argini, bruciare foreste, sommergere isole, prosciugare bacini.

Se non si collega visivamente la crescita di combustioni fossili e la mancanza di cura della Terra alla saturazione di gas nocivi nelle nostre rocce, nei nostri oceani, nell’acqua delle nostre cantine, nell’aria delle nostre pianure, nelle foreste pluviali, nella siccità dei terreni da cui partono stuoli di migranti ecologici, fatalismo e negazionismo possono diventare i nostri nemici mortali.

Immaginiamo – finalmente! – non le pareti di casa nostra, ma il gonfiore di un Pianeta in tutte le sue componenti, circondato da un’atmosfera malata e irraggiato da un sole sempre più schermato dalle attività umane che dobbiamo risanare, spostando la crescita folle della spesa militare verso questa meta.

Forse non abbiamo avuto a disposizione né istruito abbastanza combattenti  non rassegnati, che avrebbero saputo scoprire come  i comportamenti, i modelli di consumo, l’organizzazione della produzione, la massimizzazione dei profitti, lo sfruttamento, gli scarti, l’ingiustizia sociale, si riconducono ad un sistema – quello capitalista – che rinsalda ogni giorno il suo di immaginario: spesso costruito sui testi scolastici e sui media ed ora pericolosamente affidato a dati elaborati, raccolti e indagati nei cloud o depositati sui server privati, in imprudente attesa di una superintelligenza che riconduca le stravaganze del clima alle leggi della tecnocrazia.

L’APPROCCIO INNOVATIVO DEI LIMITI PLANETARI DI ROCKSTRÖM

L’ONU aveva costituito da tempo due istituzioni fondamentali per comprendere al meglio la dimensione e gli effetti dei cambiamenti in atto nel sistema climatico e la dimensione e gli effetti degli impatti sullo stato degli ecosistemi e della biodiversità, scegliendo sia la misura delle emissioni in atmosfera come elemento determinante con L’IPCC (v.https://www.ipcc.ch/ ), che lo stato delle conoscenze sulla situazione della biodiversità e degli ecosistemi nel mondo (v. https://www.ipbes.net/ ) con l’IBES.

Per la verità, l’attenzione prevalente nel sistema economico e politico ha cercato di misurarsi, magari contestandoli, con i dati dell’IPCC, ma non ha quasi mai osato prendere in considerazione gli allarmi lanciati dall’IPBES: gli uni e gli altri in strettissima connessione scientifica, ma in palese dissociazione per quanto riguarda la proiezione immediata sull’immaginario dell’opinione pubblica.

Anche sulla base di questa dovuta precisazione, passiamo ora alla proposta avanzata nella premessa: dare alla auspicata ripresa del movimento sul clima una base di creatività e immaginazione più ampia e stimolante di quella offerta dalla essenziale raffigurazione grafica dei dati sull’aumento delle temperature o dei gas serra sul Pianeta.

Viene quindi proposto di fare in modo che valori scientificamente acclarati e significativi, riportati in estrema sintesi su assi di coordinate tra loro collegate, trovino il modo di far vibrare le corde della sensibilità e stimolare la fantasia creativa di quanti colgono nel vivente e nelle sue manifestazioni una singolarità non riproducibile in alcun modo, se non biologicamente. Una singolarità che sta mutando realmente in peggio, quando si prova a rappresentarla quantitativamente e qualitativamente nella pienezza degli effetti prodotti da cause non immediatamente note all’intera comunità umana.. Occorre, insomma, avviarsi e riferirsi alla percezione e alla comunicazione di mutamenti non ordinari, che si vanno acuendo nell’arco della nostra stessa vita e che si protrarranno con maggiore frequenza in quella dei propri figli e successori. Capiremmo che nulla di artificiale potrebbe supplire alla fine del vivente e della natura che lo comprende in se stessa. Al punto che “niente di questo mondo ci risulta indifferente” come scrive Francesco in una Enciclica che ha cercato di dare le ali ai nostri pensieri, senza ancora disancorarli a sufficienza dalle nostre abitudini.

Credo che sia di grande aiuto, anche contro il negazionismo più tenace, l’approccio fornito dalla Teoria del Superamento dei Limiti Planetari di Johan Rockström, vincitore del premio Tyler – un Nobel per il clima.  La scuola svedese che fa riferimento alla sua elaborazione offre infatti il più esauriente piano di rientro entro cui lavorare, con una totale e incessante interazione tra i vari piani di preservazione dell’esistenza umana e della natura, ormai messa profondamente in crisi.

Come già accennato, la storia dell’aumento della temperatura del globo e, quindi, della crisi climatica, è quasi sempre derivata da analisi complesse che finivano con l’essere raffigurate da grafici cartesiani, cioè da numeri collegati tra loro in base a singole osservazioni e rappresentate in relazione matematica con linee ascendenti, il cui limite rimaneva tutto da interpretare. ancorché preteso non definitivo dalla confidenza nel progresso scientifico.

Ma lo spazio in cui ordinariamente viviamo e pensiamo, lo spazio delle cose reali, è diverso dallo spazio di cui tratta la matematica. Dopotutto, una teoria non è del tutto equivalente all’argomento rispetto al quale viene sostenuta. La si può arricchire e, dopo tutto verificare. C’è, allora, una possibilità rispetto alle nostre percezioni usuali dello spazio e del tempo, di trovare un modo semplice, razionale e riscontrabile per trattare il percorso proibito – il limite – di quelle curve in crescita che vediamo mutare non solo sulla carta, ma in base alle nostre osservazioni dirette del mondo reale?

Proverò qui ad assecondare una nuova  tipologia di analisi, non per contraddire l’IPCC, ma per far confluire i due sforzi (IPCC e Boundary Limits,) in un’unica direzione, amplificando le possibilità di verifica e di proposte alternative a fronte della scarsa cura del Pianeta, riscontrabile anche direttamente nei singoli territori.

Si tratterebbe, in un certo qual modo, di rivestire la Terra dell’abito della forma e del senso nuovo indispensabile a non soccombere all’Antropocene, partendo dal basso e dai territori, come suggerisce la scuola di Joahn Rockström (Boundary Limits).

Si tratta di un nuovo approccio alla sostenibilità globale in cui si definiscono i confini planetari entro i quali ci aspettiamo che l’umanità possa operare in sicurezza.

Trasgredire uno o più confini planetari può essere deleterio o addirittura catastrofico, a causa del rischio di superamento di soglie che innescherebbero cambiamenti ambientali improvvisi e non lineari all’interno del Pianeta intero.

Per giungere a questa operazione Johan Rockström ha concentrato i suoi studi sui confini planetari e i processi della biosfera decisivi affinché sia mantenuto lo stato di stabilità ambientale del Sistema Terra nel quale l’essere umano si è trovato a vivere negli ultimi 12.000 anni (Nell’Olocene). Si pone, quindi, ben oltre il riferimento esclusivo ai soli parametri dei gas serra, che rimangono comunque il segnale più sinteticamente efficiente, ma non sufficiente nel rappresentare la sintesi di una catastrofe dai molteplici aspetti. La novità e la validità del passaggio da grafici cartesiani a una rappresentazione multidimensionale, come quella di Rockström, si può esemplificare con un caso: se anche solo l’Artico e l’Amazzonia superassero i confini planetari previsti, aggiungerebbero all’atmosfera quantità significative di carbonio immagazzinato nel permafrost e nelle foreste pluviali da render invivibile la terra.

Vengono così individuati i sistemi naturali che sostengono la vita sulla Terra e i cambiamenti che possono essere apportati in modo sicuro al loro interno senza alterare profondamente la vita. La parola centrale diventa quindi la cura, non più solo il necessario contenimento delle emissioni dei fossili a seguito delle combustioni provocate dagli umani.

Sono nove i processi biofisici da preservare entro limiti fissati, oltre i quali le risorse della Terra e la sua capacità di rigenerarsi sarebbero gravemente compromessi,

Nel dettaglio, i confini planetari sono: cambiamento climatico, acidificazione degli oceani, riduzione dello strato di ozono, degrado forestale e profondi cambiamenti di utilizzo del suolo, modifica dei cicli biogeochimici di azoto e fosforo, eccessivo sfruttamento delle risorse idriche, perdita di biodiversità, inquinamento atmosferico da aerosol, nuove sostanze chimiche artificiali.

La questione climatica, in sostanza, perde la sua parvenza astrattamente matematica (la velocità con cui la curva dei climalteranti sale negli anni a venire) e sposta l’attenzione su elementi, cose reali e una biosfera governabili in loco, con una partecipazione che non ammette separazioni.

In sostanza, spingendo troppo oltre il sistema Terra, rischiamo che sistemi biologici e fisici critici, come le foreste e le calotte glaciali, raggiungano un punto di non ritorno, modificando radicalmente il loro stato e le loro funzioni e influenzando ogni altro parametro vitale. Per un approfondimento si veda il grafico multidimensionale qui riportato (v.https://earth.org/interview/towards-a-new-global-approach-to-safeguard-planet-earth-an-interview-with-johan-rockstrom/).

A settembre dello scorso anno abbiamo superato sei dei nove confini planetari e siamo già oltre lo spazio operativo di sicurezza, il che significa che il pericolo di un cambiamento significativo delle condizioni della biosfera è alto. La biodiversità e i cicli dell’azoto e del fosforo sono quelli che hanno oltrepassato maggiormente i loro confini, ma anche il cambiamento climatico e il mutamento delle dinamiche di utilizzo dei terreni sono al di fuori del loro spazio operativo di sicurezza.

Viene così individuato un nuovo sistema di governance globale che protegga e preservi le funzioni di regolazione del pianeta fondamentali per la vita.

La comunità scientifica ha iniziato quindi a guardare al pianeta con occhi diversi, come un sistema bio-geofisico complesso e autoregolante caratterizzato da sfere interconnesse – litosfera (terra), idrosfera (acqua), biosfera (esseri viventi) e atmosfera (aria) – predisponendo una comprensione dei punti critici, ovvero i molteplici stati stabili di un sistema terrestre che, se spinti troppo oltre, potrebbero provocare cambiamenti inarrestabili, permanenti e irreversibili nello stato dell’intero sistema Terra.

CRISI CLIMATICA E NEGAZIONISMO: SOTTO TIRO IL GREEN DEAL UE

Dopo queste valutazioni su un possibile ampliamento del nostro approccio alla cura della Terra, riprendo da qui, in dettaglio, lo stato di degrado attuale del clima, mettendo in luce sia il rapporto irresponsabile che nei suoi confronti mantengono le classi dirigenti sia le reazioni, ancora sporadiche, ma consapevoli ed in crescita, che stanno rinascendo soprattutto tra le nuove generazioni.

E3CI, un istituto riconosciuto a livello mondiale, che ha lo scopo di informare sull’aggiornamento mensile delle componenti climatiche e di fornire informazioni aggiornate sull’affidabilità degli indicatori che forniscono notificazioni sui principali pericoli potenzialmente indotti da dinamiche meteorologiche estreme, ha riassunto nella newsletter di Maggio 2024 le condizioni del continente europeo.

Su scala europea, il mese di Aprile 2024 rileva un’anomalia nel valore della temperatura media di circa 2°C in più rispetto al riferimento dello stesso mese nelle decadi 1981-2010. In termini di valore estremo, l’indicatore E3CI associato alle temperature massime estreme restituisce valori maggiori di +1 °C in quasi tutto il continente.  Nello specifico, la Penisola iberica e l’Italia meridionale hanno vissuto giornate con temperature massime che hanno superato i 30 °C. D’altro canto, la penisola scandinava è stata caratterizzata da un valore dell’indicatore relativo associato a temperature fredde estreme maggiore di -1 °C. Un divario così marcato non era mai stato registrato a memoria d’uomo: “Un continente spezzato”.

Per quanto riguarda lo stato idrologico, secondo i valori di precipitazione cumulativa, Aprile e Maggio 2024 sono stati prevalentemente più piovosi della media sulla maggior parte dell’Europa nordoccidentale, centrale e nordorientale. La maggior parte dell’Europa meridionale, comprese gran parte della Spagna orientale, l’Italia peninsulare, i Balcani occidentali, la Turchia, oltre all’Ucraina e all’Islanda, risultano più aride della media. Condizioni più calde e secche hanno portato all’innesco di incendi boschivi in questi stessi territori. Valori estremi di precipitazioni e grandinate più pronunciate rispetto a quelle calcolate nel periodo di riferimento, si osservano in Irlanda, parte dell’Italia, Spagna, Danimarca, Germania, Austria, regioni baltiche, Bulgaria, Romania. Per quanto riguarda i valori record mensili (ad esempio, le anomalie più grandi osservate da Aprile) ben 431 regioni hanno raggiunto i valori più alti da 175 anni. L’Europa meridionale e centrale si sta scaldando di più rispetto al resto del globo e le condizioni di siccità si osservano soprattutto nella Sicilia, in Spagna e nell’Europa orientale.

Eppure, anche di fronte a queste perniciose constatazioni, le conoscenze e le osservazioni scientifiche più consolidate continuano ad essere messe in dubbio o negate sulla base di convinzioni personali o di affermazioni di interessi specifici, soprattutto quando i risultati delle ricerche vanno contro interessi economici o ideologie politiche. Campagne sistematiche di disinformazione sono state promosse da lobby economiche per confondere i cittadini e diffondere dubbi sulle evidenze scientifiche acquisite. La produzione di false verità contribuisce a frenare, rimandare e persino bloccare le azioni necessarie a contrastare i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità, riducendo gravemente persino le possibilità di adattamento.

Il puro riferimento ai grafici sull’aumento delle temperature dovute ai climalteranti non bastano, evidentemente, a suscitare una reazione adeguata.

Negare, ostacolare e alterare la conoscenza scientifica, corrisponde ad esporre la società e tutti noi a rischi gravi ed evitabili. Eppure, i politici, i mezzi di comunicazione e tutte le componenti della società civile, imprenditori, educatori e gli stessi scienziati hanno una responsabilità morale e pratica di seguire e sostenere la conoscenza scientifica disponibile e di tradurla in immaginazione e resistenza politica e creativa.

Le politiche europee per il clima e la transizione ecologica di questi anni avrebbero potuto rappresentare lo specchio fedele delle potenzialità dell’Unione Europea in campo internazionale, ma le incertezze ed i passi indietro hanno ingenerato contraddizioni e pericolosi cambi di rotta. Anche in questo caso ha avuto grande peso un negazionismo sottile, affidato alle paure ingenerate tra i più indigenti e nel mondo del lavoro dai costi della conversione. Uno stop and go continuo, incapace di disegnare scenari e indicare traguardi che avrebbero posto l’UE all’avanguardia nel mondo. Un percorso a ostacoli, condizionato dallo scontro tra due cordate in competizione: da un lato i fautori dell’accelerazione del cambiamento e dall’altro i difensori dello status quo; gli uni che spingono sull’innovazione dei sistemi di produzione e consumo, soprattutto a livello territoriale, gli altri a sentinella degli interessi delle fonti fossili.

L’UE ha, in definitiva, rinunciato a difendere efficacemente, come era stato inizialmente convenuto, la salute e l’ambiente, non promuovendo lo sviluppo di un autentico spazio sanitario europeo e procedendo nell’attuazione del Green Deal con  misure che non  limitassero, come convenuto, l’innalzamento della temperatura atmosferica, Nei fatti, nell’ultimo anno, la UE ha rallentato   uno sviluppo economico sostenibile non solo dal punto di vista energetico e finanziario, ma anche ecologico tout court, nel rispetto dei diritti umani, assecondando con estrema determinazione la logica dell’economia di guerra.

Per quanto riguarda l’Italia, il fantasmagorico piano Mattei ha preso forma, con dati economici, obiettivi e finalità discutibilissime. Sul piano strettamente economico si tratta di una media di 1,7 miliardi l’anno, che rappresentano meno del 3% di quello che gli immigrati africani nei paesi occidentali mandano alle loro famiglie. Si punta praticamente tutto sugli investimenti pubblici e privati, che dovrebbero rivoluzionare il modo di intendere la cooperazione con il Continente africano. Di fatto,

il principale obbiettivo riguarda petrolio e gas. Il secondo, esplicitato chiaramente, riguarda la valorizzazione della filiera del sistema alimentare Italia, a partire dai paesi produttori di caffè, che oggi risentono delle difficoltà di approvvigionamento, a causa del mutamento climatico che ha colpito i paesi produttori. Quello che si sottace, riguarda il fatto che saranno presi in considerazione solo progetti da 200-300 milioni di euro ciascuno come minimo. Quindi, nessuna possibilità di partecipare per le Ong di cooperazione internazionale, né per i Comuni che in questi anni hanno portato avanti progetti dal basso che andavano incontro alle esigenze delle popolazioni locali. Nel piano Mattei, centrato sui fossili e sull’interesse di alcune aziende private, l’Africa viene proposta come opportunità di business, consegnando la questione dei migranti agli equilibri delle autocrazie al di là del Mediterraneo.

Sotto la pressione interessata di Coldiretti il nostro Paese, con Finlandia, Ungheria, Olanda e Polonia si è opposto all’approvazione della legge europea sul ripristino della natura: uno sprazzo di encomiabile tutela dell’ambiente sostenuto da una risicata maggioranza solo a fine legislatura.

A peggiorare il giudizio sulla politica nazionale in corso, va annoverato l’annuncio del Pniec inviato alla Commissione europea, caratterizzato da “un approccio realistico e basato sulla neutralità tecnologica”. Fa scandalosamente capolino in Italia, per la prima volta dalla chiusura delle centrali (1990), anche il nucleare, il cui peso nel mix energetico è in entrato in fase di valutazione, mentre nella classifica europea la penisola occupa solo la diciottesima posizione per capacità di eolico installata a terra e la quartultima per l’eolico offshore.

L’ANDAMENTO DEL CLIMA A LIVELLO GLOBALE

Il 2023 è stato l’anno più caldo sulla Terra da 175 anni, da quando cioè si registrano metodicamente le temperature negli osservatori abilitati.

Dal 1900, la temperatura media dell’aria superficiale della Terra è aumentata di circa 1 °C, con oltre la metà dell’aumento verificato dalla metà degli anni ’70. Un’ampia gamma di altre osservazioni, come la riduzione del ghiaccio marino artico, la riduzione del manto nevoso e il riscaldamento degli oceani, insieme ad altre indicazioni dal mondo naturale, come le migrazioni di alcune specie, forniscono prove incontrovertibili del riscaldamento su scala planetaria. Occorre notare che per l’opinione pubblica queste osservazioni non traspaiono immediatamente dai grafici che rilevano l’aumento dei gas serra.

Mentre viene data per scontata la crescita di +1.5°C entro un quinquennio, l’immagine che viene rilanciata dal presidente ONU è traumaticamente drammatica: “Come il meteorite che spazzò via i dinosauri, l’impatto del genere umano sta diventando fuori misura. Nel caso del clima, noi non siamo i dinosauri: siamo il meteorite” ha detto Antonio Guterrez. In effetti, il budget di carbonio rimanente per limitare il riscaldamento a lungo termine a 1,5 °C è di circa 200 miliardi di tonnellate, ma stiamo rilasciando 40.000 milioni di tonnellate all’anno. In meno di 15 anni saremo out. Se le emissioni continueranno sulla loro traiettoria attuale, allora ci si aspetterebbe un riscaldamento da 2,6 a 4,8 °C in aggiunta a quello che si è già verificato nel corso del XXI secolo. Le differenze tra le due cifre dipendono dal considerare o no i Boundary Limits di cui abbiamo trattato all’inizio.

Fuori dal nostro Continente il cambiamento climatico si tocca con mano nel disastro degli sfollati, concentrati particolarmente nel Sud delle Americhe, dall’Asia e nel centro Africa. Nelle ultime settimane, le piogge torrenziali in Afghanistan, Brasile e in Africa orientale hanno causato forti inondazioni in città e villaggi, hanno distrutto case e mezzi di sostentamento e creato difficoltà alle popolazioni più vulnerabili. Rifugiati e sfollati hanno visto i loro rifugi spazzati via, mentre le comunità ospitanti hanno perso le loro case e sono state sfollate a loro volta.

Le piogge intense sono destinate ad esserlo sempre più in molte regioni del mondo e si prevede che le inondazioni saranno più frequenti e gravi.

Ad esempio, in Brasile, le inondazioni hanno colpito lo Stato meridionale del Rio Grande do Sul nel mese di Maggio ed hanno provocato almeno 161 morti e colpito oltre due milioni di persone. In Africa orientale, le forti piogge di El Niño, da Marzo hanno colpito una fragile regione in via di sviluppo, che ospita 4.6 milioni di rifugiati complessivamente in 11 Paesi. Nell’ultimo decennio ci sono stati in media 24 milioni di sfollati all’anno, a causa di disastri e a dimostrazione che spostamenti e vulnerabilità climatica sono interconnessi.

Per quanto riguarda l’America Settentrionale il fumo degli incendi della West Coast è stato talmente fitto da arrivare ad offuscare anche il cielo della costa orientale fino a 4mila chilometri di distanza, mentre i fuochi insistenti nelle foreste canadesi hanno intaccato per giorni l’atmosfera di New York. Secondo le previsioni degli esperti, un americano su 12 potrebbe dover lasciare la propria abitazione nei prossimi 45 anni a causa del cambiamento climatico e i “megafires”, incendi enormi come quelli osservati in California, potrebbero colpire aree abitate da 28 milioni di americani entro il 2070.

Dall’altra parte del globo, a Pechino si sono registrate precipitazioni per oltre cinquecento millimetri, mentre per cinque giorni la temperatura è salita sopra ai quaranta gradi. Nello Xinjiang, la regione autonoma all’estremità occidentale della Repubblica Popolare, si è arrivati fino a cinquantadue gradi.

Il sud-ovest del Giappone ha conosciuto le piogge più intense di sempre, con alluvioni e frane causate dalla rottura degli argini di otto fiumi nelle prefetture di Fukuoka e Oita. Problemi seri anche in Corea del Sud, dove le piogge torrenziali hanno causato quaranta morti e migliaia di evacuazioni, soprattutto nel centro-sud del paese asiatico.

Nonostante questo quadro disarmante, alla COP28 di Dubai l’ambizione della vigilia si è tramutata in frustrazione e rabbia: la bozza di accordo proposta dagli Emirati Arabi archivia il ‘phaseout’ – l’eliminazione graduale dei combustibili fossili – con un compromesso al ribasso che è una concessione alle ricche petromonarchie del Golfo. Di fatto, è venuto meno il primo bilancio globale – il cosiddetto “Global stocktake” – sugli impegni presi per rispettare gli accordi di Parigi e delineare la rotta per il prossimo decennio. La situazione e le misure prese destano pertanto il massimo di apprensione e sconforto.

Nel mondo tecnologicamente più avanzato si delinea un ulteriore fattore sfavorevole al contenimento delle temperature. Secondo il Rapporto sulla sostenibilità ambientale 2024, pubblicato a Giugno da Microsoft, nel 2023 le emissioni di biossido di carbonio dell’azienda sono aumentate di quasi il 30 per cento. La crescita delle emissioni va attribuita alle emissioni indirette derivanti dalla costruzione di data center aggiuntivi per soddisfare la crescente domanda di servizi cloud da parte dei clienti. Un’espansione intervenuta in concomitanza con l’aumento dell’impegno dell’azienda di Bill Gates nel campo dell’intelligenza artificiale, culminato, lo scorso anno, con un investimento di 10 miliardi in OpenAi, la società dietro al successo di ChatGpt. Un avvertimento per quanto riguarda il trend di crescita dei consumi energetici in tutte le regioni del globo terrestre.

UN NUOVO PROTAGONISMO DEGLI STUDENTI?

A favore della transizione ecologica sono oggi in campo anche nuove e innovative forze di mercato e di progresso tecnologico, che non bastano tuttavia a mutare il quadro pessimistico cui andiamo incontro. Manca ancora una presenza conflittuale a dimensioni globali e di massa. La lunga pausa della pandemia ha bloccato l’espansione dei movimenti promossi dalle  nuove generazioni, anche se una lenta ripresa si sta riassestando, alla ricerca di nuove modalità di espressione e di intrecci con altre emergenze che rendono il futuro più problematico.

Ultima Generazione, uno dei movimenti giovanili e studenteschi, si è affacciato ormai sulla scena politico-sociale come una realtà costante e radicale, in una chiave di “disobbedienza e resistenza” Non si tratta di un movimento puramente ambientalista, come spesso viene definito. Affronta la crisi ecologica come la manifestazione di un sistema intero che non funziona. Si tratta di un movimento sociale, che lotta “per far riavvicinare la politica ai bisogni dei cittadini”.

Usa azioni anche non tradizionali di disobbedienza civile e il potere dello scandalo per creare un dialogo diretto con la popolazione, con azioni a minimo impatto legale. Nonostante un’attenta autodisciplina, il movimento è stato oggetto di censura e repressione, che il governo Meloni da noi ha esibito con estrema durezza.

Sotto un altro aspetto, ma in continuità con un cambio di passo delle novità sfidanti intraprese dagli studenti, va annoverato il clamoroso crollo della libertà accademica negli Stati Uniti, che non si vedeva dai tempi degli anni ’50 maccartista e dalla violenta repressione delle proteste contro la guerra del Vietnam alla fine degli anni ’60. Risulta pertanto una effettiva sorpresa che la portata della repressione si sia ripetuta proprio adesso in America, nelle stesse Università di quegli anni. Se la Palestina è il motore principale del dissenso, è il sistema complessivo che viene spogliato delle illusioni liberiste e, quindi, il movimento aggancia anche la critica alla crescita, all’ingiustizia sociale e a quella climatica. Sta maturando – a mio giudizio – un tempo di lenta presa di distanza dai rapporti di forza e dal modello scarsamente democratico che i leader mondiali recitano su una scena dove i popoli non sono sovrani: riguarda il clima, il diritto al salario, le guerre in corso e soprattutto l’ostilità dichiarata verso una guerra mondiale in cui l’Occidente gioca una carta azzardata e non dissimulata per l’egemonia globale. Del resto, la riprova della vista corta di un atlantismo bellicoso ad oltranza si è già rivelato più volte nell’esito delle votazioni delle riunioni plenarie all’ONU; né desta sorpresa che alla conferenza per una proposta di pace organizzata a Lucerna abbiano preso le distanze dalle posizioni di Meloni Biden Macron e Zelensky non solo la Cina e l’India, ma, anche, il resto dei Paesi BRICS, oltre a quasi tutto il Sud globale e il Vaticano.

In Europa gli attivisti di Extinction Rebellion e Ultima Generazione hanno accumulato una pletora spropositata di provvedimenti di carattere penale, amministrativo ed economico. E’ successo in tutte le capitali: con arresti a Berlino alla porta di Brandeburgo, a Parigi alla conclusione dell’assemblea generale dell’immobiliare Amundi, a Londra con l’occupazione di Trafalgar Square, a Madrid per fermare la corsa alle energie africane, a Roma con il blocco della circonvallazione anulare. L’associazione A Sud, dopo un’azione di disobbedienza civile, è stata dipinta dalla stampa come un gruppo di criminali o terroristi. Nello stesso periodo, le nutrite manifestazioni contro le bombe nucleari USA ad Aviano e Ghedi sono state isolate da cordoni di polizia e ignorate dai media compiacenti.

 

Con l’intensificarsi delle azioni di protesta, sia a livello individuale che collettivo, si è alzato il livello della repressione. A dirlo non sono solo gli attivisti, ma l’Onu stessa, che per la difesa di chi in alcuni casi rischia anche la vita, ha istituito nel 2022 la figura di un garante nell’ambito della Convenzione di Aahrus, che si occupa della partecipazione, l’informazione e l’accesso alla giustizia in materia ambientale e che denuncia leggi e politiche che limitano ulteriormente i diritti fondamentali attraverso l’impiego dele forze dell’ordine, che esercitano abusi prima e durante le proteste, con eccessi di violenze e l’agitare dei manganelli

Il caso americano è, comunque, il più sintomatico. Le università d’oltreoceano e il sistema liberale di regole che le sostengono hanno sempre funzionato bene quando la libertà accademica non portava al dissenso dalle idee egemoniche. Ma un uso eccessivo della coercizione avrebbe potuto minacciare la stabilità e innescare una maggiore mobilitazione popolare piuttosto che la desiderata smobilitazione. Di conseguenza, all’inizio, si è mostrata una tolleranza inusuale e metodi di dissuasione meno coercitivi. Successivamente, però, sono divampati gli scontri con arresti dei manifestanti pro-Gaza negli atenei di diversi stati. La protesta ha incendiato anche gli atenei europei da Parigi a Berlino passando per Valencia, mentre in Italia gli studenti dei collettivi e i giovani palestinesi hanno manifestato solidarietà ai colleghi americani sgomberati dalla polizia.

Quegli studenti – e quelli italiani che si sono mossi in misura più ridotta nelle università a causa anche della coincidenza con ricorrenze storico-politiche (il 25 Aprile), le elezioni, la fine d’anno scolastico – sperimentano che quando il dissenso dalle idee egemoniche minaccia l’ideologia dominante e testa la sua tolleranza, la repressione si manifesta in varie forme, anche e soprattutto all’interno delle università e da parte di forze esterne, sia private che pubbliche.

Tale è, dunque, la situazione in corso: coniugata in vari modi in diversi paesi, ma ovunque segno di un risveglio di una generazione fino a ieri vivace principalmente sul clima, ma ormai matura per mettere in sintonia le tre grandi emergenze che la sovrastano: guerra nucleare, clima, ingiustizia sociale.

Alla ripresa in autunno – o forse ancora prima – il movimento giovanile mostrerà, credo, più di un sussulto.

UNA CONSIDERAZIONE FINALE

I tre paragrafi precedenti danno per esteso la misura di quanto rapida possa essere la deriva geofisica, biologica, geopolitica e sociale di questo inizio millennio e di quanto siano contrastati gli spazi di rigenerazione.

Il merito di aver individuato nei climalteranti l’origine della crisi climatica è stato e rimane decisivo perché individua nella sconfitta degli interessi dei combustibili fossili il primo passo verso la giustizia sociale.  Ciò che manca in questo quadro è il fatto che gli Stati stessi, hanno interessi istituzionali nel mantenere la capacità e il consumo di combustibili fossili, sia privati che statali e che, di conseguenza, gli stessi cambiamenti che stanno alimentando eventi estremi – incendi da record, inondazioni bibliche e siccità – stanno anche cambiando ciò che conta come “normale” tra queste calamità acute senza che esplodano forti manifestazioni di dissenso nei confronti delle politiche dei governi. Questi cambiamenti meno immediatamente o localmente  incisivi della temperatura media, influenzano comunque direttamente le condizioni di lavoro dei lavoratori agricoli e degli addetti alla logistica, distruggono sedi di produzione e di reddito, alimentano l’odierno spostamento climatico e guidano l’innalzamento del livello del mare e i rischi di uragani che minacciano alcuni dei più grandi centri abitati del mondo. Dobbiamo anche riflettere sul fatto che le ramificazioni delle emissioni di gas serra saranno legate molto più fortemente agli ultimi decenni di inazione che a qualsiasi vittoria politica incrementale che gli ambientalisti e la sinistra saranno in grado di ottenere nel prossimo futuro. A meno che essi spostino e intreccino la loro azione non solo sullo svincolare l’economia mondiale dai combustibili fossili, ma, contemporaneamente, superino il riduzionismo delle emissioni di carbonio, e, contemporaneamente, abbandonino la fantasia tecnocratica secondo cui prevenire le crisi politiche a venire consista semplicemente nel passare all’elettrico e nell’aumentare il peso relativo delle rinnovabili.

Il balzo in avanti indispensabile sta nel detronizzare il capitale fossile in modo da poter controllare abbastanza del nostro sistema politico ed economico per trasformare tutto il resto con un programma da costruire proprio in questo spazio di evanescente  passività.

Nel caso specifico che ho trattato, cioè l’approccio definito “Boundary Limits”, è proprio dal partire dalle normalità che si può risalire alle cause determinanti, spesso poco comprese o addirittura colluse perfino con gli interessi di interi settori del lavoro, per esprimere a fondo una pratica di ecologia integrale, indistinguibile dalla giustizia sociale e dalla pace.

Identificando diversi processi critici del sistema Terra e definendo soglie – o confini – che non dovrebbero essere superati per mantenere un pianeta stabile e sostenibile, si offre ai movimenti, alle forze politiche e sociali un approccio immediato di intervento dal locale al globale. Viene così abbracciata una visione olistica, non più antropocentrica, ma dichiaratamente inclusiva della natura e in un quadro di democrazia sociale, come pretende la nostra Costituzione, ben lontana dal liberismo.  E come, tutto sommato. prevede la legge ultima approvata del tutto inaspettatamente dalla UE sul ripristino della natura, che prevede che entro 15 anni il 20% degli habitat naturali dovrà tornare allo stato d’origine e l’adozione di politiche per riportare in “buone” condizioni il restante 80% di ogni singolo ecosistema compromesso.

Credo che se davvero procediamo in un quadro multidimensionale, non possiamo che pervenire ad un’entità giuridica nuova: i beni comuni planetari. Un paradigma, cioè, che incorpora tutti i sistemi biofisici critici (foreste, oceani, bacini di acqua potabile, calotte glaciali etc.) che consentono la vivibilità sulla Terra e da cui dipendiamo collettivamente per il supporto vitale, indipendentemente da dove viviamo o dove quei sistemi si trovino. Un modello decisamente innovativo, ma del tutto coerente con il bisogno di pace che attraversa questo squarcio di storia umana: proprio per questo così interessante da adottare per rompere l’isolamento cui porta la competizione per l’egemonia verso cui ci sta trascinando l’Occidente, che guarda alla guerra come il problema esistenziale.

Nota per Alfonso: Se si vuole una rappresentazione del modello di ROCKSTRÖM oltre al link nell’articolo, si può stampare in bianco e nero questo grafico (da recuperare in Alternative per il socialismo)

(tratto da: Alternative per il socialismo, Giugno 2024)

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