Le recenti elezioni regionali hanno confermato la tendenza degli italiani a ridurre la partecipazione al voto. Nelle politiche si è passati dal 93,4% del 1976 al 63,9% delle ultime elezioni, settembre 2022, quando si è registrato un calo di 9 punti sulle precedenti del 2018. Il peggior crollo di partecipazione nella storia repubblicana e tra i dieci maggiori nella storia europea dal 1945 a oggi. Una tendenza all’astensionismo, non solo italiana, che riguarda, soprattutto, le persone meno abbienti e una parte significativa dei giovani.
Nel nostro Paese, secondo l’Istat, un cittadino su quattro vive a rischio di povertà o esclusione sociale. Cioè 14 milioni e 300 mila persone nel 2022 vivevano in una famiglia a grave rischio di povertà, senza un lavoro, con un reddito medio inferiore al 60% di quello mediano, ossia 11.155 euro, cioè meno di 930 euro mensili a famiglia. Mentre gli italiani in povertà assoluta sono 5,6 milioni. [1]
Dati che, a partire dal 2024, dovranno fare i conti con la decisione dell’attuale Governo di cancellare il Reddito di cittadinanza, sostituendolo con l’Assegno di inclusione (AdI), al quale si aggiunge un Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) destinato ai soggetti definiti occupabili. Il Reddito di cittadinanza è stato uno strumento cruciale per contenere il disagio economico di molte famiglie durante la pandemia. Le misure che lo sostituiscono causeranno, secondo un recente studio della Banca d’Italia,[2] una consistente riduzione della platea dei potenziali beneficiari (da 2,1 a 1,2 milioni di nuclei familiari), con il conseguente aumento della povertà assoluta. Abbiamo un esecutivo che considera la povertà una colpa, i poveri degli sfaticati e si vanta di risparmiare sulle difficoltà dei più deboli.
Il distacco dalla politica dei working poor
I lavoratori poveri, precari, con bassi salari, sotto occupati e a part time involontario, specie le donne, costituiscono, nel nostro Paese, il 12% dei lavoratori. Persone che pur lavorando sono povere e non riescono a vivere in modo dignitoso. Sono circa 3 milioni coloro che guadagnano meno di 11.500 euro netti l’anno.
Fenomeno, tutto sommato, recente quello dei working poor: tra il 2005 e il 2021 un lavoratore su dieci ha perso tra il 28 e il 48% del reddito e la crisi del 2008 è stata una delle più pesanti vissute dal dopoguerra. Decisamente più impattante sulla vita quotidiana delle persone rispetto all’ultimo decennio del Novecento. Più colpiti sono stati, soprattutto, i giovani, le donne e i provenienti dal sud Italia che pagano le politiche di deregulation e la mancanza di un salario minimo legale.
La perdita della sicurezza del lavoro, la caduta del potere d’acquisto dei salari e le crescenti difficoltà nell’affrontare l’aumento dei servizi fondamentali hanno influito tantissimo nel distacco di molti dalla politica e nella conseguente astensione dal voto. Una politica non ritenuta capace, per i programmi e le proposte dei partiti, di cambiare la condizione delle cose e dare una risposta alla propria difficile situazione.
Nel contempo crescono le disuguaglianze di reddito che confermano e alimentano la sensazione di ingiustizia economica e sociale. Nel nostro Paese il 5% delle famiglie detiene il 46% della ricchezza totale, mentre la metà più povera della popolazione ha a disposizione meno dell’8% della ricchezza totale.[3]
Tra i paesi Ocse l’Italia si colloca ai primi posti in termini di disuguaglianza (la terza dopo Stati Uniti e Spagna), cresciuta nettamente all’inizio degli anni Novanta per effetto delle politiche neoliberiste che si sono affermate negli anni ’80, e ha fatto un balzo ulteriore durante la pandemia.
Al contrario l’evidenza storica indica una lenta e costante riduzione della disuguaglianza dei redditi della popolazione italiana in età lavorativa – misurata dall’indice ‘Gini’ – dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli Ottanta.[4] Conseguenza positiva dei trent’anni (1945-1975) del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, fra capitalismo e democrazia, fra mercato e controllo pubblico, con al centro il valore del lavoro e la piena occupazione. Periodo che nel nostro Paese, per effetto del “lungo ‘68”, dovuto all’incontro tra movimento studentesco e classe operaia, è proseguito sino alla fine degli anni ‘70. Non a caso le ultime grandi riforme, quella sanitaria (L.833) e della psichiatria (L.180), sono del ’78, cosi come la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (L.194). E nel 1980 l’Italia mostrava un indice di disuguaglianza tra i più bassi, analogo a quello della Svezia.
Perché i giovani italiani non votano?
Per quanto riguarda l’astensionismo giovanile i numeri parlano chiaro: nelle ultime elezioni politiche ben il 42,7% dei giovani elettori di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha optato per il “partito del non voto”. Un dato che nel corso di un trentennio è quasi quintuplicato: se nel 1992 si era astenuto il 9% dei 18-34enni, nel 2018 il dato è salito al 38%, superando poi il 40% nel settembre 2022.
Questo evidente scollamento dei giovani dalla politica deve necessariamente portare a una riflessione: sul perché non vanno più a votare. E la risposta non può ridursi a una banale questione di disinteresse giovanile. Molto probabilmente è mancato in questi anni un ascolto della politica e delle istituzioni nei confronti delle istanze e delle preoccupazioni manifestate dai ragazzi e dalle ragazze. A dirlo sono anche i dati di Eurostat secondo i quali in Italia ci sono 3 milioni di Neet, giovani che non studiano e non lavorano, mentre il 60% dei contratti per gli under 35 sono precari e il 40% dei lavoratori tra i 20 e i 30 anni guadagna meno di 850 Euro al mese.[5]
Sovente le nuove generazioni sono accusate di non partecipare attivamente alla politica per mero disinteresse. Tuttavia, quando lo fanno, ad esempio per esternare le loro preoccupazioni sul futuro della condizione ambientale del pianeta o per manifestare a favore della pace e contro i crimini delle guerre, la risposta delle istituzioni è risultata di natura prevalentemente repressiva. Sia con leggi che limitano le loro espressioni o, peggio, come è successo di recente a Pisa e a Firenze, con l’uso del tutto sproporzionato della forza da parte delle forze dell’ordine. Sembra quindi che l’Italia sia un Paese incapace di apprezzare e valorizzare i suoi giovani.
Il voto a destra della working class
Se le persone povere disertano le urne, gli appartenenti alla classe lavoratrice, coloro che nell’occidente da anni subiscono le fragilità economiche e sociali indotte dalla globalizzazione, votano, in prevalenza, le forze politiche della destra. Insieme ai ricchi e ai ricchissimi che continuano ad assegnare la loro preferenza alla destra.
Il senatore americano ‘socialista’ Bernie Sanders, esponente indipendente affiliato al Partito Democratico, ha indagato le ragioni di questa palese contraddizione e, in previsione delle elezioni presidenziali di novembre, si è interroga sul perché gli elettori della workimg class siano propensi a votare per il repubblicano Trump. Secondo il senatore il sostegno della classe lavoratrice a Trump risiede nelle difficoltà, nella disperazione e nell’alienazione politica che milioni di lavoratori vivono oggi sulla loro pelle e nel fatto che il Partito Democratico li ha abbandonati, preferendo coltivare l’appoggio dei ricchi finanziatori elettorali e della ‘bella gente’. Per le possibili analogie con la situazione della sinistra italiana ed europea è interessante seguire la riflessione di Sanders, in particolare, sulla difficile condizione del mondo del lavoro negli Stati Uniti.
“Si tratta di americani che, mentre i ricchi diventavano sempre più ricchi, hanno visto ristagnare i salari reali e trasferire in Cina e in Messico il loro buon lavoro tutelato dai sindacati. Non possono permettersi l’assistenza sanitaria né l’asilo per i bambini, non possono mandare i figli al college e hanno il terrore di ricevere una pensione inadeguata. Nelle fasi peggiori della pandemia non hanno avuto il lusso di starsene seduti a casa dietro un computer a svolgere lavori ‘virtuali’. Hanno rischiato la vita negli ospedali, nelle fabbriche, nei magazzini, nel trasporto pubblico, negli stabilimenti di lavorazione delle carni e nei supermercati. Hanno mandato avanti l’economia e, come risultato, sono morti a migliaia”.[6]
“Dopo quasi cinquant’anni di stagnazione dei salari – prosegue Bernie Sanders – i Democratici erano al governo del Paese, ma non li abbiamo alzati. Dopo un’accesa attività anti-sindacale illegale portata avanti dalle aziende, non abbiamo fatto nulla per agevolare la sindacalizzazione. Non abbiamo migliorato la sicurezza sui luoghi di lavoro. Non abbiamo affrontato il problema dell’avidità aziendale né gli enormi livelli di disparità di reddito e ricchezza. Non abbiamo stabilito un’assistenza sanitaria universale, né abbassato il costo dei farmaci. Non abbiamo reso gli asili nido e l’istruzione superiore accessibile a tutti. Non abbiamo affrontato il problema dei senzatetto né dell’alto costo degli alloggi. Non abbiamo fatto sì che i lavoratori potessero andare in pensione in condizioni di maggiore sicurezza e dignità”.
“Oggi – conclude Sanders – decine di milioni di americani nutrono una rabbia profonda verso l’establishment politico, economico e dei media. Vedono un governo che ne ignora i bisogni, ma anche politici interessati solo a presenziare a eventi di raccolta fondi con i ricchi e che non hanno nessuna idea di come vive la grande maggioranza della gente. L’assurdità dell’attuale situazione è che Trump – un ciarlatano, un pilastro dell’establishment, un miliardario e imprenditore ostile agli interessi dei lavoratori – è stato capace di riempire quel vuoto politico e sfruttare quella rabbia”.[7]
Crisi del neoliberismo e limiti della sinistra
Il professor Carlo Galli, nell’indagare la condizione della democrazia in Occidente e capire cosa è andato storto nel processo di democratizzazione del mondo che pareva a portata di mano con la dissoluzione, dopo il 1989, dell’Unione Sovietica, individua il punto di rottura nella avvenuta crisi tra economia e politica.
Galli situa, correttamente, la svolta nel 1973, con la formazione della Trilateral[8] e la fine del compromesso neokeynesiano. La democrazia si fa allora, dopo la cruenta battaglia che viene giocata negli anni Settanta, ‘liberista’. Per giungere oggi a prendere atto che la dottrina economica del neoliberismo, impostasi con forza a partire dagli anni ottanta, per effetto della devastante crisi finanziaria dei mutui sub prime (2007-2013) e con il terrificante seguito di pandemia, guerra ed inflazione si è inceppata, insieme alla globalizzazione.[9]
Una analoga ed esplicita critica al modello di capitalismo finanziario che ha caratterizzato gli ultimi 30-40 anni è venuta, nel corso di una recente trasmissione televisiva, da Rosy Bindi, cattolica, ministra della sanità nel Governo dell’Ulivo e, oggi, in posizione critica nei confronti del Partito Democratico. Così come si è espressa sulla urgente necessità di cambiare in profondità il modello di sviluppo.
La Bindi, nel ricordare come la caduta del muro nell’89 avesse suscitato speranze, voglia di libertà e si fosse pensato avesse vinto la democrazia, ha invece dovuto constatare come a vincere, in allora, era stato il capitalismo. Un capitalismo della finanza che ha aumentato le diseguaglianze e non è indirizzato a fini sociali, come prevedono i principi della nostra Costituzione dove i beni comuni e pubblici risultano più importanti di quelli individuali.[10]
Un po’ a sorpresa, intervenendo da Washington, ha espresso rilievi critici alla globalizzazione anche Mario Draghi, economista, governatore della Banca d’Italia e fautore, negli anni ’90, della privatizzazione delle aziende pubbliche italiane. Nell’occasione il già presidente della Banca centrale Europea, rivolgendosi al pubblico americano, ha preso atto che le delocalizzazioni hanno indebolito nell’occidente i valori liberali, quali la democrazia e la libertà. E ha auspicato l’aumento degli investimenti per affrontare le diseguaglianze in materia di ricchezza e debito.[11]
Nel corso degli ultimi anni non sono certo mancati studi, ricerche ed analisi critiche sull’ideologia neoliberista che si è affermata a partire dagli anni Ottanta e ha finito, nella soggezione culturale della sinistra, per diventare pensiero unico. Tra gli studiosi italiani che, inascoltati, si sono a lungo impegnati in questo campo di ricerca voglio ricordare il sociologo Luciano Gallino e l’economista Salvatore Biasco.
Ciò che sino ad oggi non si è verificata è, però, una riflessione autocritica della sinistra e, in particolare, della forza politica maggiore, il Partito Democratico. Una riflessione, un tempo si sarebbe detto, di natura congressuale, capace di fare i conti e di mettere in discussione quell’egemonia culturale che il neoliberismo ha esercitato nei confronti delle forze della sinistra, e non solo in Italia. L’idea, accettata, che non ci fossero alternative al mercato senza regole e alla concorrenza, alla politica dell’offerta, all’alleggerimento dello Stato, alle privatizzazioni, alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, con il conseguente arretramento del ruolo del pubblico, il ridimensionamento dello stato sociale e la perdita di valore del lavoro.
In assenza di una indispensabile ridefinizione dell’identità strategica e programmatica i partiti della sinistra e le forze progressiste, oltre a risultare poco credibile la loro opposizione nei confronti delle destre attualmente al Governo, non sono ritenuti affidabili e in grado di recuperare fiducia e riportare al voto i tanti che dalle politiche liberiste sono stati colpiti e hanno sofferto: per le leggi sulla precarietà e sicurezza del lavoro, per i bassi salari e le conseguenze sui redditi delle contro riforme e i tagli che hanno riguardato la sanità, la scuola, le pensioni.
Il partito liquido
Naturalmente e più in generale nel non riuscire più a mobilitare e a portare gli elettori alle urne ha anche influito la crisi dei partiti tradizionali, la scelta di preferire formazioni leggere, poco strutturate e d’opinione, sul modello americano. Puntando sulla iper personalizzazione del leader che comunica attraverso i media e i social, trascurando l’insediamento sul territorio e nel mondo del lavoro. Una trascuratezza che non consente più di avere un rapporto e una conoscenza con quella parte della popolazione che vive un disagio, sia nel luogo di lavoro che nelle condizioni generali di vita, relative ai trasporti, alla casa, all’ambiente. Se manca un partito politico capace di tradurre quel disagio in proposta di governo, in protagonismo politico per cambiare, quel disagio diventa protesta indistinta. Così, in assenza di luoghi nei quali costruire un lavoro di formazione, favorire una analisi collettiva, le persone sono state lasciate sole nel giudizio sulla società e quindi più facilmente preda dell’antipolitica. Un contesto dove ciascuno finisce per accanirsi col gruppo che sta sotto e non contestare quello che sta sopra.[12]
Il fallimento del partito liquido ha portato anche a questo.
[1] In Italia, secondo l’ISTAT, un individuo adulto (18-59 anni) è considerato in povertà assoluta se sostiene una spesa mensile per consumi pari o inferiore a 560-600€ nel Mezzogiorno, 700-800€ nel Centro, 750-840€ nel Nord.
[2] Lavoce.info – Franco Mostacci: “RdC: le conseguenze dell’abolizione”.
[3] Dati Bankitalia, gennaio 2024
[4] Lavoce.info: “Disuguaglianza in Italia: cosa è cambiato in trenta anni” di D. Checchi e T. Jappelli – 20/09/2023
[5] Lasvolta.it: Astensionismo: perché i giovani non votano più” di Ilaria Marciano, 2 gennaio 2024
[6] Bernie Sanders: “Sfidare il capitalismo” – Fazi Editore, 2024
[7] Vedi nota 5
[8] Trilateral: Commissione trilaterale composta da Usa, Europa e Giappone.
[9] Carlo Galli: “Democrazia ultimo atto”, Einaudi 2023
[10] Intervista nella trasmissione della rete 7 “In altre Parole”, 20 gennaio 2024
[11] La Stampa: “Draghi: Un debito comune aiuterebbe in un mondo in tumulto tra autocrati e globalizzazione”. 15 febbraio 2024
[12] Salvatore Biasco: “Il compromesso socialdemocratico”, intervista di Gianni Saporetti pubblicata sul mensile ‘Una città’, 3 aprile 2017
(tratto da: labour.it, Alessandria, 14 marzo 2024)
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