In questi mesi un atroce paradosso si dipana sotto i nostri occhi. Il governo d’Israele è diventato il principale generatore di veleno antisemita per l’eccidio che si sta consumando nella striscia di Gaza. Soprattutto le nuove generazioni, che non hanno vissuto da vicino la tragedia storica dell’Olocausto, assistono indignate alla strage in atto, alle espulsioni forzate di Palestinesi dalle loro case in Gerusalemme Est e Cisgiordania, in palese violazione del diritto internazionale vigente, mentre diffidano delle circostanze non chiarite in cui non è stato prevenuto e contrastato l’attacco sanguinoso di Hamas a Israele. Facilmente esse cadono vittime di un errore eguale e contrario alla mistificazione diffusa, per giustificare l’appoggio occidentale a Netanyahu e ai suoi peggiori accoliti, secondo i quali qualsiasi critica al governo d’Israele è quantomeno sintomo di antisemitismo. Le accuse strumentali di antisemitismo alle mobilitazioni in difesa dei diritti palestinesi, tali da costringere le rettrici dell’Università della Pennsylvania e di Harvard alle dimissioni, configurano delle limitazioni alla libertà di espressione e di ricerca tali da confondere ulteriormente antisemitismo e critiche alla politica israeliana.
La Giornata della Memoria impone rispetto per i milioni di Ebrei vittime, a cui si aggiungono oppositori politici, Rom, Sinti, portatori di handicap, religiosi, omosessuali perseguitati e sterminati dal regime nazista. Quel senso di rispetto richiede anche il chiarimento delle circostanze storiche che hanno accompagnato l’azione di quel regime programmaticamente finalizzato all’eliminazione della minoranza ebraica. Se le responsabilità della Germania di Hitler e dell’Italia fascista, autrice delle leggi razziali, sono state chiarite in maniera inequivocabile dalla storia, resta un misconosciuto, perlopiù inconsapevole, senso di colpa per un antisemitismo antico, allora diffuso nel mondo, che ha accompagnato e, in qualche misura, favorito quegli orrori di cui i diritti di Palestina e dei Palestinesi diventeranno bersagli innocenti. Non mancano esempi ineludibili al riguardo. Quando iniziò la fuga degli Ebrei dalla Germania, dopo la famigerata Notte dei Cristalli, il governo nazista appose la lettera “J” sui loro passaporti, ma su richiesta dei governi della Svizzera e della Svezia che non volevano accoglierli, senza rinunciare ai benefici economici del turismo tedesco. (cfr. Birgitta von Otter, “Navelsträngar och narrspeglar”, 2020). In quegli stessi anni, l’ambasciatore degli Stati Uniti, William Dodd (cfr. Robert A. Dallek, “Democrat and Diplomat: The Life of William E. Dodd”, 1968) – storico, nominato dal presidente Franklin D. Roosevelt, che lo protesse nel corso del suo intero mandato – fin dall’inizio della sua missione intese e denunciò ai suoi diretti superiori la natura del governo presso il quale era stato accreditato. I diplomatici di professione del Dipartimento di Stato gli rimproveravano di non comportarsi secondo le tradizionali regole professionali della diplomazia, prima tra le quali quella di intrattenere rapporti buoni, possibilmente cordiali con il governo presso il quale si è accreditati. Soprattutto, essi non gradivano i numerosi visti che l’ambasciatore elargiva agli Ebrei in fuga, a causa di un antisemitismo largamente diffuso negli Stati Uniti e in tutte le classi alte dell’Occidente.
Ma vi è di più. Riflettiamo su questo episodio. A Seconda guerra mondiale inoltrata, nella notte tra il 22 e il 23 agosto 1942, su un treno che li porta da Varsavia a Berlino, il giovane diplomatico svedese Göran Fredrik von Otter si trova per caso nello stesso scompartimento con il tenente delle SS, Kurt Gerstein (cfr. Saul Friedländer, “L’ambiguità del bene. Il caso del nazista pentito Kurt Gerstein“, 2002). Nel clima di confidenza che talvolta si crea tra due viaggiatori, dopo avere controllato l’assenza di microfoni spia, Gerstein preannuncia una rivelazione che potrebbe costargli la vita, chiedendo soltanto al suo compagno di viaggio di riferire quanto sta per dirgli ai suoi superiori. Reduce da una visita ai campi di concentramento di Belzec e di Treblinka – egli era dirigente dell’Ufficio di Igiene dei Waffen SS – afferma di avere assistito all’eliminazione di centinaia di persone con uso del gas Zyklon B. Al suo ritorno a Berlino, il suo ambasciatore gli sconsiglia di riferire per iscritto e, invece, lo fa ricevere a Stoccolma dal ministro degli esteri, Christian Ernst Günther e da Per Albin Hansson, socialista e capo del governo di unità nazionale della Svezia neutrale. Entrambi lo ascoltano con attenzione, dando l’impressione di credergli ma di non voler sapere quanto il giovane diplomatico riferisce loro. Una qualsiasi dichiarazione pubblica avrebbe potuto mettere in pericolo lo status di neutralità della Svezia. Un silenzio che Gerstein continua a combattere, fornendo analoghe informazioni al nunzio apostolico, Cesare Orsenigo, di nuovo senza alcun risultato. Dello stesso tenore sono le informazioni scaturite dagli archivi della Croce Rossa Internazionale (cfr. Caroline Moorehead, “Dunant’s Dream: War, Switzerland, and the History of the Red Cross“, 1998). A seguito di informazioni reperite dai suoi ispettori, fu convocata una seduta segreta del suo Consiglio, a cui partecipò pure il presidente della Confederazione Elvetica. A grande maggioranza fu votato il silenzio, anche in quella sede. Soltanto tre membri (le sole donne) votarono a favore di una pubblicazione dell’Olocausto in atto che avrebbe potuto ulteriormente motivare l’impegno militare schierato contro l’Asse. È quanto viene rappresentato nell’opera teatrale di Rolf Hochhuth, bandita in Italia nel 1963, ove la figura de “Il Vicario”, nella persona di Pio XII, rappresenta simbolicamente un’umanità che tace ai fini della propria salvaguardia.
Sono numerosi gli esempi di reticenza e di implicita connivenza nei confronti dell’eccidio degli Ebrei, nel corso della Seconda guerra mondiale. È radicato nel tempo l’antisemitismo soprattutto delle classi alte – operai e contadini, se non aizzati allo scopo, non ne avevano esperienza ed occasione – che ancora negli anni Cinquanta e Sessanta operavano significative discriminazioni nei confronti di Ebrei in rilevanti sedi sociali e istituzionali. La rimozione dei sensi di colpa riemerge nella collusione con nuovi eccidi. Lasciamo alla Corte, giustamente investita, decidere se si tratta di genocidio, quello in atto contro i Palestinesi da parte del governo d’Israele, la cui politica oggi genera ancora poche ma crescenti forme di nuovo antisemitismo. (26.1.2024)
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