Pubblichiamo questi tre interessanti saggi di Franco Livorsi su Mario Tronti, pubblicati dalla rivista citta futura online.
- Mario Tronti e il marxismo operaista in Italia di Franco Livorsi
- Antefatto
Mario Tronti è il maggior esponente, e cofondatore, di una corrente dottrinaria e politica con cui mi sono sempre confrontato appassionatamente, nel consenso e nel dissenso, dal 1962 in poi: il marxismo operaistico (ed ora “post-operaistico”). Essendo io, quasi d’istinto, un realista politico, non ho mai voluto aderire a “gruppi operaisti” o d’altro genere, preferendo sempre operare nei partiti e sindacati “storici” della sinistra, ma mi sono sempre confrontato molto volentieri con il pensiero politico marxista operaista (o post-operaista), nella convinzione di poterne trarre succhi vitali per capire e per cambiare il mondo. La necessità del protagonismo delle masse lavoratrici, o “democrazia operaia”, mi è sempre parsa, infatti, dal 1963, la sola via per superare le terribili aporie del comunismo di stato come della socialdemocrazia riformista. Nel mio realismo – un poco disperato, ma irrinunciabile – non ho mai pensato che l’azione operaia diretta – quintessenza di ogni operaismo – potesse fare a meno di partiti “proletari” o sindacati “di classe”, ma ho ritenuto che solo la realtà di una forte e continuativa azione di tal genere, ove possibile da porre al primo posto nell’opera di liberazione sociale, avrebbe potuto evitare che la sinistra organizzata, e di gran lunga prevalente, persistesse nel far trionfare o il burocratismo comunista, incentrato sugli apparati di partito (e al potere di Stato, autoritario, ma pure democratico), oppure i vizi persino troppo noti, morali e di piccineria manifesta, del riformismo socialdemocratico e parlamentare: due tendenze che ad Occidente, oltre a tutto, tendevano sempre a mescolarsi, pur restando separate e persino contrapposte. Anche se l’azione diretta delle masse – il potere operaio, la rete dei consigli elettivi dei lavoratori stessi, il controllo operaio sulla produzione – non fosse riuscita a diventare la potenza egemone nella vita sociale politica e istituzionale, come ogni marxismo operaistico ha sempre voluto (e per tanti anni io con esso), avrebbe almeno potuto controbilanciare la tendenza burocratico centralista “comunista” come il “cretinismo parlamentare” socialdemocratico.
Persino dopo la fine delle grandi fabbriche caratterizzate da masse concentrate nello stesso luogo e in quartieri proletari tendenzialmente improntati da esse – ossia persino dopo la scomparsa dell’”operaio massa” delle grandi fabbriche dette “fordiste”, della catena di montaggio, eccetera; anche con l’emergere dell’”operaio sociale”, cioè di un proletariato presente come tale nel territorio ma non più “di fabbrica”, territorialmente “sradicato” e contrapposto al sistema capitalistico – mi pare impossibile che si possa pensare ad uno statalismo che funzioni (senza cadere nei vizi di ogni burocratismo) e ad un riformismo democratico-sociale efficace (senza cadere nei vizi delle socialdemocrazie o delle “democrazie di sinistra” o primariamente o intenzionalmente tali), ove manchi o latiti il terzo lato del triangolo cui ho accennato, cioè una forte azione autonoma, non solo sindacale ma anche sociale politica e culturale, dei lavoratori stessi e, più in generale, della e nella società civile, che incomba e incalzi ogni rappresentanza, o pretesa rappresentanza, istituzionale o sindacale, del mondo dei lavoratori.[1]
Ma tali istanze, dal marxismo detto operaistico (o post-operaistico), non sono solo state enunciate come una sorta di dover essere, ma profondamente spiegate e in parte sperimentate, anche se alla fine sono state sconfitte. Per questo erano e sono elaborazioni interessanti, più o meno importanti. Inoltre è pure molto interessante vedere come Tronti, in base alle stesse istanze dell’operaismo, l’abbia precocemente abbandonato, vivendolo già pochi anni dopo la sua genesi, come un necessario fermento vivificatore del partito in cui per lui, non certo per caso, la classe operaia si era maggiormente riconosciuta, il Partito Comunista Italiano, e come via via abbia dovuto riconoscere lo scacco del movimento di vita nuova in cui si era riconosciuto, elaborando una sorta di spiritualismo rivoluzionario.
- Genesi del marxismo operaista
Per parte mia, io leggo e medito Tronti da sessant’anni, e cinquantanove anni fa l’avevo pure conosciuto in un’occasione non da poco per la corrente da lui impersonata (l’operaismo marxista in Italia), come dirò. Tronti aveva preso a farmelo conoscere, sin dal 1962, Gianfranco Faina (1935-1981), che allora aveva insegnato un poco nella media superiore in Alessandria ed era poi diventato un mio vero amico, almeno sino al ’68 (ma intimamente il suo ricordo mi è sempre stato caro).
Anche Faina, di Genova Sampierdarena, era un bel personaggio, in questo contesto di operaismo marxista nascente nella Repubblica italiana. Era stato segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana a Genova tra 1954 e 1956 (o della Sezione universitaria). Un suo e mio amico di straordinaria umanità, cattolico di sinistra (laureatosi con una tesi su Mounier), Pietro Lazagna, all’inizio degli anni Sessanta in Alessandria, dove muoveva i primi passi come professore di Filosofia nella media superiore, mi raccontava che quando lui e altri amici come lui andavano a parlare con Faina dicendogli che loro erano cattolici, ma avrebbero voluto impegnarsi nella lotta comune accanto ai comunisti, Faina rispondeva loro: “Siete cattolici? E allora perché non andate dallo psicanalista?”.
Ma nel 1956 Faina era stato espulso dalla sua Sezione per essersi opposto totalmente – com’era nel suo stile da crociato permanente della causa in cui di volta in volta credesse – all’intervento con i carri armati contro gli ungheresi, che nel ’56 avevano preteso di rendersi neutrali da Mosca e che furono allora massacrati a migliaia, e forse decine di migliaia, dai “compagni sovietici”. Mi raccontò egli stesso taluni particolari di quell’espulsione, che forse l’aveva segnato (come a quel tempo capitava a comunisti già convintissimi e attivissimi che fossero stati cacciati, i quali spesso erano come degli spretati, presi da odio-amore per la chiesa perduta). Di fronte al suo dissenso manifesto, il segretario della federazione aveva provato a fare un alato discorso sul socialismo inteso come un’ardua cima da raggiungere ora attraversando passaggi più dolci e ora pericolosi a morte per lo scalatore. Faina, con l’ironia che lo caratterizzava, aveva replicato dicendo che il socialismo mal si conciliava con i discorsi di alta montagna. Al che i presenti, per disprezzo, avevano girato le sedie per mostrargli il fondo schiena, e l’avevano espulso. Certo la cosa l’aveva turbato molto più di quel che faceva vedere col suo spirito ironico.
Più oltre Faina aveva scoperto Rosa Luxemburg, con la sua teoria-prassi dell’azione diretta, prevalentemente spontanea (ma anche non), nella storia, da parte delle masse: il massenstrik, lotta “naturale” delle masse contro lo sfruttamento, per lei da intendersi come chiave di volta del divenire sociale e, in specie, della rivoluzione anticapitalistica. La rivoluzione proletaria, sulla base di quello che avrebbe cominciato ad accadere nell’impero russo nella rivoluzione mancata del 1905, era intesa come un crescendo di scioperi di massa, sociali e al tempo stesso politici, che avrebbero travolto il regime dominante. Ma il punto chiave non era tanto e solo lo “sciopero di massa” quanto l’idea che fossero le stesse masse proletarie, di cui il partito socialista o comunista sarebbe stato un mero strumento subordinato, le protagoniste della storia socialista in fieri. Sono certo che la pensasse generalmente così anche Karl Marx. La coscienza di classe rivoluzionaria non sarebbe stata da portare “dall’esterno” ai proletari, altrimenti appena capaci di sindacalismo di mestiere (“tradeunionismo”), da un’avanguardia politica antagonista, o partito “veramente socialista”, o “veramente comunista”, che si coagulasse attorno a un socialismo “marxista”, ritenuto “scientifico”, come aveva detto Lenin nel Che fare? (1902), ma sarebbe cresciuta via via nel loro seno. Ritenere il contrario, come se i semplici lavoratori fossero stati nell’insieme dei poverini da illuminare da parte dei pretesi coscienti, per Rosa Luxemburg era “reazionario”.[2] In proposito per Faina e molti altri il testo centrale della Luxemburg cui attingere era il libro Sciopero di massa, partito e sindacato, del 1906.
Tra il 1963 e il 1967, poi, in Italia uscirono due raccolte di scritti di Rosa Luxemburg fondamentali, che subito centellinai con straordinario interesse. Contenevano pure innumerevoli pagine del libro citato sugli scioperi di massa come via rivoluzionaria[3].
Faina di tutto ciò si era entusiasmato già nell’ultimo scorcio degli anni Cinquanta[4], mentre, intanto, subiva anche l’influenza della filosofia della scienza della scuola di Vienna, e, qui, dell’empirismo logico di Giulio Preti, il quale ultimo pochi anni prima aveva scritto Praxis e empirismo (1957), e pure l’influenza del John Dewey di Logica come teoria della ricerca (1938).[5] Nonostante la sua tendenza al “pensiero-prassi” in rivolta, Faina aveva infatti un forte interesse per la filosofia come scienza e per il pragmatismo. Quel che gli sembrasse “vero”, lo voleva subito “fare”. L’attivismo faceva parte della sua personalità profonda. Faina conosceva pure a fondo il Marx economista, con tutte le sue complesse formule ed elaborazioni, che per lui erano scienza in senso forte, seppure di tipo aperto ed incompiuto (anche se più oltre divenne anarchico situazionista, con uno spirito che mi ha fatto sempre pensare a quello di Carlo Cafiero[6], che per me era stato uno tale e quale a Faina, come se Faina ne fosse stato la reincarnazione, ovviamente parlando “per assurdo”). Appassionatosi di Rosa Luxemburg, e leggendo Marx in quella chiave – come insuperato scienziato economico-sociale “puro” – Faina sin dalle origini si era aggregato ai “Quaderni rossi” di Raniero Panzieri, nati a Torino nel 1961, e quasi subito, più o meno altrettanto, di Mario Tronti.
Panzieri, la cui opera “omnia” è stata curata dal mio compianto amico – ed ex collega presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano – Stefano Merli, era stato una figura molto importante della sinistra socialista.[7] Nenni, dal 1955 alla ricerca di una via autonoma dai comunisti, aveva voluto Panzieri, che molto stimava, come direttore del mensile del P.S.I. “Mondo operaio”, al proprio posto.
Ma il legame forte Raniero Panzieri l’aveva avuto soprattutto con Rodolfo Morandi, storico vicesegretario nazionale del P.S.I. di Nenni, figura di straordinario spessore morale, e organizzatore geniale, che aveva riorganizzato quel partito tra il 1948 e la morte (1955), in un rapporto strettissimo ma emulativo con i comunisti, tendente alla riunificazione “socialista” della sinistra in un contesto che oggi si direbbe socialista democratico “di sinistra” (però comprensivo dello stesso leninismo). Rodolfo Morandi, di cui a suo tempo la Einaudi pubblicò le opere, e che oggi è un personaggio quasi dimenticato (nonostante una riedizione di testi nel 1997), ha avuto un percorso straordinario da Mazzini al leninismo, in base ad una tendenza profonda che io oggi direi di “socialismo etico”, o etico rivoluzionario. Rodolfo Morandi è stato studiato con cura in un libro che è il solo importante su di lui, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l’azione politica (1971) di Aldo Agosti. Si tratta di opera che io pure discussi nel 1972 sul settimanale nazionale del PSIUP (“Mondo nuovo”), accentuandone, un poco strumentalmente, il filocomunismo in vista di un’unificazione tra PSIUP e PCI che – pur non ancora decisa – mi pareva, e presto risultò essere, ormai inevitabile per il PSIUP (1964/1972), diventato per molte ragioni elettoralmente marginale tra 1970 e 1971. In quella discussione, certo di un qualche significato nella piccola storia del PSIUP (storia poi raccontata da Aldo Agosti alcuni anni fa in altro libro importante edito sempre da Laterza, da me discusso su “Città Futura on-line” e poi su “Critica marxista”)[8]. Al tempo del libro su Rodolfo Morandi, dopo il sottoscritto, su “Mondo nuovo”, intervennero sia Libertini che il segretario stesso del partito (Tullio Vecchietti).
Lucio Libertini, vulcanico oratore, buon economista e ottimo giornalista, uomo inquieto, dal percorso molto travagliato che gli fece attraversare tutti i partiti della sinistra dai socialdemocratici di Saragat a Rifondazione Comunista, nel 1958 pubblicò, con firma sua e di Panzieri Tesi sul controllo operaio sulla produzione, subito criticate dai comunisti.[9] Si riscopriva la democrazia operaia come possibile via “luxemburghiana” al socialismo alternativa al comunismo di stato come alla socialdemocrazia riformista.
Quel testo del 1958, firmato insieme da Raniero Panzieri e Lucio Libertini, può essere inteso come la nascita dell’operaismo marxista in Italia, anche se nel nostro Paese prima del 1915, più o meno tra il 1900 e la Grande Guerra (ed anzi sino al 1926), si era già sviluppata la corrente operaistica del sindacalismo rivoluzionario, sorelliano e non sorelliano, tanto che quando nel 1974 divenni contrattista presso la cattedra di “Storia delle dottrine politiche” a Scienze Politiche presso l’Università di Torino, cattedra tenuta da Gian Mario Bravo – che aveva apprezzato un mio vasto saggio, Lenin in Italia, sul leninismo nella cultura della sinistra italiana, uscito nel 1971 su “Classe”, la bella rivista che Stefano Merli pubblicava allora presso l’editore Dedalo[10] – e Bravo m’invitò a scegliermi un argomento solido di cui occuparmi per alcuni anni invece di passare da un tema all’altro come allora nel mio muovermi ancora da politico appassionato io facevo, gli avevo detto che avrei volentieri lavorato, per il tempo necessario, ad una possibile storia dell’operaismo marxista in Italia, appunto da Arturo Labriola ed Enrico Leone sino a Vittorio Foa, Raniero Panzieri, Mario Tronti e compagni. La cosa al compianto Gian Mario Bravo – che tanti contributi importanti ha dato in materia di storia del marxismo, dell’anarchismo, del socialismo e del comunismo, pur con l’approccio marxista-leninista e filosovietico, con forte simpatia per la Germania Orientale comunista, che gli era proprio – non interessò. Mi disse che era meglio scegliere un personaggio – con spessore teorico – poco studiato, per il mio futuro accademico. Allora mi occupai di Amadeo Bordiga, che molto m’interessò e appassionò[11] (e in seguito mi occupai di tante altre cose).
Il sindacalismo rivoluzionario in Italia era stato decisivo nel primo grande sciopero generale “nazionale” del 1905, nello sciopero generale di Parma del 1908, e certo era stato ben presente pure nella settimana rossa del 1914. Il sindacalismo rivoluzionario nel 1912 si era pure dato un’organizzazione più stabile, l’Unione Sindacale Italiana (USI), contro la CGIL, nata riformista nel 1906. Poi molti capi del sindacalismo rivoluzionario, in odio al tran tran dell’Italia giolittiana, allo scoppio della Grande Guerra del 1914-1918 erano diventati interventisti “di sinistra”, e poi, in una cospicua minoranza, o erano diventati “legionari” dannunziani o fascisti (Filippo Corridoni morì in trincea; Alceste De Ambris, già protagonista dello sciopero generale di Parma del 1907, divenne l’ispiratore della Carta del Carnaro, la costituzione democratica e sociale di D’Annunzio al tempo dell’occupazione di Fiume del settembre 1919 – dicembre 1920, e non divenne fascista; uno dei quadrumviri della marcia su Roma, Michele Bianchi, era un ex sindacalista rivoluzionario, e così Edmondo Rossoni e Paolo Orano[12].
Nel saggio su Lenin in Italia (1971) parlavo molto anche del primo opus di Mario Tronti, Operai e capitale (1966), che raccoglieva importanti articoli e saggi dello stesso Tronti dal 1962[13]. In taluni passaggi di Lenin in Italia criticavo Tronti in modo eccessivo, e che in seguito mi è spiaciuto (soprattutto per l’enfasi un poco retorica in cui esprimeva talora il suo operaismo). Alcune cose su Tronti, lì, mi sembrano ancora giuste, e altre no (e anzi francamente “ingiuste”), ma un lettore appena un poco smaliziato avrebbe potuto o potrebbe cogliere facilmente il mio orientamento da “Odi et amo”, verso il pensiero di Tronti, già in quel saggio di più di cinquant’anni fa.
Qual è l’importanza, e l’originalità teorica di questo marxismo “operaista”, e che cosa poi vi portò Tronti di suo, e perché e con quali esiti Tronti stesso poi si staccò parzialmente da esso giungendo “sin qua”?
Facciamo un poco di catalogazione concettuale. In Europa occidentale, a sinistra, il referente ideal-politico fondamentale, seppure mai unico, è stato appunto il marxismo, di cui ho detto (come ha notato recentemente Aldo Schiavone[14]). Il suo materialismo, il suo economicismo e, dopo Marx (e a dispetto di Marx), il suo statalismo sono tratti di ogni socialismo e comunismo, anche non marxista, dagli anni Novanta del XIX secolo in poi. (Ma ora a sinistra sembra imporsi un nuovo paradigma – sociale, ma pure ecologico e spirituale – come ho sostenuto nel mio libro del 2000 Il mito della nuova terra. Cultura, idee e problemi dell’ambientalismo e in una serie unitaria di articoli-saggio poi riuniti nel mio libro Il Rosso e il Verde, nel 2021).[15]
Proviamo però a vedere la cosa storicamente, in termini di pensiero politico legato alla politica. In tal caso, nella cultura del socialismo (compreso il comunismo), noi troviamo sempre come prevalenti due grandi correnti: il comunismo “leninista” e la socialdemocrazia riformista.
Il “comunismo” politico, al potere, è sempre “diventato” burocratico autoritario (covando però tale tratto anche in humus democratico-parlamentare, “riformista”, specie “nel” suo gran Partito, sempre costruito in modo fortissimo intorno all’apparato, che per quanto composto da tanti elementi idealmente motivati era pur sempre una burocrazia, sovrana all’interno, che dava la linea, quasi sempre approvata all’unanimità o al 95%, pure ai quadri operanti nelle istituzioni, e agli iscritti di ogni ordine e grado: il PCI).
E la socialdemocrazia riformista è sempre risultata pronta alla collaborazione con forze moderate ed anche ultra-moderate: collaborazione prima tattica e poi sempre strategica (sino agli eccessi noti del “così fan tutte”). Si tratta di un’oscillazione pendolare, tra “komunismo” e socialdemocrazia riformista, in fondo tra Luigi Longo[16] e Giuseppe Saragat, così persistente nella storia della repubblica italiana da far cascare al poveruomo “le braccia”, perché sembra che si cada sempre dalla padella nella brace. (In seguito, nel XXI secolo, si è caduti persino “col sedere per terra”, senza socialismo, né leninista né riformista: insomma, “senza padella e senza brace”, il che non è allegro).
Ma c’è stata una grande corrente socialista che non ha accettato né il “komunismo” né la socialdemocrazia riformista, neanche “all’italiana” (né tantomeno lo “stalinismo socialdemocratizzato”, che il mio amico Merli attribuiva al PCI togliattiano). Dico subito che non avendo spazio sociale e soprattutto politico e culturale sufficiente, questa corrente “terza” è sempre stata costretta, dopo taluni grandi tentativi di svincolarsi da entrambi quei potentissimi fratelli-coltelli (il più rilevante dei quali è stato proprio il “povero” Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nel 1964/1972), a rifluire in uno dei due, spesso passando persino dall’uno all’altro: o nella socialdemocrazia “saragattiana” o nel “komunismo” italiano. In generale questa corrente socialista (o “pretesa comunista”) del “né questo né quello”, né socialdemocratica né comunista, ha sofferto sia in ambito “komunista” che socialdemocratico riformista, essendo irriducibile a entrambi (in sostanza essendo “un’altra roba”, che poco si adattava a “quei due”, pur finendoci sempre dentro, o a ridosso, addirittura dal 1947, se non già prima, per carenza di “spazio politico” sufficiente, o anche di capacità politica).
Questa “terza corrente” della sinistra, che io ho molto amato, ha avuto, a sua volta, a quel che ritengo, due anime: una la direi “massimalista” e l’altra appunto “operaista”.
Qui uso il termine massimalista in senso “lato”, per indicare i socialisti, spesso pretesi rivoluzionari, che, sempre incentrati sul “fine massimo”, abbiano teso o tendano a non essere mai d’accordo con la famosa formula del capostipite di ogni revisionismo socialista democratico, Eduard Bernstein, che fece scandalo tra i “sinistri” alla fine del XIX secolo sostenendo che “il fine” per lui oramai era “nulla” e il “movimento” tutto[17], mentre per essi il telos del socialismo come autogoverno dei lavoratori, e “quindi” della società senza classi, era tutto, e il movimento operaio nella sua quotidianità era certo qualcosa o molto, ma non tutto: e che però su tale base non erano mai puramente sovrapponibili ai comunisti leninisti, che erano pronti a considerare come “tutto” il loro “partito”, un poco feticisticamente inteso (loro erano quelli che “tenevano partito”: certo perfettibile, ma fonte fondamentale del bene comune, in certo modo, per loro, “etico” in sé e per sé).Ma questi socialisti di estrema sinistra, irriducibili sia alla socialdemocrazia che al comunismo qual è stato più o meno sempre nella storia (persino nei “gruppuscoli”), si sentivano di una pasta diversa da quei due fratelli opposti, quale fosse il nome che si davano: si chiamassero “intransigenti”, negatori di alleanze politiche al centro oltre che a destra, come nel 1911/1918 (da Costantino Lazzari, e sino al settembre 1914 Mussolini, e Serrati), o “massimalisti” come nel 1918/1933 (da Serrati ad altri come lo stesso Lelio Basso), o sinistra socialista “frontista”, per cui l’alleanza con i comunisti era necessaria (da Rodolfo Morandi a Tullio Vecchietti), come nel 1945/1972, oppure neosocialisti alla ricerca di un oltre né socialdemocratico né comunista leninista (come la sinistra del PSIUP di Lelio Basso, Vittorio Foa e Lucio Libertini)[18]. Li chiamo tutti socialisti massimalisti, ma solo per semplicità. Ciò posto – pur essendo stato il massimalismo caratterizzato anche da figure nobilissime ai vertici come alla base, alcune tra le quali figure io ho fatto in tempo a frequentare con vera amicizia – in sede storica ritengo che il massimalismo – o comunque si voglia chiamare tale tendenza – sia stato la corrente sterile del socialismo: più una remora che una risorsa per la sinistra. L’errante (massimalista) era nobile d’animo, libero, franco, rispettoso e generoso; o almeno lo era molto spesso. Ma non poteva essere mai né comunista né socialista in senso forte (cioè socialdemocratico): a volte perché “non ci arrivava” (per rozzezza intellettuale, o per ingenuità politica), e a volte perché era sanamente “oltre”, avendo profondamente compreso quello che “in quei due” (il comunista o il socialdemocratico, riformista), non andava. Il massimalismo – comunque si chiamasse – è stato la corrente degli scontenti “a vita” del “komunismo” come della socialdemocrazia riformista. Persino nel vecchio PSIUP c’erano molti i quali si sentivano ed erano sentiti come “veramente di sinistra” perché criticavano i comunisti dal mattino alla sera, benché fossero spesso lontanissimi dai luoghi di lavoro. In sostanza il massimalismo, quale fosse o sia il suo nome, è stato l’area di quelli che hanno fatto di tutto per impedire alla strategia dominante della sinistra di cui facevano parte – o del “komunismo” o della socialdemocrazia – di raggiungere lo sbocco politico (rivoluzionario o riformista che esso fosse); sono stati una specie di “coscienza infelice” della sinistra.
Quando tale tendenza è riuscita a prevalere, sempre per un tempo breve, nel più rappresentativo partito o socialista o “komunista” (e persino post-comunista) di cui facesse parte, ne ha fatto fallire la strategia senza poter affermare la pretesa strategia propria. Così nel primo dopoguerra il massimalismo, allora assolutamente maggioritario nel P.S.I., riuscì ad impedire ai socialisti riformisti alla Filippo Turati di andare al governo (necessariamente con liberali come Giolitti e con i popolari come Sturzo o De Gasperi), senza preparare in alcun modo uno sbocco rivoluzionario o semirivoluzionario, come voleva la piccola minoranza dei comunisti “puri”, specie di Napoli e Torino, ma un po’ di tutt’Italia; ma così finì per tenere per mille giorni “sgovernato” il Paese[19]: del che approfittò il fascismo, quando la grande ondata a sinistra del dopoguerra finì; e riuscì ad impedire ai comunisti, che non volle raggiungere per tempo, nel biennio rosso 1919-1920, di nascere come partito di massa maggioritario nella sinistra. Per contro i riformisti, se esclusi dal PSI, o se si fossero essi stessi esclusi dal PSI ad esempio andando al governo a dispetto del loro partito come corrente nel 1918/1921, avrebbero potuto raggiungere Giolitti e Sturzo come troppo tardi provarono a fare nel 1922-1924, dopo la marcia fascista su Roma del 28 ottobre 1922 o troppo poco prima di essa, quando ormai tutta la Valle Padana era fascistizzata e il fascismo in anticamera; e il partito socialcomunista di massa avrebbe potuto fare la sua parte di forza antagonistica. L’apologia dell’unità socialista di Ezio Mauro ancora in una fase recente, sembra di buon senso, ma è solo un paralogismo, un che di evidente solo in apparenza: proprio l’unità impedì sin dal congresso di Bologna del 1919, come poi in quello di Livorno del 1921, lo sbocco politico, anche ultrariformista[20], con un effetto catenaccio sfruttato dalla reazione. Quel che dice Mauro vale assolutamente, ad esempio dal 2 giugno 1946 ad oggi (in contesto storico abbastanza stabilmente democratico), ma non in tempi non diciamo rivoluzionari, ma certo di grande crisi di una forma Stato[21]. Ad esempio oggi io credo che nel primo dopoguerra un vero partito socialista riformista turatiano, che sicuramente avrebbe avuto almeno una cinquantina di deputati (il PSI nel 1919 ne ebbe 156), con Giovanni Giolitti e forse De Gasperi avrebbe impedito il fascismo; ma può essere, come sostanzialmente poi riterrà Nenni, che un partito socialista di sinistra di massa, pur non potendo “fare come la Russia”, cioè la rivoluzione dei soviet e socialista in Italia, avrebbe potuto fare la repubblica democratica intorno al 1920. Facendo della fantapolitica si potrebbe pensare che se nell’agosto 1914 il PSI, al pari di quasi tutti i partiti socialisti del mondo, avesse accettato di slittare verso la guerra, con Mussolini, poi avrebbe potuto spingersi sino alla repubblica. Questo scenario ipotetico faceva capolino persino nel notevole Colloqui con Mussolini del 1932 da parte di Emil Ludwig.[22] Questo però per molte ragioni era pressoché impossibile al PSI dopo il 1912, fosse giusto o meno. In ogni caso il PSI reale, massimalista in senso lato, come tale e come sempre, fu una remora sia per il riformismo possibile che per la rivoluzione possibile (fosse questa socialista oppure democratico repubblicana).
So bene che la storia non si fa con i se e con i ma, ma questi “se e ma” possono servire per capire perché le cose siano andate come sono andate, tramite una sorta di prova per assurdo per capire perché quello che è accaduto sia accaduto.
Potrei seguitare l’esemplificazione relativa al massimalismo come corrente che non è mai né antagonista né riformista migliorista, in quanto sempre rifiuta sia l’antagonismo “vero” che il riformismo “possibile”, a tutto vantaggio della destra, sino ad oggi, ragionando su autunno caldo e compromesso storico, o sull’ascesa e caduta di Bettino Craxi, o, nel PD, sull’ascesa e caduta di Matteo Renzi. Ma dettagliare il tutto servirebbe solo ad attizzare polemiche inutili e, soprattutto, porterebbe troppo fuori strada rispetto al focus del marxismo operaista della presente analisi e, in modo più specifico, il pensiero politico, e filosofico politico, di Mario Tronti.
Ma in questa terza sinistra, direi come lievito buono – intrecciata o no con massimalisti e neo-massimalisti (ma generalmente sì) – c’è pure l’ala del marxismo, o socialismo, o comunismo – non faccio questione di parole – operaista. Ho intuito sin dal 1963, in modo fortissimo (dapprima dialogando col mio amico Faina, di nove anni più vecchio di me e allora “panzieriano” e ben presto soprattutto “trontiano”), che essa era “altra roba”: una potenziale vera alternativa tanto al burocratismo comunista (burocratico-autoritario come burocratico-socialdemocratizzato) che al collaborazionismo spinto (socialdemocratico), ma anche al non essere né carne “comunista” che pesce “socialdemocratico”. Questa corrente, quando l’ho scoperta, mi ha sempre interessato. Senza saperlo lo stesso Maurizio Landini a mio parere ne fa parte (è un vero “operaista” nel senso del discorso che vengo svolgendo), e infatti secondo me sarebbe stato o sarebbe il solo possibile leader di una nuova sinistra di alternativa democratica con basi di massa, che però per la nobile vocazione di Landini al sindacalismo “di-vittoriano” puro, e un poco al vecchio sindacalismo rivoluzionario, anche per limiti culturali del pur valido sindacalista in questione, non si farà (e quando Landini eventualmente tra anni lo vorrà fare, sarà troppo tardi). Da molti decenni sono lontano politicamente dall’operaismo marxista, ma persino ora leggo molto volentieri i libri della tendenza, compresi quelli di Antonio Negri[23]. Non ho mai concordato e non concordo, ma mi fanno molto pensare. M’interessano. E Mario Tronti mi ha interessato ed interessa più di ogni altro della tendenza.
All’inizio degli anni Sessanta l’operaismo, connesso pure al leninismo, mi era parso alternativa democratica e rivoluzionaria. Fu così da quando scoprii tale corrente. E per questo nel PSIUP dal 1964 al 1972 fui il responsabile del lavoro politico di fabbrica della federazione del PSIUP di Alessandria, e dal 1969 al 1971 feci parte della segreteria regionale piemontese del PSIUP, di cui era segretario Mario Giovana, col compito, dato a me ed a Franco Ramella di Biella, di coordinare il lavoro operaio del partito in Piemonte. Nel frattempo il mio quasi coetaneo Fausto Bertinotti (ha solo un anno più di me), che perciò allora vedevo molto spesso, faceva parte per il PSIUP, dopo Gianni Alasia, della Segreteria regionale della CGIL (quello fu il primo vero balzo in avanti della sua vita)[24]. Dal 1963 leggevo e meditavo soprattutto Tronti, cui il mio amico Faina era allora legato. Ma nell’operaismo marxista c’era un humus comune, che veniva da Vittorio Foa e Raniero Panzieri.
Vittorio Foa nel 1961 aveva pubblicato l’articolo di fondo dei “Quaderni rossi”. Poi se n’era staccato perché per lui, che dopo essere stato nove anni “in carcere” sotto il fascismo (come giovane dirigente, poco più che ventenne, di “Giustizia e Libertà”), era stato soprattutto un sindacalista della FIOM, legatissimo al comunista proletario suo segretario generale (Giuseppe Di Vittorio), essere in radicale dissenso con la FIOM era impensabile. Foa aveva un’inquietudine ideologica totale, credo connessa al fatto che aveva un’intelligenza probabilmente vulcanica[25], ma il punto “fermo” per lui era il legame con i grandi sindacati operai. Ricordo pure qualcosa di significativo in proposito. Foa aveva amici operaisti marxisti come lui a Torino, ma soprattutto a Biella.
Nel 1966 il segretario della federazione di Biella, che lì aveva promosso grandi lotte dei tessili, Pino Ferraris, e con lui Clemente Ciocchetti, venne spostato a Torino, dove divenne segretario di federazione del PSIUP. Ferraris era un personaggio di straordinaria forza morale e persuasiva, e molto acuto[26]. Per un poco il suo PSIUP divenne l’anima della contestazione operaia e studentesca. Il Partito sembrava un porto di mare ed era sempre pieno di giovani, non solo studenti, ma operai. Questi operaisti foani erano presenti all’alba ogni giorno davanti alla FIAT, con piccoli fogli ciclostilati tratti dalla viva voce degli operai (“Cronache FIAT”). Ma per tal via si urtarono presto con i comunisti e con la stessa FIOM, allora diretta da un altro del PSIUP, Paolo Franco. Venne chiamato Foa, amicissimo di Pino Ferraris, che era lì come conciliatore, ma che era o apparve decisamente più vicino al sindacato, che contestava i dirigenti operaisti del Partito. Tra i sindacalisti c’era il suo grande vecchio amico dal 1944, Gianni Alasia. Bertinotti, che era nella segreteria regionale della CGIL, anguilleggiava tra i contendenti. Fu l’inizio della fine di quell’operaismo “psiuppardo” torinese, come Ferraris subito comprese[27].
Così, nel 1971, Pino Ferraris, Clemente Ciocchetti e compagni al congresso del 1971 vennero poi liquidati, e Libertini, che vedendolo come il coautore con Panzieri delle tesi sul controllo operaio del 1958 (oltre che tribuno senza pari), proprio gli operaisti avevano voluto come primo deputato nel ’68, li liquidò e divenne segretario di federazione a Torino. Tale era il legame di Foa con la sua FIOM. Si accenna a ciò anche nelle memorie di Vittorio Foa (1991), che i suoi amici gli avevano quasi estorto, sbobinando testi che egli poi metteva a punto (libro assolutamente straordinario, che ritengo tale non solo nella grande memorialistica, ma anche nella storia dell’operaismo marxista).[28] Pure le opere di Vittorio Foa sarebbero da raccogliere con pazienza certosina. Ne varrebbe davvero la pena.
In tale contesto, al di là di quest’humus, qual era il punto di vista di Mario Tronti, specie dal 1962 al 1970?
Egli in Operai e capitale (1966 e poi 1970), confermava la decisiva idea marxiana ed engelsiana che la storia, essendo soprattutto economica in senso sistemico e sempre collettivo piuttosto che individuale, non dipenda da capi o élites, ma dal contrasto irriducibile tra datori di lavoro e lavoratori, tra borghesi e proletari, tra Capitale e lavoro dipendente.[29] Ma invece di veder ciò come un che di legato ad automatismi economici, spostava l’accento dall’economia alla sociologia “rivoluzionaria”: dalle “leggi” economiche alle forze umane sociali, d’avverso campo, che sono in lizza. Le leggi dell’economia non dominerebbero la realtà, ma sarebbero il frutto dei rapporti reali tra forze umane operanti nell’ambito della produzione, distribuzione e consumo delle merci. L’economia era assorbita dalla dinamica sociale (diventava un’economia sociologica, o una sociologia economica, quando dalla prassi sociale si passasse al pensiero sociale); gli automatismi economici, o pretesi tali, venivano a dipendere, vengono lì a dipendere, da ciò che accade ogni giorno nella relazione tra chi comanda e chi è comandato (nella società civile), e in specie nei luoghi di lavoro. Di lì veniva il riferimento al VI libro inedito del Capitale e ai Grundrisse di economia politica di Marx[30], Grundrisse, o “Lineamenti” di economia politica, enfatizzati da Tronti per primo e più di tutti gli altri. Si dice più o meno “basta” agli automatismi dell’economia che fa la storia, cui adeguarsi, enfatizzati da Engels a Althusser[31]; oppure si sussume quel divenire preteso “oggettivo” a un soggetto collettivo sempre in atto, da cui le leggi economiche, come estrapolazioni astratte dalla realtà sociale, dipenderebbero. La storia – per il nuovo operaismo marxista – non la fa né un singolo né un gruppo e nemmeno un partito (se non sia almeno intrinseco alla classe operaia), ma il produttore collettivo, che nel capitalismo “era” il “mondo operaio”, il quale sotterraneamente tutto muoveva (o “muove”), in specie tramite il conflitto dialettico tra operai e Capitale. Sarebbero soprattutto gli operai, o proletari, collettivamente intesi, a fare la storia, a un punto tale che la “vecchia talpa” della rivoluzione che tutto muove, persino l’antirivoluzione, che servirà alla rivoluzione ulteriore (secondo la grande apostrofe del 1852 del Marx del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, qui presa come metafora della vera storia, né più né meno[32]), sarebbe la protagonista costante, anche se tanto spesso umiliata e offesa, della storia contemporanea. Le formule del Capitale ridurrebbero in leggi tendenziali astratte il moto concreto delle classi in conflitto nella società capitalistica. La teoria “scientifica” non dimostra la verità del movimento operaio nella storia, ma è esso a fondarla (per l’operaismo marxista): senza di che – vera o falsa – quella “scienza” nulla conterebbe. L’antagonismo sociale non sarebbe insomma “post rem”, ossia “dopo la cosa”, effetto dell’Idea comunista “diffusa”, in quanto scienza (da Engels a Althusser), o anche in quanto fede in un nuovo mondo possibile (da Gramsci a Berlinguer, fatti gli ovvi distinguo non da poco tra di loro, ben inteso). Non sarebbe una costruzione dei creatori di storia (singoli, o partito, o partiti, o sette, o quel che si vuole), ma “in re” (nella realtà: già operante in grandissima parte nel sociale spontaneo, piaccia o meno a lor signori, anzi “a lor compagni”). La Storia si farebbe da sé persino curandosi poco di quel che fanno i vertici politici muovendo tanto la coda. Perciò la rivoluzione non si attende, ma si fa: è atto e in atto. Ma Tronti, “in quel contesto”, non era alieno dal valorizzare il salto in avanti che talora la leadership dentro il movimento dei lavoratori può giocare, più o meno come il chirurgo che fa un taglio cesareo alla partoriente.
Se le cose non stiano così la rivoluzione operaia non basta. Non è niente. La fonte della nuova storia in tal caso andrebbe cercata altrove. Ad esempio quando vide il “niente” Faina si fece anarchico situazionista, e come tale morì anni dopo, per tumore, in carcere come terrorista, quasi tra le braccia di Toni Negri, come questi racconta in Pipe-line, in una pagina toccante, in cui riconobbi quel mio vecchio amico fumatore accanito di letali gauloise della prima metà degli anni Sessanta[33].
Su questa faccenda dell’autonomia o meno dei movimenti proletari di lotta, anche senza capi, si aprì la prima crisi dell’operaismo marxista in Italia, di cui Mario Tronti fu protagonista. Era l’estate del 1963 e il tutto ebbe per piccola scena la città della FIAT, che a Mirafiori allora aveva almeno sessantamila operai. Accadde nello studio-biblioteca di Panzieri, a Torino, in via Bligny (lasciato a Panzieri, con la biblioteca che aveva a Torino, da Rodolfo Morandi). Lì tra il 1966 e il 1968 sarei stato più volte, poco oltre la morte di Panzieri (1964), insieme a Liliana Lanzardo, mia compagna di Università, e a suo marito Dario Lanzardo, che poi sarebbe diventato un cultore della fotografia come arte[34]. Ma qui va fatto un piccolo passo indietro nella storia.
La FIAT era il cuore del neocapitalismo italiano: duro in fabbrica nel corso del lavoro, ma sulla base di un sindacalismo di collaborazione aziendale intorno al sindacato interno (SIDA) legato alla UIL. I salari alla FIAT erano un po’ più alti che in altre aziende; c’era pure un certo paternalismo verso i dipendenti; ed una propensione politica socialdemocratica (evidente ad esempio sulla “Stampa” di Torino, di proprietà degli Agnelli), ma tutto ciò era dato in cambio di un’obbedienza cieca pronta e assoluta delle maestranze sul lavoro, con controllo minuzioso uno ad uno anche in apposite cartelline, dei loro orientamenti politici e sindacali, come voleva il direttore tornato ai vertici dopo essere stato epurato per i trascorsi fascisti, e rimasto poi in sella dal 1946 al 1966, Vittorio Valletta. Fu un assetto superato poi dai nuovi diritti conquistati nell’autunno caldo del 1969, anche se Cesare Romiti avrebbe poi tentato, tanti anni dopo, di ripristinarne taluni metodi dopo la marcia dei dipendenti moderati, o dei quarantamila, del 14 ottobre 1980. Comunque alla FIAT dal 1955, quando la CGIL fu messa in minoranza nelle elezioni della commissione interna dal sindacato padronale SIDA e dalla UIL concorde, “in FIAT”, come si diceva a Torino, non si scioperava più. Non si riusciva più a scioperare. Mi ricordo che Gianni Alasia, al tempo in cui ero nella segreteria regionale del PSIUP (dal 1969 al 1971), mi raccontò che in quel 1955 una volta Nenni, segretario del P.S.I. (ben prima della collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana), venuto per un grande comizio, si era intrattenuto per più di un’ora con lui, allora segretario socialista della FIOM, per farsi raccontare come aveva potuto determinarsi quella storica sconfitta del sindacato di classe. “Mì l’hai cuntàilu per n’ura e passa, e chièl a smiava interesà. Ma poi al comizio aveva detto semplicemente, con la sua voce profonda (lì imitata da Alasia), che la reazione padronale aveva inferto un duro colpo al movimento dei lavoratori, che presto sarebbe tornato alla riscossa. Tutto lì …”
Ma il “1955” non durò sempre. Più oltre arrivò il miracolo economico, con tutti quei proletari venuti dal sud presto immessi nelle catene di montaggio dell’operaio “di massa” del tempo. E dopo un poco arrivò, sulla scia dei grandi moti pacifisti e operai degli anni Sessanta, una mezza rivolta operaia: per gli operaisti i fatti di Piazza Statuto del 1962, in cui i lavoratori già della UIL avevano bruciato le tessere, e taluni avevano pure attaccato il sindacato collaborazionista della UIL provando a incendiarlo, sarebbero stati il preludio del ritorno della lotta di classe in senso forte, alla FIAT e in Italia. Gli operai dominarono la Piazza per giorni, senza capi. I comunisti, con Diego Novelli in testa, sull’”Unità” torinese parlarono di fascisti. Ma i “Quaderni rossi” di Panzieri e Tronti vi videro l’inizio di un processo rivoluzionario politico di massa. Ricordo un comizio del giovane Giorgio Canestri del 1962 – anno in cui per alcuni mesi fui funzionario, poco funzionante, del PSI ad Alessandria – a Ovada, in cui disse, entusiasmandomi giovanilmente, che gli operai avevano bruciato, in quei giorni, “le tessere della loro vergogna”.[35] Quando una ventina di anni fa glielo ricordai, fece una piccola smorfia di dispiacere, per quell’estremismo da ventottenne (smorfia che, come sempre, andava a suo onore).
Tuttavia l’antagonismo sociale, che in effetti allora cresceva in ogni sfera – in anni splendidi di mutamento possibile della Storia mondiale – estremizzava pure l’estremismo. Panzieri vedeva sì sintomi di rivolta, ma riteneva che fossero potenzialità cariche di futuro che avrebbero potuto farsi processo rivoluzionario solo tramite il lavoro politico di avanguardie che operassero all’interno dei movimenti spontanei per molti anni. Mancava, per lui, una direzione politica conforme ai movimenti antagonistici spontanei. Nonostante l’operaismo in lui c’era, insomma, un fondo ideologico che veniva dal socialismo di Rodolfo Morandi. Le avanguardie senza masse né bastavano né troppo servivano (anche se il protagonismo delle masse operaie era ritenuto parimenti imprescindibile). Ci voleva un lungo lavorio tra e di lavoratori. Invece Tronti e i suoi amici, tra cui allora era Faina, ritenevano che la classe operaia fosse intrinsecamente rivoluzionaria.
Anche quando la classe operaia non scioperava affatto, l’antagonismo sotterraneo sarebbe stato incessante, manifestandosi in mille modi, dalle fermate improvvise, dette a “gatto selvaggio”, al sabotaggio. “Noi”, mi diceva Faina, “partiamo dall’idea dell’autonomia politica della classe operaia” (poi questo si sarebbe detto “autonomia operaia”); o, come avrebbe detto in un intervento di cui io corressi solo l’italiano, un mio amico fornaciaio siciliano chiamato Natale, in un giornalino che facevo quando insegnai a Pontecurone (1965/1966), “L’operaio è il rivoluzionario dell’industria”[36].
Persuaso che un processo rivoluzionario operaio fosse da mille indizi in atto, Tronti uscì dai “Quaderni Rossi” e fondò, nel 1964, il mensile “Classe operaia”. “L’unità” si chiedeva: “Chi li paga?”. Era la vecchia risposta del PCI al dissidentismo di sinistra: risposta che era pure sua difesa di un’antica egemonia tra gli operai non regalata da nessuno, ma conquistata sul campo, in lotte ininterrotte dal 1921, nell’antifascismo, nelle carceri e nelle isole di confino durante il regime, nella Resistenza e nella dura lotta contro la restaurazione del potere capitalistico in fabbrica negli anni Cinquanta.
Tronti aveva una visione complessa, evidente pure in un vasto saggio che concludeva Operai e capitale, ma già presente in un saggio sul “piano del Capitale” del 1963, che io lessi subito e che mi colpì moltissimo. Se la classe operaia è la forza dinamica prima dentro e contro il capitalismo e poi al di là del capitalismo, essa dovrebbe essere egemone pure nelle sue organizzazioni politiche, nei partiti e sindacati in cui si riconosca o cui dia un continuativo consenso, com’era il PCI, detto però – dagli operaisti – socialdemocratizzato o burocratizzato. Ma allora i partiti servivano?
Sì, rispondeva Tronti. Servono “tatticamente”. E infatti si diceva con qualche stupore, tra i suoi amici di “Classe operaia”, che Tronti non fosse mai uscito dal PCI, pur essendosi allora giovanilmente messo da parte per fare il rivoluzionario tra gli operai.
Fui pure testimone degli sviluppi di tali discussioni. Accadde nel maggio 1964, quasi sessant’anni fa. Allora ci fu uno dei rarissimi convegni nazionali di “Classe operaia”, che si tenne a Piombino nella sede degli anarchici. Io ero del PSIUP, ma questo lì non disturbava nessuno. Giorgio Canestri, cui allora ero molto vicino, mi disse, un po’ ironicamente, che andavo a fare “il più”. Vidi così un Tronti molto vivace e dai capelli nerissimi. Aveva dieci anni più di me, che ne avevo ventitré appena compiuti. Gli interventi mi colpirono tutti. Conobbi allora pure Asor Rosa, al quale dissi di aver letto i suoi saggi su “Quaderni rossi” su letteratura e rivoluzione. “Come ti sono sembrati?”, mi chiese incuriosito. Io gli dissi che mi erano piaciuti molto, ma che mi sembrava di cogliervi un fondo idealistico, hegeliano. Ridacchiò dicendomi che gli era già stato detto. Sentii pure gli interventi di Romolo Gobbi e di Romano Alquati, che dieci anni dopo avrei ritrovato come colleghi all’Università di Torino, che raccontavano di una FIAT – in cui nessuno scioperava – che sarebbe stata percorsa da mille forme di lotta sotterranee raccontate vivacemente, con un tale spontaneismo che Toni Negri stesso intervenne per sottolineare il carattere decisivo del fare politica nei movimenti. E apprezzai molto Mario Tronti, che credeva in tutto ciò, ma lo connetteva a una complessa visione, in cui manifestava apprezzamento pure per Lelio Basso, che considerava “autenticamente marxista”, sebbene isolato.
Nell’ultimo saggio di Operai e capitale, Tronti, comunque, accentuava talmente la centralità operaia nella storia del capitalismo – come se Il Capitale di Marx avesse voluto dire La classe operaia (o, come si diceva allora, la “C.O.”) – che il capitalismo stesso avrebbe potuto essere inteso come sistema di “riproduzione della classe operaia”: era il Capitale a muoversi, a calci, sotto il perenne impulso della lotta operaia: impulso tanto più efficace quanto più forte fosse stata l’opposizione operaia al sistema, che così da essa sarebbe stato dislocato sempre più avanti (direi come la borghesia nel 1300 o 1400, che già sotto quel tardo Medioevo, o sotto il premoderno Assolutismo, cresceva come un uovo della gallina non ancora diventato pulcino, in quel caso dalle uova “d’oro”). Di tanto in tanto, in quel nostro tempo “avanzato” detto di neocapitalismo, qualche buon ostetrico accelerava la tendenza ad andare oltre il Capitale (per lui così era stato soprattutto Lenin, di cui forse in qualche momento sognò di essere emulo lui stesso). Comunque su tale base – come ben presto Tronti teorizzò – anche nei partiti si doveva stare, sia pure dentro e contro, per dislocare il contesto sociale sempre più avanti. Così sin dal 1966 Tronti propose, senza smettere di una briciola – per allora – l’ideologia di cui ho detto, il rientro “tattico” nei partiti storici della sinistra, che per i suoi amici era il PCI (ma taluno di loro, come Asor Rosa, scelse il PSIUP, dove Dario Valori volle che entrasse nel Comitato Centrale).
Gli amici di Tronti che non lo seguirono nel rientro nei partiti storici della sinistra (come Toni Negri, Faina, Alquati e altri), per i quali il momento politico partitico o statale era totalmente strumentale rispetto alla lotta diretta classe contro classe, formarono una tendenza che vede la storia sociale farsi da sé a livello molecolare, sotto la spinta del contrasto irriducibile tra lavoro salariato (o anche semplicemente servile) e Capitale, poco conta se privato o di Stato. Il lavoratore agirebbe in modo tale da impedire il funzionamento dell’estorsione del plusvalore e profitto già durante il capitalismo. (Questo era vero per tutti, ma in loro la “struttura” sociale, avant tout la classe antagonistica che vi opera, ma pure “il Capitale” che le resiste, sembra rendere irrilevante gli altri livelli della realtà). Per loro la struttura economico-sociale, intesa come operare delle forze sociali nella storia in prima persona, era ed è tutto; e la sovrastruttura – la politica politicante, i partiti, lo Stato, il mondo delle idee – “nulla”, oppure un che di sempre marcio (a meno che non si pieghino ad essere un mero mezzo immediato dei movimenti proletari diffusi).
Per Tronti, in specie nel 1961/1966, ma sotterraneamente sino al 2023 quando morì – che nonostante le critiche di idealismo rivolte al gramscismo aveva un fortissimo fondo idealistico (hegeliano e neo-hegeliano) ed anche volontaristico (nietzscheano), trattenuti ma irriducibili – non poteva esserci nulla d’importante nelle forze politiche che non fosse la longa manus delle forze sociali; e, sotto il capitalismo, la longa manus sarebbe stata quella dell’operaio o lavoratore collettivo che, col suo antagonismo, avrebbe mosso il capitalismo stesso, provocandone sviluppo e crisi sempre più gravi sino al crollo. Ma per lui e chi pure dal 1966 in poi la pensava come lui, non poteva neppure esservi antagonismo risolutivo senza quel gheriglio politico o della politica, che, in una visione che parta dai soggetti collettivi, doveva essere la classe politica, l’avanguardia politica solo apparentemente esterna di una classe sociale che sempre permea, o permeerebbe, la storia moderna e contemporanea: la classe operaia. Questa forza politica, questa soggettività pensante-volente, questo decisore collettivo, potrebbe avere solo un ruolo appena maieutico, essere cioè l’ostetrica della storia; ma se la donna (la classe che tutto fa) non deve morire di parto, l’ostetrica ci vuole; la sovrastruttura ci vuole; il partito di sinistra ci vuole, e forse pure il Welfare State ci vuole, e ha un ruolo decisivo. Per lui Lenin era stato questo: il grande ostetrico del post-capitalismo proletario en marche. E infatti da senatore del PD nel 2017 commemorò in Senato, non so quanto capito e ascoltato, la rivoluzione di Lenin nel centenario dell’Ottobre.
In Tronti c’era dunque un fondo idealistico di matrice hegeliana o hegeliano-attualistica (rinnegato, ma sempre risorgente), ma anche fortemente segnato dal volontarismo “nietzscheano” (non sul piano etico, ma della filosofia dell’essere come volontà). Perciò via via Tronti accentuò la centralità della tattica politica, scoprendo e teorizzando con grande forza il decisionismo di sinistra: una sorta di Carl Schmitt rimesso sui piedi, riletto e riproposto da sinistra, più o meno rovesciato nei fini come Marx aveva fatto con la dialettica di Hegel. Su ciò tenne pure un seminario a Torino, nel 1972, credo promosso da Norberto Bobbio, che allora era ordinario di “Filosofia della politica” nonché preside della Facoltà di Scienze Politiche, in cui muovevo i primi passi. Il riferimento va al testo di Tronti, poi rielaborato, Sull’autonomia del politico (1977). Ma testi specifici, su questo Schmitt riletto in chiave marxista di sinistra, sono nella raccolta di testi di Tronti Soggetti, crisi, potere (1980), numerosi e importanti[37].
Ma poi la Storia continuò ad essere sorprendente. Intanto, per la spinta della grande rivoluzione elettronica, cominciarono a sparire le grandi fabbriche. Sin dalla metà degli anni Settanta i trontiani “ortodossi” (o “eretici”, fate voi), elaborarono l’importante teoria dell’operaio “sociale”[38]. Su ciò è da considerare soprattutto l’elaborazione di Antonio Negri.
Al tempo di Marx l’operaio tipico era stato “l’operaio professionale”, che ha un mestiere compiuto, una sorta di cultura delle mani importantissima (tanto da far ritenere a Marx totalmente possibile la dittatura del proletariato in senso stretto, non così inetto ad essere dirigente di sé stesso come si voleva far credere). Poi era arrivato il lavoro sempre più semplice e ripetitivo, come quello delle catene di montaggio, ossia dell’“operaio massa”; questi poteva pure essere mezzo analfabeta, ma per fare poche mosse semplici e ripetute andava bene, e poteva benissimo passare dagli uliveti della Puglia o dalla Conca d’oro degli aranceti della Sicilia alla produzione in serie. Ma poi era arrivata la rivoluzione elettronica.[39] Il lavoratore era dappertutto e in nessun luogo, uomo in rivolta delle grandi periferie urbane, detto “operaio sociale”. Il capitale prova a asservirlo “ovunque”, così come esso è ormai “ovunque”. Ma sarebbe ovunque – per Negri e compagni – anche la rivolta degli sfruttati (i quali col loro agire infrangono le leggi economiche del Capitale, come fossero in rivoluzione permanente): operai sociali o proletari puri che Antonio Negri e Michael Hardt poi chiameranno “moltitudini”[40]. Sull’operaio sociale, spesso in rivolta nelle periferie, e ieri a Parigi contro la riforma delle pensioni di Macron, specie dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento, puntava ora l’operaismo ex trontiano (o neo-trontiano), come l’Autonomia Operaia di Negri o l’anarchismo situazionistico di Faina, permeato dalla “vision” che – ovviamente del tutto a prescindere da Faina – ora si può vedere nel bellissimo film Joker (2019)[41], che certo lo avrebbe entusiasmato, come immagino possa aver entusiasmato Toni Negri. Si tratta però di vedere se non si tratti di jacqueries, come quelle furiose dei contadini poveri di secoli passati, troppo frantumati nel mondo del lavoro per potersi coagulare, se non tramite “profeti” redentivi, cioè “religiosi”. Comunque sarà il futuro a dircelo. Per ora i proletari senza grande fabbrica producono solo rivolte “selvagge”, che possono apparire rivoluzionarie, ma pure reazionarie, nel senso di suscitatrici di reazione di destra che poi non possono, se mai vogliano, sconfiggere. Su ciò lascerei per ora aperta la valutazione.
Tronti dal 1966 è sempre stato più lontano da tutto quest’antagonismo proletario teorizzato da ex compagni che lo hanno sempre rimpianto; è sempre più stato persuaso che se è vero che non c’è nulla nel “politico” (sia capo, élite, movimento politico o persino Stato) che non sottenda un mondo sociale corrispettivo tutto vivo ed operante anche sotterraneamente, è pure vero che senza “politico” adeguato “il sociale”, mondo operaio compreso, non va da nessuna parte. Il vero decisionista sa intendere quel che si fonde con i movimenti della società in cui si riconosce, e fare le sue scelte.[42] Ad esempio io sono stato colpito quando subito prima della formazione del secondo governo Conte lessi un’intervista di Tronti, mi pare all’”Espresso”, in cui diceva che il PD, imbarcandosi in tale avventura (il “Conte due”), stava compiendo un errore storico, valorizzando una forza per lui insensata come il Movimento Cinque Stelle. Io invece apprezzai la manovra di Renzi per fermare “l’irresistibile ascesa” di Salvini, ma mi colpì il modo di ragionare di Tronti, e oggi mi chiedo se non avesse ragione, e se l’eccesso di tatticismo, anche per ottima causa, non sia un grande inganno, un modo di vincere la battaglia perdendo la guerra, una manifestazione machiavellico-fiorentina di quell’agire del “diavolo” che fa sempre le pentole, ma non i coperchi.
Al tempo stesso, però, “anche” Tronti doveva interrogarsi sul senso di tanta ansia palingenetica a lungo cercata nel soggetto collettivo, ma sempre irrealizzata. Ha però seguitato a ritenere ottime le ragioni della rivolta anticapitalistica, da Lenin e compagni all’operaismo marxista del secolo scorso.
Ma via via ha dovuto riconoscere che a vincere sinora è stato il Capitale e non il Lavoratore, il padronato e non il proletariato. Ha maledetto il mondo presente persino assai di più di quanto avesse fatto nel secolo scorso, pur riconoscendo che indietro non si può tornare. Il Capitale ha vinto creando “l’uomo nuovo”, che sarebbe “il borghese di massa”, tanto che ormai staremmo “dentro una storia nemica”. Le vecchie soluzioni sono tutte vinte e improponibili. Allora bisognerebbe opporre a questa sorta di mondo dell’uomo sempre più alienato, e che viaggia verso l’abisso, un uomo spirituale, che qua e là fa pensare all’antinomia che gli gnostici, nel mondo tardo antico, ponevano tra uomini “iliaci” (materiali) e “pneumatici” (spirituali”). La prima rivoluzione ritenuta latente, di cui la storia è o sarebbe per così dire incinta, sarebbe proprio la “rivoluzione spirituale”, neo-cristiana nel fondo, come spiegava in opera da discutere, Dello spirito libero (2015). La vera libertà non sarebbe quella partecipativa (almeno per ora), del vecchio per lui glorioso ma superato socialismo (o comunismo), e neppure la libertà dal potere altrui, o indipendenza, di tipo liberista (ma pure liberale), bensì quella interiore, capace di svincolarsi dalla storia però sovrastandola. Marx mirava a un mondo senza plusvalore (non solo col plusvalore “allo Stato”), in cui tutto fosse di tutti, che come purtroppo per ora si è visto, “non è di questo mondo” (almeno “sin qui”), ma anche il Cristo mirava a uno status altro dal mondo dominante, a una libertà da questo mondo di tipo interiore.
Tutto ciò m’interessa immensamente, e vi tornerò più oltre, perché mi sembra un percorso misteriosamente omologo al mio (che vi sono arrivato in un cammino da Nietzsche e Marx, e Lenin, e Rosa Luxemburg e tutto l’operaismo marxista, e pure comunista, a Jung e oltre Jung, in un processo in cui la renovatio sociale ed ecologica deve legarsi alla religiosità “della” e “nella” vita). Di ciò ciascuno ha naturalmente il diritto di infischiarsi totalmente, magari esclamando “Roba da matti!” come mi ha scritto un mio vecchio amico dopo avermi sentito parlare sul mio libro Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (2022)[43], in un sito di You Tube di Huffington Post; ma a me l’esclamazione polemica non ha fatto alcun male, e mi ha anzi divertito. Compagni e non compagni, ormai siamo in molti a pensarla così. C’è sempre una Grande Riforma, o rivoluzione, comunitaria ed ecologica, da fare, ma la prima rivoluzione, pure per rendere possibile quella sociale (eventuale), è “in interiore homine”: è spirituale, perché per me per andare oltre ci vuole uno spirito che percepisca la propria infinità, libertà e solidarietà “a monte” prima che a valle della Storia. Questo ci dice ora madama la Storia. “È la Storia, bellezza!”
[1] Citavo già i “Quaderni rossi” in: F. Livorsi, Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, Alessandria, n. 3, nomembre 1962, in cui discutevo: Lenin, Sul movimento italiano, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti, 1962, certo in modo ingenuo. Lenin avrebbe detto che in un partito in cui c’è un Turati, e un Serrati che non combatte contro Turati, “è naturale che ci sia un Bordiga”. Come a dire che l’estremismo di sinistra cresceva in assenza di un’alternativa di sinistra al riformismo detto collaborazionista. A parte tale intuizione, però l’articolo, del sottoscritto ventunenne, era ingenuo. Più complesso, anche se scritto alla maniera oggi per me criptica, del marxismo del tempo, è il mio “saggio”, di vero operaismo teorico, Prospettive di una politica di classe, ivi, n. 9, 11 maggio 1963 e n. 10, 25 maggio 1963, in cui gli echi dei “Quaderni rossi” sono molto evidenti.
[2] LENIN, Che fare? (1902), a cura di V. Strada, Einaudi, Torino, 1971. Si confronti con: R. LUXEMBURG, Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa (1904) in: Scritti politici, Introduzione e cura di L. Basso, Editori Riuniti, Roma, 1967. ….
[3] R. LUXEMBURG, Lo sciopero generale – il partito – e i sindacati (1906), Edizioni “Avanti!”, Milano, 1919. Il testo è riportato pure, con alcune variazioni, nell’esemplare: R. LUXEMBURG, Scritti politici, cit. Pure prezioso è: R. LUXEMBURG, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Edizioni Avanti!, Milano, 1963.
[4] Lo stesso Circolo da lui fondato a Genova all’inizio degli anni Sessanta si chiamava “Rosa Luxemburg”.
[5] L’op. cit. di G. Preti fu edita da Einaudi a Torino nel 1957 ed è stata riproposta, con prefazione di S. Veca, da Bruno Mondadori, a Milano, nel 2007. L’op. decisiva di Dewey, del 1938, fu pubblicata da Einaudi, a Torino, nel 1949.
[6] P. C. MASINI, Cafiero, Rizzoli, Milano, 1974. Un altro modo per cogliere “questo spirito” è vedere e meditare il bel film di Vittorio e Paolo Taviani San Michele aveva un gallo, del 1975. Secondo me Faina era uno come il protagonista di quel film.
[7] Su Merli rinvio pure a: F. LIVORSI, Stefano Merli. Lo storico e il socialismo, “Il Ponte”; a. LI, n. 12, dicembre 1995, pp. 75-97. Si vedano i seguenti volumi di RANIERO PANZIERI, da Stefano Merli curati: Lettere 1940-1964, a cura sua e di Lucia Dotti, Marsilio, 1987, assolutamente centrale, per capire la tendenza, ma pure per capire Tronti; Scritti scelti. 1944-1956, Einaudi, 1982; Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 1956-1959, Marsilio, 1986; Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei Quaderni rossi 1959-1964, BSF, Pisa, 1994.
[8] Il libro cit. di Aldo Agosti su Rodolfo Morandi comparve presso Laterza a Bari nel 1971. Si confronti pure con: F. LIVORSI, Morandi oggi, “Mondo nuovo”, XIII, n. 44, 14 novembre 1971. Sul PSIUP: A. AGOSTI, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, 2013. Si vedano pure: F. LIVORSI, Dialogo sull’Italia repubblicana e sul PSIUP, “Città Futura on-line”, 13 e 19 settembre 2015; Una storia del Psiup, “Critica marxista”, n. 5, 2014, pp. 72-79.
[9] L. LIBERTINI – R. PANZIERI, Sette tesi sul controllo operaio, “Mondo operaio”, n. 12, febbraio 1958. Furono criticate da esponenti comunisti, come Luciano Barca, sullo stesso mensile socialista. Anche Paolo Spriano su “l’unità” criticò tali posizioni. Il focus per i comunisti era la lotta contro il cosiddetto “regime” democristiano.
[10] F. LIVORSI, Lenin in Italia. Le componenti della sinistra di fronte alla concezione leninista della classe e dello Stato, “Classe”, XIII, n. 44, 14 novembre 1971, pp. 325-389. Da confrontare, per coglierne l’origine, con i miei articoli “antelucani” in proposito: Gli scritti di Lenin sul socialismo italiano, “L’idea socialista”, n. 3, 3 novembre 1962; Attualità di Lenin, ivi, n. 4. 1970.
[11] F. LIVORSI, Amadeo Bordiga nella storiografia sul PCI, “Studi storici”, a. XV, n. 2, 1974, pp. 430-444; A. BORDIGA, Scritti scelti, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975; F. LIVORSI, Bordiga. Il pensiero e l’azione politica. 1912-1970, Editori Riuniti, 1976; Morale e politica alle origini del comunismo italiano, Da Bordiga a Gramsci, “Il Ponte”, n. 10, 1994, pp. 60-85; Scienza e politica in Amadeo Bordiga. La critica dell’opportunismo, il settarismo e il determinismo, “Il Risorgimento”, Milano, a. LVII, n. 2/3, 2005, pp. 263-302.
[12] Per tutti questi aspetti sono da vedere: S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale: il caso italiano, La Nuova Italia, Firenze, 1972/1973, due volumi; G. PROCACCI, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma (che nella parte centrale ricostruisce lo sciopero generale nazionale del 1905, il primo del genere in Italia); A. RIOSA, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista dell’età giolittiana, De Donato, Bari, 1976; R. DE FELICE, D’Annunzio politico. 1918-1938, Laterza, 1978: Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Einaudi, 1965.
[13] L’opera fu edita da Einaudi nel 1966. Ripubblicata con aggiornamenti nel 1972 e poi presso Derive-Approdi, Roma, 2006.
[14] A. SCHIAVONE, Sinistra! Un manifesto, Einaudi, 2023.
[15] F. LIVORSI, Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021.
[16] Scrivo Luigi Longo, invece che Palmiro Togliatti, perché l’essere comunista mi pare più convinto e pieno in Longo, il Vice di Togliatti. Palmiro Togliatti, nella concezione dell’unità del partito, era certo un bolscevico, ma su altri terreni era ben più aperto al riformismo socialista. C’era in lui molta “doppia verità”, mentre il marxismo-leninismo era più convinto in Longo.
[17] E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della democrazia (1899), a cura di L. Colletti, Laterza, Roma-Bari, 1968.
[18] Per queste vicende si vedano soprattutto: Giorgio GALLI, Storia del socialismo italiano, Laterza, 1980; A. BENZONI, Il Partito Socialista dalla Resistenza a oggi, Marsilio, Venezia, 1980; A. AGOSTI, Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, 2013.
[19] Rinvio pure a: Franco LIVORSI Crisi di governabilità dello Stato liberale e avvento del fascismo. Note storiche e politologiche, in: UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA, “Studi in onore di Enzo Sciacca”, a cura di F. Biondi Nalis, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 309-320.
[20] E. MAURO, La dannazione. 1921, La sinistra divisa all’alba del fascismo, Feltrinelli, Milano, 2020.
[21] Proporrei di distinguere tra crisi “dello” Stato e crisi “nello” Stato. La crisi “dello” Stato, nel senso di Stato-macchina o degli apparati, che Marx e Engels dicevano “borghese”, e noi “moderno”, almeno in Europa non ci fu neanche nel primo dopoguerra. Ma in alcuni paesi, o travolti dalla disfatta (Germania e a ruota l’Austria), o sconvolti economicamente e socialmente nonostante la vittoria (Italia), ci fu. E infatti sorse una nuova forma di governo, in Germania prima molto democratica (Repubblica di Weimar) e poi nazifascista, e in Italia fascista. In Italia, in astratto, avrebbe pure potuto determinarsi il centrosinistra (Giolitti-Turati) o addirittura la Repubblica democratica, come ritenne Nenni in Sei anni di guerra civile, in: Vent’anni di fascismo, Edizioni Avanti!, Milano, 1964.
[22] Mondadori, Milano, 1932.
[23] Per me era stato importante: A. NEGRI, Marx oltre Marx, Manifestolibri, Roma, 2003, ma pure, per ragioni che emergeranno, Pipe-line: lettere da Rebibbia, Einaudi, 1983. Poi ho letto, e recensito sul “Pensiero politico”, il libro di A. NEGRI e M. HARDT Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002; Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale, ivi, 2004, e tutta quanta la fluviale autobiografia, che è pure una storia personalizzata del marxismo di sinistra dagli anni Sessanta a oggi: Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Milano, 2015; Guerra ed esilio. Storia di un comunista, ivi 2017. Mi è parso notevole pure: Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1979. Ho sempre letto tutto con partecipe dissenso sul piano della linea politica, ma con fortissimo interesse filosofico e teorico-politico.
[24] Bertinotti arrivò al PSIUP due anni dopo, nel 1966. Io facevo parte del Direttivo regionale del PSIUP del Piemonte, e ricordo un intervento del segretario della federazione di Novara, il simpaticissimo ingegner Sandro Gastoldi, che informandoci su come andavano le cose “da lor”, più o meno ci disse così: “Alla Camera del Lavoro è stato ora assunto un giovane, un certo Fausto Bertinotti, che è un socialista lombardiano, ma ragiona proprio come noi, e spesso è più a sinistra di noi.” Infatti presto arrivò al PSIUP, come ho detto.
[25] Una volta, forse nel 1974, il bravo Adalberto Minucci, allora segretario regionale del PCI in Piemonte, mi raccontò che aveva incontrato Vittorio Foa alla Biblioteca del Parlamento, intento a prendere appunti. Gli aveva chiesto: “Che cosa scrivi, Vittorio?” E l’altro, sto scrivendo un libro, ma mi blocco sempre,” E l’altro: “Perché?”. Foa rispose: “Perché quando arrivo a pagina 15 mi accorgo che non sono d’accordo con le prime 14 pagine scritte.” Trovo nella battuta pure un certo humor ebraico, ma anche la testimonianza di un modo di essere così perennemente aperto da pote difficilmente “concludere”. Ma per eccesso di spirito critico, se si vuole socratico all’eccesso.
[26] Emerge ad esempio in una sua lunga riflessione sul n. 5 dei “Quaderni rossi” del 1965. Inoltre in seguito, come docente dell’Università di Urbino dette apporti notevoli su Robert Michels. Più discutibile, perché nel suo movimentismo antagonistico ne faceva quasi l’apologia, un suo saggio su “Giovane Critica” sulla rivolta di Reggio Calabria del 1970 sottovalutando i tratti fascistoidi (ma pur sempre molto interessante). Comunque si vedano in particolare, di Pino FERRARIS: La contraddizione meridionale, Rosenberg & Sellier, Torino, 1978; Saggi su Robert Michels, Jovene, Napoli, 1993; (A cura), Rete: dinamiche sociali e innovazioni tecnologiche, Carocci, Roma, 2006; Introduzione a: V. FOA, La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento, Einaudi, Torino, 2009.
[27] Alla fine della riunione disse a Foa, come potei sentire lì: “Ora è tutto finito”, comprendendo, a differenza del vecchio leader, che gli era stato fatto il vuoto attorno politicamente.
[28] V. FOA, Il Cavallo e la Torre, Riflessioni di una vita, Einaudi, 1991.
[29] Il famoso libro fu pubblicato da Einaudi a Torino.
[30] K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Grundrisse (sono quaderni preparatori del Capitale, scritti nel 1857-1858, ma editi postumi a Mosca nel 1939-1941), a cura di G. Backhaus, Einaudi, 1976, due volumi. Si confronti con: K. MARX, Scritti inediti di economia politica, tradotti e curati da M. Tronti, Editori Riuniti, Roma, 1963.
[31] F. ENGELS, A Joseph Bloch, 21 settembre 1890, in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 1242-1244: G. PLECHANOV, La funzione della personalità nella storia (1899), Edizioni Rinascita, Roma, 1956; L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia (1899), Jaca Book, Milano, 1969.
[32] L’opera, a cura di G. Giorgetti, è uscita presso gli Editori Riuniti, a Roma, nel 1963.
[33] A. NEGRI, Pipe-line: lettere da Rebibbia, Einaudi, 1983.
[34] Dario Lanzardo, sia pure dando un titolo fuorviante rispetto all’operaismo, per suggestione di quegli anni, curò pure una bella raccolta, pur con titolo direi incongruo, di testi di RANIERO PANZIERI, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Sapere, Milano, 1972.
[35] Giorgio Canestri, professore di Lettere all’ITIS Volta di Alessandria e poi direttore dell’Istituto storico della Resistenza di quella provincia, dal 1968 al 1972 fu deputato del PSIUP.
[36] Il riferimento è ad alcune paginette stampate di un giornalino del 1965 intitolato “Unità operaia”.
[37] M. TRONTI, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, 1977; Soggetti, crisi, potere. Antologia di scritti e interventi, a cura di A. De Martinis e A. Piazzi, Cappelli, Bologna, 1980. Ma va soprattutto letto e studiato: M. TRONTI, Il demone della politica. Antologia di scritti. 1958-2015, a cura di M. Cavalleri, M. Filippi e M. H. Marcat, Il Mulino, Bologna, 2017.
[38] Per la piena comprensione di questa problematica “dall’interno” rinvio soprattutto a: Toni NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tommasini, Multhipla Edizioni, 1979.
[39] Nel suo schematismo operaista, che vede la C.O. come soggetto sottinteso del capitalismo, che si trasforma incalzato dalla lotta delle masse proletarie, Tronti a un certo punto ipotizzò che in modo impersonale il capitalismo a un certo punto, per resistere alla pressione operaia, abbia inventato un modo di produzione che possa funzionare bene pure con un minimo di dipendenti in carne e ossa: appunto l’automazione.
[40] Per la comprensione profonda e dall’interno di tutta questa problematica trovo prezioso: A. NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1979. Ma si veda: A. NEGRI – M. HARDT, Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, 2004.
[41] T. PHILLIPS, Joker, film del 2019.
[42] Anche Vittorio Foa era arrivato a tale conclusione, su cui nel ricordato Il Cavallo e la Torre ci sono pagine straordinarie.
[43] F. LIVORSI, Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto, Moretti & Vitali, 2022.
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