STATO SOCIALE E PIENO IMPIEGO TRA COSTITUZIONE ED ECONOMIA” di Leonello Tronti

 

Sintesi: L’articolo tratta in modo sintetico l’evoluzione del concetto di stato sociale, e il suo legame con la crescita economica e la piena occupazione, lungo un percorso complesso che dura oltre un secolo, dal lavoro di Adolf Wagner (1878) alle proposte di James Meade (1989, 1995). La panoramica si concentra sui legami teorici dei primi esperimenti dello stato sociale con il fondamento dell’economia del benessere (Pigou, 1920), l’istituzione del concetto di capitale umano (Knight, 1944; Schultz, 1961) e la sistematizzazione del disegno dello stato sociale offerta da Beveridge (1942). Negli stessi anni, l’obiettivo della piena occupazione è affermato come realizzabile e opportuno (Keynes, 1936; Beveridge, 1944; Roosevelt, 1945), mentre la Costituzione italiana (1948) ne propone un importante avanzamento, affermando la piena occupazione come libertà sostanziale. Con la fine degli accordi di Bretton Woods (1971) e gli shock petroliferi (1973, 1979) la stagflazione si diffonde alle economie sviluppate, e sia lo stato sociale che la piena occupazione subiscono una battuta d’arresto. La legge di Wagner trova un’espressione più evoluta nella curva di Laffer (1974), mentre la politica monetaria diventa restrittiva e la piena occupazione deve cedere il passo al Nairu (Modigliani e Papademos, 1975; Tobin, 1980). È questo il clima in cui Meade propone un nuovo e vitale legame tra lo stato sociale e la piena occupazione: una proposta in cui l’azionariato dei lavoratori si combina con le “nazionalizzazioni alla rovescia” (topsy-turvy), e il dividendo sociale con il credito pubblico (anziché il debito), in una prospettiva di graduale dissolvimento dell’imposizione fiscale. Una proposta decisamente fuori dagli schemi, ma su cui vale la pena riflettere  a fondo. 

Lassalle, Wagner

La nascita dello stato sociale si può far risalire all’opera dell’economista tedesco e “socialista della cattedra” Adolph Wagner, influenzato da Ferdinand Lassalle e, come lui, alleato di Bismarck. Dal 1882 al 1885 Wagner fu membro della Dieta prussiana dove, oltre alla nazionalizzazione delle ferrovie, sostenne l’istituzione delle assicurazioni previdenziali e di altri istituti pubblici di carattere sociale di stampo occupazionale. Sotto sua ispirazione Bismarck, mosso più dal conflitto con il partito socialdemocratico che da passione per la causa sociale, varò fra il 1881 e il 1889 il primo sistema previdenziale moderno, che servì da modello per tutti gli altri paesi socialmente avanzati: nel 1883 istituì l’assicurazione contro le malattie, nel 1884 quella contro gli infortuni e nel 1889 realizzò un progetto di pensione di vecchiaia. Le fondamenta del moderno stato sociale furono quindi gettate allora nel continente europeo.

Per inquadrare meglio la visione di Wagner, bisogna aggiungere che l’economista tedesco è famoso per aver intuito sin dal 1878 che nelle economie moderne la crescita della spesa pubblica era destinata a sopravanzare quella del reddito[1]. L’esattezza di questa semplice predizione, che va sotto il nome di “legge di Wagner”, appare ancor più significativa e profonda quando si pensi che essa non poteva in alcun modo basarsi sull’osservazione degli stati coevi che, in accordo con le prescrizioni dell’economia classica, si limitavano a coprire con risorse assai limitate (secondo Maddison[2], intorno al due per cento del reddito) le funzioni tradizionali della difesa, della giustizia e dell’ordine pubblico. Essa nasceva invece dall’intuizione che tanto l’esigenza di promuovere lo sviluppo industriale, quanto quella di contenere il conflitto sociale (in buona parte da quello innescato) convergevano nell’indurre gli stati moderni a intervenire in misura crescente e senza precedenti nel sistema economico e sociale[3].

Pigou, Roosevelt, Keynes

Una quarantina d’anni più tardi, l’economista inglese Arthur Pigou (1920), succeduto a Cambridge nella cattedra del maestro Alfred Marshall, fondava l’economia del benessere, mostrando che il benessere economico della collettività non dipende soltanto dalla crescita del prodotto nazionale, ma anche dalla sua distribuzione tra gli individui. Data l’utilità decrescente del reddito, l’aumento del reddito in termini reali determina  un aumento di benessere per la collettività soltanto se non vi sia redistribuzione di reddito a danno dei poveri. Se l’economia accresce il reddito di un ricco ma riduce quello di un povero può darsi infatti una diminuzione di benessere della collettività, dato che l’incremento di benessere del ricco sarà significativamente inferiore alla severa perdita di utilità patita dal povero, costretto a lasciare insoddisfatti bisogni prioritari.

Pochi anni dopo, nel periodo successivo alla grande crisi del ‘29, Roosevelt (in particolare dal 1935) e Keynes (1936) – sulle due sponde dell’Atlantico e nei differenti ambiti della politica e dell’economia – convergeranno nell’individuare la spesa pubblica non solo come sollievo ai problemi di deprivazione economica e sociale, ma anche come motore della ripresa delle economie dalla crisi.

Formuleranno inoltre su nuove basi l’obiettivo politico del pieno impiego[4] e, con esso, il ruolo ineludibile dell’intervento pubblico in una situazione in cui le forze del mercato lasciate a se stesse si dimostravano ben lontane dal poterlo conseguire.

Beveridge

In quel clima intellettuale, con lo sguardo volto alla riconversione dell’economia britannica dall’assetto di guerra a quello di pace che, con la smobilitazione delle forze armate e delle attività produttive non più necessarie a sostenere consumi bellici, prospettava minaccioso lo spettro della disoccupazione, circa un decennio dopo si collocano i due lavori fondamentali di William Beveridge: il suo rapporto (1942) e il suo piano (1944). Strumenti di progettazione e programmazione di un nuovo assetto sociale ispirato all’economia del benessere di Pigou e alle idee di Keynes, volto a sostenere lo sforzo della Gran Bretagna sia nell’impegno del conflitto ancora in corso, sia in quello della successiva ricostruzione del paese.

Beveridge proponeva un ampio disegno di sostegno sociale della popolazione contro la minaccia dei cinque “mali giganti” (giant evils): lo stato di bisogno (want) (causato dalla povertà), la malattia, l’ignoranza, lo squallore (squalor) (causato dalla miseria degli alloggi), la disoccupazione (idleness) (causata dalla mancanza di posti di lavoro, o dall’incapacità di ottenere un impiego). Per abbattere i mali giganti il piano prevedeva misure “dalla culla alla bara”, quali: sussidi per il matrimonio e la maternità; assegni per i figli piccoli; assistenza sanitaria universale; pensioni e sussidi di invalidità; sussidi di disoccupazione; assegni per le vedove; pensioni di vecchiaia; pensioni di categoria; e persino sussidi per i funerali.

Consegnato al parlamento britannico il 18 maggio 1944, Il piano (più di 600 pagine) è la più vasta indagine mai elaborata sulle cause della disoccupazione e la possibilità della piena occupazione al ritorno della pace, individuata nel conseguimento di un tasso di disoccupazione frizionale al 3%, costituito essenzialmente da lavoratori occupati in cerca di un’occupazione migliore[5]. Pur essendo fondato sul pieno impiego, il modello di welfare disegnato da Beveridge è universalistico e focalizza il suo obiettivo sociale nel sostegno alla famiglia[6] e alla società. “La piena occupazione produttiva in una società libera – scrive infatti Beveridge nell’introduzione – è possibile, ma non la si può realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria” (1944, p. 16)[7]. Fatto proprio e proposto al Parlamento dal nuovo governo laburista (Attlee), il Piano Beveridge viene approvato in varie tappe a partire dal 1945.

 Stato sociale e capitale umano

Sotto il profilo dell’avanzamento della teoria economica in un ambito teorico del tutto diverso, in quegli stessi anni Frank Knight, uno dei padri fondatori della scuola di Chicago, nota che il miglioramento dello stock di saperi produttivi di una società poteva neutralizzare la legge dei ritorni decrescenti. Per Knight (1944) lo stock di abilità e conoscenze produttive incorporato negli individui può essere considerato una specifica articolazione del capitale dell’economia. E questa osservazione apre la strada alla successiva teorizzazione del concetto di “capitale umano” da parte di Theodore Schultz (1961). Se il capitale è la fonte di flussi attuali e futuri di prodotto e di reddito, analogamente gli investimenti in capitale umano danno luogo a un rendimento che consiste nel miglioramento attuale e futuro delle abilità produttive degli esseri umani e delle loro possibilità di reddito, come anche nell’aumento dell’efficienza delle loro decisioni economiche.

Il filone di indagine verrà corroborato da evidenze empiriche più tardi, negli anni ’60 e ‘70, quando saranno disponibili informazioni statistiche consistenti e adeguate sugli investimenti effettuati dai governi dei paesi industriali avanzati volti al miglioramento dell’istruzione, della salute e della sicurezza sociale della popolazione. Le analisi econometriche sulle cause della crescita economica condotte con l’ausilio di funzioni di produzione aggregate (growth accounting) mostravano che le misure convenzionali del prodotto aggregato crescevano più rapidamente delle misure aggregate delle quantità di lavoro e capitale impiegate. La componente residuale della crescita non spiegata dalle quantità impiegate nel processo produttivo veniva attribuita alla “produttività totale dei fattori”: una grandezza che non è possibile ascrivere alla crescita quantitativa né del lavoro né del capitale utilizzati. Venne pertanto avanzata l’ipotesi che la produttività totale fosse il risultato del “progresso tecnico” del sistema produttivo, una parte consistente del quale sarebbe derivata da miglioramenti nella qualità dei fattori stessi.

In questo scenario analitico, il miglioramento della capacità produttiva del lavoro veniva spiegato ricorrendo a una teorizzazione ampia del concetto di capitale umano, che giungeva a comprendere sia i miglioramenti di lungo periodo nelle abilità produttive dei lavoratori (grazie allo sviluppo dell’alfabetizzazione, dell’istruzione e della formazione professionale), sia altri aspetti attinenti allo sviluppo socio-economico e al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, quali: la riduzione della mortalità infantile e l’aumento delle risorse destinate ai bambini, il miglioramento della salute e la maggiore longevità degli adulti, la capacità delle persone più istruite di effettuare scelte economiche migliori[8]. Le analisi empiriche condotte in quegli anni[9] evidenziano che il rendimento degli investimenti in capitale umano risultava di dimensioni pienamente paragonabili a quello del capitale fisico. Il concetto di capitale umano, considerato in questa accezione ampia e macroeconomica, offriva dunque un sostegno scientifico ai governi che, spinti dall’esempio dell’Inghilterra di Beveridge, intendevano sviluppare elementi essenziali dello stato sociale.

 Stato sociale e pieno impiego nella costituzione italiana

La costruzione dello stato sociale italiano segue un percorso diverso. Nel 1948, con la fine del fascismo, della guerra e della monarchia, la repubblica istituisce nella costituzione un nesso inscindibile tra i due progetti di lunga lena che la caratterizzano: quello politico e quello sociale. Quel nesso pone un vincolo forte all’indirizzo della politica economica – un vincolo che non può non riflettersi sulla scelta del modello di sviluppo e negli obiettivi della politica sociale. Già con l’articolo 1, che attribuisce al lavoro il ruolo di fondamento della Repubblica, e con l’articolo 4, che (in evidente parallelismo con il voto) lo specifica come diritto-dovere, la carta costituzionale muove nella direzione di fare del pieno impiego l’elemento portante della costituzione materiale. L’affermazione che la repubblica “riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” affida all’intervento pubblico il compito di promuovere politiche economiche e previdenziali tali da impedire che nell’economia si ripetano i possibili equilibri di depressione e disoccupazione involontaria che, nella grande crisi, le forze di mercato lasciate a se stesse hanno dimostrato di poter creare.

Ma la visione innovatrice che caratterizza la costituzione italiana si spinge più avanti quando, sotto il profilo della tutela materiale dell’uguaglianza e della libertà dei cittadini, proclama con l’articolo 3 che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Siamo qui di fronte anzitutto alla proclamazione delle finalità di uno stato sociale che, pur mantenendo il riferimento fondamentale al lavoro, manifesta un carattere indubbiamente universalistico. I due aspetti, quello occupazionale e quello universalistico risultano in effetti tanto fusi da apparire non distinguibili, tenuti assieme da un’identificazione del lavoro non solo come diritto-dovere del cittadino, ma anche come condizione fondamentale della sua libertà e dell’uguaglianza tra i cittadini. Di più, libertà ed eguaglianza sono intese in termini concreti, sostanziali, e non come diritti astratti, come potenzialità non negate. Esse devono infatti realizzarsi, per l’individuo, nel “pieno sviluppo della persona umana” e, per la collettività, nell’“effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”[10].

La visione dell’effettivo godimento dei diritti di libertà e uguaglianza dei cittadini-lavoratori in termini di sviluppo della persona e piena partecipazione collettiva alla vita della repubblica costituisce un elemento politico di notevole rilievo della costituzione italiana e di forte qualificazione del modello di democrazia e di stato sociale che essa ambisce a fondare. In nuce si può ritenere che essa rappresenti un modello archetipale di quella libertà sostanziale, che poi Amartya Sen (1981) (forse influenzato dalla moglie Eva Colorni, dall’amico Altiero Spinelli o da Lelio Basso, principale estensore dell’articolo 3) svilupperà con Martha Nussbaum (2011) nei termini di una teoria della giustizia e dello sviluppo umano che muove dagli entitlements, per giungere alle capabilities e, infine, all’effettivo functioning, lungo il percorso che dal diritto formale investe la capacità di goderne e, quindi, il godimento effettivo.

Non mi soffermo sui molti altri fondamenti costituzionali dello stato sociale italiano. Basti qui notare che la prima parte della carta costituzionale (in particolare i titoli I-III, artt. 1-47) chiarisce bene come essa rappresenti un progetto di società e di stato sociale o del benessere, non tanto in aggiunta o a cornice, quanto in consustanzialità con la dimensione fondamentale – economica, sociale e politica – del lavoro. Non può essere, però, purtroppo sottaciuto che, nonostante il dettato costituzionale, nell’esperienza italiana l’obiettivo del pieno impiego difficilmente può dirsi raggiunto in modo più che fuggevole[11]. Se nel 1963, dopo la fase della ricostruzione postbellica l’Italia tocca finalmente un tasso di disoccupazione del 4 per cento, negli anni successivi e fino al 1997 la disoccupazione cresce rapidamente fino all’11,4 per cento, per poi tornare al 6,2 per cento nel 2006 e quindi risalire da allora a valori (dal 2012 al 2019) superiori alle due cifre.

 Contro il pieno impiego

In prospettiva internazionale va però notato che il pieno impiego non è un obiettivo arduo soltanto per l’Italia. Seppure a livelli più contenuti, dopo il “glorioso tentennio” della ricostruzione postbellica, praticamente tutte le economie avanzate risultano piagate da un’alta disoccupazione e da un rallentamento dei tassi di crescita accompagnati da un’elevata inflazione: una malattia dell’economia inattesa dalla teoria, per la quale viene coniato il nome di stagflazione.

Lo strumento cardine per fronteggiare la stagflazione e assicurare un tasso di crescita non inflazionistico venne identificato in una politica monetaria restrittiva. La scelta monetarista si basava sull’ipotesi che il tasso di interesse regolasse gli investimenti e questi ultimi regolassero la disoccupazione, che a sua volta regolava i salari e i consumi – e quindi l’inflazione –, in accordo con la relazione tra disoccupazione e inflazione messa in luce da William Phillips (1958). In una situazione inflazionistica, l’aumento del tasso di interesse avrebbe reso alle imprese più difficile e più costoso l’accesso al credito e avrebbe così rallentato la crescita. Il rallentamento avrebbe quindi alimentato la disoccupazione, che a sua volta avrebbe contenuto le rivendicazioni salariali e la domanda di consumo delle famiglie, frenando infine i prezzi.

Il principale colpevole della stagflazione veniva quindi implicitamente individuato proprio nell’obiettivo della piena occupazione perseguito dalle economie sviluppate nella fase della ricostruzione. Quell’obiettivo ostacolava il contenimento dei salari e della domanda di beni di consumo necessario ad “accomodare” gli shock di prezzo dell’energia e delle materie prime. In altri termini, la politica tendeva ad addebitare più o meno esplicitamente la stagflazione all’eccesso di potere guadagnato dal lavoro negli anni precedenti e, dunque, ai partiti di sinistra, ai sindacati e allo stato sociale (che con l’inflazione importata non ha alcun legame).

Sulle opposte sponde dell’Atlantico una nuova coppia di protagonisti, Margareth Thatcher e Ronald Reagan, affrontava la stagflazione con politiche economiche di ridimensionamento del ruolo di regolazione sociale ed economica dello Stato: taglio delle tasse ai ricchi e alle imprese, smantellamento dello stato sociale e dell’intervento pubblico in economia, liberalizzazione della finanza privata, eliminazione dei vincoli all’azione delle banche e delle imprese, abolizione delle norme di tutela del sindacato.

Abbandonato l’obiettivo politico del pieno impiego, lo si sostituiva con il ben più prudente tentativo, fortemente tecnico, di frenare la crescita dell’occupazione sino a raggiungere il Nairu, Non accelerating inflation rate of unemployment: il tasso di disoccupazione “naturale”, abbastanza elevato da scongiurare – nelle condizioni date per ciascuna economia – l’aumento dei prezzi[12].

La disinflazione si affidava soprattutto alle cosiddette politiche “dell’offerta”, contrapposte alle politiche keynesiane “della domanda”. In un quadro di restrizione dell’offerta di moneta e di politiche di “austerità” (compressione di salari, dei consumi e dello stato sociale), la centralità politica della piena occupazione veniva rimpiazzata da quella della libertà di mercato e dell’impresa e dalla stabilità della moneta, favorendo un po’ ovunque non solo l’aumento della disoccupazione e la compressione della quota del lavoro nel reddito, ma anche l’impoverimento della classe media e una rapida crescita delle disuguaglianze economiche e sociali, che nel tempo si dimostrerà senza precedenti.

Dalla legge di Wagner alla curva di Laffer

Come abbiamo visto, tra la seconda metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80 il rallentamento della crescita economica e l’aumento automatico della pressione fiscale, consentito dalla compresenza di inflazione e progressività delle aliquote, si combinavano con le radicate aspettative di sviluppo dei servizi pubblici in un mix esplosivo di accelerazione della legge di Wagner. La crisi non tardava a porre pressanti problemi di aggiustamento a cittadini e policy-maker delle economie che, al contrario dell’Italia, non scaricavano sul debito pubblico i fabbisogni finanziari crescenti. L’Italia si concedeva, grazie all’esplosione di un debito pubblico allora contenuto, un ritardo di reazione di quasi un decennio.

Peraltro, con la stagflazione la legge di Wagner assumeva la forma minacciosa del raggiungimento di una soglia critica della pressione fiscale di dimensioni tali da scoraggiare l’investimento privato, e trovava quindi una nuova formulazione teorica, più comprensiva e suggestiva, nel quadro della famosa quanto discussa “curva di Laffer”[13]. L’ipotesi alla base della teoria è che, a parità di reddito, esista una quantità massima di beni pubblici che l’apparato statuale è in grado di fornire alla popolazione. Se il livello delle imposte è tale da scoraggiare l’impegno di lavoro degli individui e gli investimenti delle imprese, si avrà non solo un minor livello di consumo di beni privati, ma anche un minor livello di gettito tributario e quindi di spesa pubblica: l’eccesso di spesa pubblica genererebbe stagnazione economica ed eroderebbe la stessa sostenibilità del livello di spesa pubblica raggiunto. In altri termini, non diversamente dal rapporto tra occupazione e inflazione, esisterebbe anche un livello di imposizione “naturale” o “di equilibrio”: un punto in cui la legge di Wagner dovrebbe arrestarsi perché lì raggiungerebbero il loro massimo non solo la produzione e il consumo di beni privati (altrimenti scoraggiati dall’imposizione fiscale) ma anche, con essi, le entrate fiscali, il livello della spesa pubblica e quindi la disponibilità di beni pubblici per la popolazione.

La curva di Laffer costituisce una delle basi della cosiddetta “economia dell’offerta” (supply-side economics). Per combattere gli effetti disincentivanti dell’iniziativa economica connessi con l’eccesso di spesa pubblica (soprattutto in termini di crowding out, o “spiazzamento” degli investimenti privati da parte delle risorse assorbite dal settore pubblico), la supply-side economics invoca rilevanti abbattimenti della pressione fiscale. Alla riduzione delle imposte dovrebbe infatti accompagnarsi un rallentamento della spesa pubblica tale da contenere il debito pubblico e l’imposizione fiscale, consentendo la liberazione di una maggior quantità di risorse per il settore privato. La riduzione della pressione fiscale favorirebbe l’attività economica e, per questa via, consentirebbe un aumento in valore assoluto anche del gettito fiscale e, quindi, della stessa spesa pubblica.

Va peraltro ricordato che il rischio di insostenibilità fiscale della crescita era stato segnalato già nella seconda metà degli anni ‘70, in termini di “crisi fiscale dello stato”, da James O’Connor (1977). Questo autore, in netto contrasto con i teorici dello spiazzamento, sosteneva la opposta tesi che la crescita del settore statale sarebbe stata indispensabile all’espansione dell’industria privata nel quadro della struttura stessa del capitalismo maturo, di cui l’espandersi dello “stato assistenziale” non costituirebbe una deformazione ma un’immagine speculare. Una penetrante analisi dello stato militare-assistenziale quale si era venuto formando negli Stati Uniti forniva validi elementi di critica del punto di vista convenzionale secondo il quale il settore pubblico si svilupperebbe solo a spese del settore privato. In realtà, la crescita del settore statale sarebbe indispensabile all’espansione dell’industria privata. In altri termini, secondo O’Connor, più che dagli eccessi o dalle possibili frodi nelle erogazioni assistenziali, la crisi fiscale derivava dall’egemonia ideologica e politica del capitale monopolistico e dai suoi intrecci con l’apparato statuale e militare. Al di là delle radicali denunce dell’autore, il suo lavoro segnalava l’esaurimento del paradigma sociale fordista, connesso con l’esplodere del problema del finanziamento della spesa.

Va detto che, nonostante il rilevante appeal politico dell’ipotesi che sostiene la curva di Laffer – riproposta, in epoca recente e con qualche aggiustamento derivato dalla teoria delle aspettative razionali, a sostegno dell’ancor più ardimentosa teoria dell’“austerità espansiva”[14] – non risulta ad oggi disponibile alcuna verifica empirica che ne attesti la validità in relazione ai livelli di pressione fiscale prevalenti.

Del resto, la lotta alla stagflazione condotta attraverso l’utilizzo combinato di politiche monetarie restrittive e flessibilizzazione del mercato del lavoro ha ottenuto risultati inferiori alle attese. Se nella seconda metà degli anni ’90, nell’insieme dei paesi Ocse l’inflazione appare finalmente sotto controllo (intorno al 2 per cento), la disoccupazione scenderà sotto il 6 per cento soltanto un decennio più tardi, poco prima della crisi finanziaria internazionale del 2008 che in tre anni la riporterà all’8,5 per cento. E la crescita economica, che tra il 1960 e il 1973 era stata in media del 5,1% l’anno, nel successivo periodo 1973-1997 si dimezzerà al 2,8 per cento l’anno e non accennerà più a riprendersi.

La riconquista del pieno impiego

Se ha dunque frenato l’inflazione, la combinazione di politiche monetarie restrittive, liberismo, compressione dello stato sociale e disoccupazione di equilibrio, non è riuscita a far riprendere crescita e occupazione. E l’abbandono dell’obiettivo del pieno impiego in favore della disoccupazione di equilibrio e della flessibilizzazione del mercato del lavoro ha portato le economie avanzate ad una situazione di stallo per un motivo tanto semplice quanto difficile da accettare per chi si affida alla morale neoliberista: se non c’è pieno impiego non c’è nemmeno crescita, perché (come ben sapevano sia Keynes che Beveridge) tra pieno impiego e domanda interna al netto della spesa pubblica e delle importazioni esiste un legame forte che per le economie sviluppate, dove non prevalgano “salari da fame”[15], non può essere sostituito dalla domanda globale e nemmeno dalla finanza.

Il problema economico che la rifondazione dello stato sociale deve risolvere è come riuscire ad avere, in un’economia non di comando, una situazione di pieno impiego senza inflazione e senza povertà.

Se la piena occupazione è un obiettivo politico e sociale irrinunciabile, per poterla riconquistare nelle nuove condizioni dell’economia globalizzata e a fronte della quarta rivoluzione industriale, il lavoro deve cambiare: deve diventare più qualificato e più produttivo. Ma, al tempo stesso, il costo del lavoro per l’impresa deve diventare più flessibile in modo da agevolare la continua riorganizzazione del sistema produttivo. Il paradigma della flessibilità del lavoro si può però declinare in direzioni diverse, secondo diversi possibili “equivalenti funzionali”, ognuno dei quali comporta costi e benefici specifici. Le dimensioni fondamentali della flessibilità sono tre: quella dei rapporti di lavoro; quella del tempo di lavoro; quella salariale. Quest’ultima, la più difficile, è anche la più promettente.

La flessibilizzazione del salario richiede infatti di perseguire consapevolmente una trasformazione sociale di grande portata: di aprire la prospettiva di una riorganizzazione dello stato sociale che non penalizzi il lavoro e anzi valorizzi la cooperazione tra Stato, impresa e lavoro. Numerosi sono gli esempi di forme più o meno limitate di retribuzione flessibile, dalle grandi imprese giapponesi alle cooperative del centro Italia, ma l’unica proposta di un sistema economico fondato su di una generale flessibilizzazione delle retribuzioni è contenuta nell’opera Full Employment Regained? di James Meade (1995), l’economista inglese amico di Keynes, autore di Agathotopia (1989) e premio Nobel nel 1977.

Il punto fondamentale della proposta meadiana è che, poiché l’accettazione della flessibilizzazione dei salari comporta ipso facto che i lavoratori assumano il rischio di impresa, essa può essere accolta solo a seguito di una profonda modifica del tradizionale rapporto di lavoro dipendente e di una parallela evoluzione culturale dei rapporti sociali. Accettando di commisurare la propria remunerazione all’andamento dell’impresa, il lavoratore diventa infatti un socio, un partner che investe nell’impresa il proprio lavoro al pari di chi vi investe il proprio denaro. Ma è altresì evidente che, ai fini della protezione del reddito delle famiglie e dello sviluppo dell’economia, l’abbandono della garanzia della stabilità del reddito da lavoro comporta che esso debba essere necessariamente integrato con altri redditi.

Meade intende rafforzare il legame di complementarità tra la diffusione della proprietà azionaria e la sostenibilità sociale di un elevato grado di flessibilizzazione della remunerazione del lavoro, al fine di preservare la “purezza semantica” della retribuzione come segnale di mercato utile ad orientare l’allocazione ottima di lavoro e capitale in un sistema economico che il progresso tecnologico e le mutevoli condizioni dei mercati globali rendono soggetto a continue, profonde trasformazioni. La partnership d’impresa proposta da Meade prevede che sia i lavoratori sia i soci di capitale detengano quote azionarie, con caratteristiche però ben distinte. Le “azioni di lavoro” hanno diritto ai dividendi e alla rappresentanza nella stessa misura delle normali azioni di capitale ma, essendo collegate al lavoro svolto nell’impresa, non sono trasferibili e si annullano al momento dell’uscita volontaria del lavoratore dall’impresa. Questi è pertanto remunerato in parte con un salario fisso, in parte con i dividendi delle azioni (che mantiene anche in caso di disoccupazione involontaria). Pur nella varietà dei possibili equilibri fra capitale e lavoro nelle singole imprese, il risultato dev’essere comunque tale da assicurare ai soci lavoratori un peso decisivo nella struttura societaria.

Il livello dei salari e il grado di integrazione di questi con redditi da capitale (azioni di lavoro) costituisce la misura della necessità di programmi pubblici di sostegno del reddito e di protezione dell’occupazione: un lavoratore partner a remunerazione flessibile non perderà mai il proprio posto di lavoro (a meno che l’impresa non sia costretta a chiudere), ma potrà scegliere se rimanere nell’impresa in cui si trova o cercare di cambiare lavoro quando la sua retribuzione o il valore delle sue azioni abbiano raggiunto un livello che non gli sembri più adeguato.

La garanzia del reddito proposta da Meade è offerta dalla progressiva integrazione di tutti i redditi attraverso un’ulteriore tipologia di reddito: il “dividendo sociale”. Questa terza voce, universale e non soggetta ad alcuna “prova dei mezzi”, è finanziata dalla partecipazione pubblica fino a un massimo del 50 per cento al capitale di tutte le imprese (attraverso un processo di “nazionalizzazione alla rovescia”). Il reddito ricavato dallo Stato dalla sua partecipazione nelle imprese ha il fine di trasformare gradualmente il debito pubblico in credito pubblico, al fine di sostituire così buona parte della tassazione, e soprattutto di consentire a tutti i cittadini di godere in perpetuo di un reddito uguale per tutti e indipendente dal lavoro – frutto tangibile della cooperazione sociale (tra Stato, imprenditori e lavoratori) nella buona conduzione delle imprese e dell’economia.

Non c’è dubbio che questa indicazione proponga una profonda trasformazione dei rapporti sociali ed economici nella direzione concreta di comunità nazionali nettamente più integrate e cooperative. Va poi sottolineato che essa ha il vantaggio di poter essere attuata gradualmente, senza cesure forti di carattere politico, sociale o economico. Certo in molti paesi europei e anche in Italia esistono programmi assistenziali universalistici, che assicurano un reddito minimo a tutti i cittadini in condizioni di disagio economico, indipendentemente dalla loro presente o passata condizione nel mercato del lavoro. Ma la concezione di Meade è del tutto diversa, in quanto non parte da motivazioni di carattere assistenziale, bensì dalla volontà di evidenziare e rendere disponibili a tutti i cittadini i frutti della cooperazione sociale e, al tempo stesso, di depurare la remunerazione del lavoro da qualunque rischio inflazionistico come anche da qualunque funzione redistributiva.

Un nuovo modello di stato sociale

La proposta del dividendo sociale propone, peraltro, un nuovo modello di stato sociale che rilancia in termini innovativi il tradizionale ruolo keynesiano di sostegno dell’operatore pubblico alla crescita economica e occupazionale: lo “Stato azionista di minoranza” trasforma il rapporto tra realtà produttiva e stato sociale, oggi in crisi, per dare vita ad un sistema di protezione sociale che, anziché contrapporsi come correttivo allo sviluppo della produzione e del reddito, è totalmente connaturale ad esso. Di più: mentre la disponibilità per il sistema economico di un consistente credito pubblico non può non influire positivamente sul mercato dei capitali e sul livello del saggio di interesse (e quindi sulla facilità di creazione di nuove attività produttive), l’interconnessione esplicita tra partecipazione pubblica alla produzione e livello del dividendo sociale configura una nuova e più ricca concezione della cittadinanza e della solidarietà sociale.

Il carattere decisamente “eretico” della strategia di Meade rispetto alle tradizionali scuole del pensiero economico – e forse proprio per questo più suggestivo – consiste nella libertà intellettuale con cui essa combina in un’inedita prospettiva unitaria gli elementi più convincenti delle opposte tradizioni neoclassica e keynesiana: remunerazione del lavoro flessibile, bassa inflazione, controllo dell’offerta di moneta e concorrenza di mercato si coniugano in essa con politiche fiscali e di spesa fortemente redistributive, diffusione del modello partecipativo in azienda, aumento anziché riduzione della presenza pubblica nell’economia (vincolata alla non interferenza con le logiche di mercato),  ripresa del demand management keynesiano e soprattutto dell’obiettivo della piena occupazione.

Va poi notato che, per quanto non esplicitamente rivolta a questo obiettivo, la proposta meadiana offre, sul piano teorico, una soluzione al grave problema strutturale che abbiamo visto minare alla base la possibilità di proseguire lo sviluppo dello stato sociale quale l’abbiamo conosciuto sinora. La soluzione del problema posto dall’incedere minaccioso della legge di Wagner e dai possibili effetti perversi della pressione fiscale sulla crescita consiste nell’allentare (e, al limite, rescindere) il legame storico tra crescita della spesa sociale e crescita dell’imposizione fiscale. Nel modello di Meade è infatti la misura del dividendo sociale (cioè del flusso degli interessi sui capitali pubblici investiti nelle imprese private) a determinare sino a che punto la spesa sociale debba essere finanziata attraverso il prelievo fiscale. Se il flusso degli interessi è consistente, la spesa sociale potrà crescere anche a fronte di un alleggerimento della pressione fiscale. Ed è la natura del dividendo sociale a garantire che si costituisca un nuovo legame virtuoso tra crescita economica e crescita della spesa pubblica. Ciò non implica che la spesa pubblica possa crescere senza limite, ma evidenzia che tale limite è costituito dai ricavi della partecipazione pubblica (di minoranza) al capitale delle imprese che, a loro volta, dipendono dalla crescita dell’economia.

Nella proposta dell’economista inglese si attenua anche il problema strutturale della crescita sbilanciata tra i diversi settori dell’economia, in funzione delle differenze nella possibilità di impiego del progresso tecnico. In una realtà, infatti, in cui il costo del lavoro sia sufficientemente flessibile da adattarsi all’evoluzione differenziale della produttività e della domanda di lavoro tra le imprese e i settori, la differenziazione retributiva può contrapporsi agli effetti occupazionali di jobless growth, mentre gli effetti socialmente indesiderabili di una consistente apertura dei differenziali retributivi in funzione della domanda di lavoro trovano (diversamente da quanto avviene nei paesi con mercati del lavoro segmentati), un potente correttivo dal lato fiscale e da quello del dividendo sociale.

Certo resta da vedere se, nella pratica di un mondo che adottasse la proposta di Meade, non si verrebbe a creare un effetto di compressione dell’offerta di lavoro in conseguenza di una troppo pronunciata redistribuzione del reddito dal lavoro e dal capitale (ma sempre in connessione con il lavoro) ai trasferimenti pubblici. Nei termini della teoria della ricerca di lavoro, infatti, la redistribuzione potrebbe comportare un corrispondente aumento del salario di riserva, con effetti moltiplicativi sulla disoccupazione d’attesa, in una realtà in cui la remunerazione collegata al lavoro (salari e dividendi delle azioni di lavoro) fosse mantenuta a livelli poco attraenti.

Va però notato che un pregio particolare della proposta di Meade, in questo non meno che in tutti gli altri suoi elementi, consiste nella gradualità con cui può essere applicata. Le diverse misure hanno vincoli reciproci (di natura prevalentemente finanziaria), ma non sembra esistere una soglia minima di efficacia, al di sotto della quale gli effetti virtuosi attesi non si verifichino. Il menù consente un’applicazione graduale, tale da permettere in itinere le sperimentazioni, gli aggiustamenti e i correttivi che ne assicurino il successo.

Particolare interesse riveste infine, anche sotto il profilo culturale, la radicale revisione del ruolo economico dello Stato che, attraverso l’estinzione del debito pubblico e l’accensione di un crescente credito pubblico derivante dalla partecipazione minoritaria ad attività produttive private, segna una netta evoluzione della concezione economica dell’operatore collettivo: dallo stato-gendarme della concezione classica del laissez-faire, il cui fine è solo quello di assicurare che il gioco economico rispetti i diritti di proprietà e le regole di mercato, allo stato interventista della rivoluzione keynesiana, impegnato ad attivare le risorse improduttive attraverso lo sviluppo della spesa pubblica, allo stato “socio di minoranza” delle attività economiche, la cui finalità fondamentale è quella di favorire lo sviluppo delle forze produttive e di esplicitarne alla cittadinanza il livello raggiunto in solido, nella misura del dividendo sociale.

 Conclusioni

La prima e più generale considerazione conclusiva è che, nonostante tutto, non è lecito essere troppo pessimisti circa il futuro dello stato sociale. Infatti, seppure questa complessa costruzione politica, sociale ed economica che ha caratterizzato in modo tanto profondo il secolo XX si presenti oggi segnata dalle lacerazioni connesse ad un evidente stato di difficoltà a volte drammatico, la crisi ha, secondo chi scrive, più il carattere di una messa a punto, di un ripensamento di un sentiero percorso troppo affrettatamente (e, specialmente nell’ultimo periodo, in modo troppo automatico), che quello di un fallimento senza rimedio.

Certo sono cambiate importanti condizioni strutturali. È aumentato il grado di concorrenza ambientale, in relazione al rapido e tumultuoso sviluppo della competizione globale, e con esso il rischio di un pericoloso ottundimento dei livelli di solidarietà sociale raggiunti dalle economie avanzate negli anni ’70. Le economie avanzate si sono terziarizzate e hanno delocalizzato verso aree meno sviluppate la produzione industriale, con la conseguenza che mostrano oggi grandi difficoltà a perseguire ritmi di crescita che solo vent’anni fa apparivano del tutto “normali”, con il rischio di perdere il fondamentale sostegno alla coesione sociale offerto dalla rapida espansione del benessere collettivo. Sono inoltre caduti miseramente alcuni miti economici del secondo dopoguerra, tra i quali primeggia quello degli effetti automatici della spesa pubblica su crescita e occupazione. Soprattutto, sembra oggi caduta per sempre la “grande speranza” di poter raggiungere e mantenere nel tempo, attraverso la manovra di bilancio, un livello di piena occupazione delle risorse produttive senza indurre profondi squilibri nel sistema economico e sociale: un compito che appare sempre meno agevole per un sistema economico che non sia regolato dal comando.

Si tratta tuttavia, a parere di chi scrive, di punti di crisi e di involuzioni che, per quanto indubbiamente gravi e dolorosi, sono però parziali e temporanei – come attesta il fatto che gli stessi paesi anglosassoni, che più e prima degli altri si sono mossi con parole d’ordine di vero e proprio smantellamento dello stato sociale – sembrerebbero prossimi ad arrendersi all’evidenza del ruolo irrinunciabile e del peso invincibile della solidarietà sociale nella determinazione dell’assetto politico e della manovra economica delle economie avanzate[16]. Lo stato sociale e l’intervento pubblico nell’economia vanno profondamente ripensati e ripercorsi con uno spirito nuovo, non rinnegati.

Dinanzi alla prospettiva di una rivoluzione tecnologica senza precedenti, la sfida più terribile, la minaccia davvero mortale che oggi incombe sullo stato sociale è quella della jobless growth, dei “lavoratori disarmati nella sfida con i robot”, come recita il sottotitolo del recente volume di Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie (2022). Se sviluppo e occupazione non sono più sinonimi, lo stato sociale non può che crollare, perché è l’occupazione piena e regolare, con la completa adesione fiscale e contributiva dei lavoratori occupati, a consentire il finanziamento dello stato sociale: la piena occupazione non ne è che il fondamento finanziario necessario, la condizione economica di sistema indispensabile allo stato sociale – in qualunque configurazione esso si presenti. Al tempo stesso, però, lo stato sociale è la condizione necessaria, anzi indispensabile perché il mercato del lavoro raggiunga la condizione di piena occupazione. La sfida della jobless growth può essere vinta e la piena occupazione riconquistata, purché si accetti di rinnovare profondamente i lineamenti dello stato sociale pagando il prezzo che il rinnovamento comporta in termini di aggiustamento sociale, economico e culturale.

Sin dalla sua prima enunciazione, la piena occupazione, nei termini dell’assenza di disoccupazione involontaria[17], diviene un obiettivo irrinunciabile dello stato sociale; ma, per poterla riguadagnare nelle nuove condizioni di contesto, il lavoro, l’impresa e lo stato sociale stesso devono cambiare, integrandosi reciprocamente in un nuovo modello di sviluppo più profondamente partecipativo. Se, nella proposta di Meade, il reddito dei cittadini deriva da almeno tre diverse fonti (retribuzione, remunerazione del lavoro attraverso le “azioni di lavoro” e “dividendo sociale”, segno tangibile della qualità della collaborazione tra lavoro, impresa e stato), la solidità delle imprese è sostenuta dalla partecipazione pubblica al capitale azionario e dalla progressiva abolizione delle imposte e lo Stato può beneficiare del credito pubblico derivante dalla partecipazione “di minoranza” nel capitale delle imprese, ciascuno dei tre attori avrà interesse alla collaborazione reciproca ai fini di uno sviluppo che è, ad un tempo, economico e sociale, e non può essere privo di rilevanti risvolti politici.

Il principio dell’integrazione dell’interesse di imprese e cittadini con l’interesse pubblico (e viceversa) avanza una nuova concezione della cittadinanza nei sistemi economici avanzati, che configura l’appartenenza sociale come fondata materialmente e direttamente sul lavoro e sulla partecipazione ai processi di sviluppo (non diversamente da quanto sancito, almeno in termini di principio, dalla costituzione italiana), e identifica nel sostegno reciproco alla “capacità produttiva” dei cittadini e delle imprese la nuova dimensione fondamentale della solidarietà sociale garantita dall’azione pubblica.

Si prospetta in questi termini il passaggio da una concezione della solidarietà sociale caratterizzata in modo essenzialmente redistributivo, sulla base dell’applicazione di criteri di equità nell’accesso, nella disponibilità e nel consumo delle risorse, ad una nuova concezione di solidarietà produttiva, che sostiene la ricerca di nuovi criteri di equità corrispondenti al grado di sviluppo sociale ed economico e commisurati alla realizzazione delle esigenze espressive e partecipative dei cittadini. In questa nuova accezione dello stato sociale, il dividendo sociale non è una forma di garanzia del reddito alternativa all’occupazione, bensì da un lato misura tangibile e disponibile a tutti dello sviluppo e della coesione sociale e, dall’altro, condizione necessaria per consentire a tutti di coltivare la propria professionalità e, quindi, per favorire il dispiegamento delle forze produttive dell’economia e la riconquista della piena occupazione in quanto assenza di disoccupazione involontaria. Muovendo dalla piena occupazione come condizione dello stato sociale, la concreta solidarietà produttiva proposta da Meade delinea una trasformazione della società e dell’economia che individua il nuovo stato sociale come condizione della piena occupazione.

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– Il testo è parte del libro intitolato ‘Politiche del welfare e costituzionalismo europeo’, a cura di Luigi Troiani, ed è qui pubblicato per gentile concessione della casa editrice Arcadia edizioni.

[1] Wagner, A. (1891). Secondo Wagner, la legge si reggeva su tre processi: a) la sostituzione di attività private con attività pubbliche, derivante dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione; b) l’esistenza, tra i beni pubblici, di beni “superiori” nell’accezione di Engel, ossia ad elasticità-reddito elevata (istruzione, cultura), la cui domanda sarebbe aumentata in misura più che proporzionale rispetto al reddito; c) l’orizzonte temporale richiesto dal calcolo della convenienza di certi investimenti (ad esempio le ferrovie) che richiede un intervento pubblico crescente, così come l’esistenza di monopoli naturali che vanno gestiti dalla mano pubblica.

[2] Maddison, A. (1894).

[3] Sulla legge di Wagner si veda Di Majo, A. (1998); Tronti, L. (1991), pp. 23-44.

[4] Dopo l’esperienza del primo (1933-34) e del secondo New Deal (1935-38), Roosevelt, sollecitato anche dal Piano Beveridge, tenterà senza successo di varare nel 1945, poco prima di morire, il Full Employment Bill che prevedeva che a tutti gli americani fosse assicurato il “diritto al lavoro” nella forma del diritto di accedere a un “lavoro utile, remunerativo, regolare e a tempo pieno”. V. Hamilton, D.; Darity Jr., W e Paul, M. (2018).

[5] Beveridge definisce la piena occupazione come: “a state where there are slightly more vacant jobs than there are available workers”. Una condizione che, tra l’altro, favorisce la ricerca di lavori migliori da parte di lavoratori occupati.

[6] Tipicamente una famiglia nucleare con due figli.

[7] “Full productive employment in a free society”, scrive Beveridge, “is possible but it is not possible without taking pains; (…) it is a goal that can be reached only by conscious continuous organization of all our productive resources under democratic control” (1944, ivi).

[8] Schultz, T. (1961).

[9] Denison, E. F. (1962); Kendrick J., W (1976).

[10] Tema, quest’ultimo, che trova eco anche nell’articolo 46 che sancisce “il diritto dei lavoratori a collaborare (…) alla gestione delle aziende”.

[11] Lo notava già con rammarico Faustini, G. (1984).

[12] Modigliani, F. e Papademos, L. (1975). Tobin, J. (1980).

[13] Laffer, A., B. (2004).

[14] Alesina, A. F.; e Ardagna, S. (2009).

[15] Fana, M. e Fana S. (2019).

[16] Su questo punto, rimando a Bartocci, E. (1996) e Bartocci, E. (1997).

[17] Keynes, J., M. (2019).

 

(tratto da: www.labour.it, 23 dicembre 2023)

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