ENERGIA: UNA GIUSTA MISURA PER LA SOPRAVVIVENZA SUL PIANETA.
Niente, a parer mio, può dirsi sconvolgente nel corso del pensiero e dell’immaginario umano, quanto doversi attenere al risultato di indagini teoriche e di conferme sperimentali che datano la nascita del nostro Universo nientemeno che a 13 o14 miliardi di anni addietro, per una fluttuazione quantistica del vuoto. Una singolarità, quest’ultima, in cui tutto era intimamente collegato in un evento previsto, ma per ora indescrivibile attraverso a matematica, le scienze, e le conoscenze che abbiamo fin qui acquisito. Un evento perfino oltre ogni immaginazione, se si pensa che nessun essere cosciente sul nostro Pianeta ne abbia potuto osservare l’evoluzione per miliardi di anni, in uno spazio-tempo tanto vasto e duraturo, eppure talmente caoticamente coordinato e finalizzato da dare origine alla vita solo quattro miliardi di anni fa. Contrariamente a tutte le rappresentazioni mitologiche e religiose, la biosfera si è cominciata lentamente ad impadronire della Terra solo dopo infinite cosmogenesi, ad energie e temperature altissime, composizioni e scomposizioni di forze ricostruibili approssimativamente negli acceleratori più potenti in finzione nel mondo o attraverso l’analisi delle immagini di telescopi orbitanti verso altre galassie. Ricombinazioni di particelle e granuli di materia, energia, tempo e spazio che sopravvivono tutt’ora, spesso ricombinate – e questo è l’aspetto più misterioso – in esseri viventi che hanno innescato il loro lunghissimo, fragile e complesso apprendistato in luoghi, man mano sempre più accoglienti e potenzialmente meno ostili fino a sopravvivere e riprodursi. L’interpretazione di un Universo che oltrepassa i limiti spazio-temporali della nostra conoscenza, ma che predispone la nascita della vita, la organizza – direi finalizza – con gli stessi componenti primordiali del suo primo apparire, tutti collegati insieme e solo successivamente separati in enti distinti, non è affatto patrimonio consapevole della conoscenza generalizzata delle generazioni attuali e tanto meno della coscienza dei decisori che amministrano la Terra. Solo nel Novecento – con una rivoluzione culturale ispirata dalla relatività e dalla quantistica – si è avviata una riflessione sul futuro del vivente nell’ambito di un Pianeta che poteva assicurare riproducibilità, conservando la totalità di materia ed energia di un sistema isolato, che degrada disordinando con l’aumentare dell’entropia.
La ricostruzione scientifica, certamente approssimativa, qui esposta, mostra analogie con tante delle narrazioni di origine mitologica o religiosa sul comparire della vita nell’Universo, ma ha di speciale la demolizione, che Einstein introduce, di uno spazio e di un tempo eterni ed immutabili, che possono essere invece dominati, almeno sulla Terra, dalla potenza geologica della specie umana attuale e dalla velocità relativa tra i processi artificiali e quelli naturali.
In buona sostanza, quello in cui ritroviamo le nostre vite è un mondo che proviene spontaneamente dal vuoto e che ha subito una incredibile e lunga metamorfosi che non ha lasciato inalterati nemmeno lo spazio e il tempo. Ciò significa che la specie umana alla sua nascita si è trovata a contemplare, osservare e misurare un ambiente del tutto sconosciuto, in uno stadio ormai quasi definitivamente compiuto per rimpiazzare la morte degli ominidi con nascite meno indifese rispetto alle precedenti e dotate di crescente senso di identità, appartenenza e autocoscienza e di una propria influenza sullo spazio-tempo che li circonda. Doti specifiche e preziose, attraverso cui assicurarsi quel tanto di sopravvivenza, di relazioni sociali, di consumo di risorse ed energia e di autonomia che una parte infinitesima dell’universo, come quella in cui ruota il nostro Pianeta, può riservare alle pretese di chi la abita.
La specie umana nasce “dopo”, come autentica singolarità, ma potrebbe decidere di finire anche “prima”, in maggiore o minore disarmonia col suo habitat, che contribuisce coscientemente a definire e determinare in uno nello spazio che va tra il fondo degli oceani e una sessantina di chilometri di atmosfera.
Le nuove teorie della relatività e del mondo quantico nate a cavallo del millennio hanno a tal punto trasformato la percezione anteriore del vivente, della storia umana, della natura e della sua dissomiglianza antropologica, da essere state acquisite e comprese appieno come patrimonio quasi esclusivo degli specialisti, con una frattura ostinata tra scienza e umanesimo. Anche la comunicazione della nuova scienza e gran parte della letteratura hanno preferito non misurarsi con i concetti che l’attuale precipitare delle emergenze climatiche e della guerra rendono indispensabili per l’educazione e l’informazione democratica e popolare di una società che vive in un ambiente che non può essere ridotto a manufatto, ma ha una sua autonomia dalla specie umana, ancora non del tutto presa in significativa considerazione. È pur vero – come afferma Heisenberg – che la fisica non è rappresentazione della realtà, ma del nostro modo di pensare. Ma c’è un limite naturale all’interpretazione antropocentrica, che il mondo occidentale in particolare ha esaltato. E non può che preoccupare che la mia generazione (e la gran parte di quella che oggi tiene le leve del potere) non sia stata assolutamente predisposta al cambio di orizzonte che ci sta piombando addosso bruscamente. Un cambio che consiste non solo nella scoperta singolare dell’inizio dell’universo e della misteriosa nascita della vita in esso, ma anche della necessità di farsi carico delle perturbazioni che ne possono accelerare la fine. In una inspiegabile indifferenza, forse oggi scossa dalle catastrofi climatiche e dalle guerre in corso, la maggioranza della società è rimasta newtoniana, romanticamente umanista, industrialista, antropocentrica e ostinatamente tecnocratica. Siamo invece figli di una singolarità, con una storia che si è dipanata assai a lungo senza la presenza di osservatori come noi, donne e uomini, giunti su un Pianeta speciale e fragile, solo da poche migliaia di anni e destinati, da quel che si vede, a durare non a lungo.
Così, senza averne la percezione adeguata, ci accorgiamo a fatica di essere entrati in una fase in discontinuità con la Rivoluzione Industriale che ci ha preceduti e continuiamo ad insistere perché il miracolo della crescita infinita torni a risolvere gli enormi problemi che abbiamo di fronte. Il Governo Meloni, pur nella sua limitatezza, ne è un esempio triste, oltre che drammatico.
DISANCORARSI DAL PRESENTE E COSTRUIRE IL FUTURO.
Eppure, dall’inizio dello scorso Novecento, Plank, Einstein, Heisenberg, Schroedinger, Bohr, Born, Dirac, Turing, per citare solo alcuni – e – più con le mani in pasta – Fermi, Oppenheimer e Teller- avevano già provato a caratterizzare con successo la stranezza e indeterminatezza dei grani di cui sono fatti il tempo e lo spazio ed anche come materia ed energia siano temibilmente convertibili. Avremmo dovuto già allora capacitarci delle enormi riserve di potenza che vengono da lontano, proiettate anche fuori dal sistema solare e rimanere stupiti che gli elettroni che orbitano attorno ai materiali che usiamo o si riaggregano vicino ai nuclei in neuroni e cellule di cui viviamo non si sono mai estinti, ma solo ricombinati in cosmogenesi continue dalla nascita dell’Universo fino a noi. Siamo, a modo nostro, figli di miliardi di anni trascorsi senza esserne stati coscientemente presenti. La letteratura, le arti e il cinema, oltre alla scienza, si sono provati talvolta a misurare un così profondo distacco dalla tradizione classica (da Italo Calvino, a Richard Powers, a Frank Lloyd Wright, a Lang o Altman, da Escher a Salvador Dali, a Kandinsky, a Mondrian, per dire di alcuni), ma l’educazione popolare e gli stessi mezzi di comunicazione hanno sempre giudicato come un azzardo un brusco sebbene informato cambio di paradigma. Storicizzare l’Universo, come ha saputo osare nella sua enciclica papa Bergoglio riferendosi al Big Bang, scomporlo in frazioni di frazioni di microsecondi e capirne i meccanismi che hanno dato origine alla vita in spazi e tempi assai discontinui, aiuterebbe a sensibilizzare la popolazione mondiale sul rischio enorme cui va incontro una specie che infrange i limiti ambientali in cui è comparsa e cresciuta, come risultato di meccanismi spesso fragili e assai complessi. Ma siamo lontani ancora da ciò: il negazionismo e un orizzonte che – con impertinenza – definirei ancora tolemaico, rimangono ancora tra noi, quando si manda uno sguardo oltre l’atmosfera che respiriamo.
E, infatti, i sostenitori delle energie fossili non si danno per vinti. Data l’attuale difficoltà di rifornimento, vengono accelerati progetti vecchi e nuovi, soprattutto in relazione al metano. Si cerca l’indipendenza dalla Russia e si creano nuove dipendenze: dal gas liquido degli Stati Uniti e del Qatar e da quello trasportato tramite gasdotto dall’Algeria, dal Mozambico o dall’Azerbaigian. Di conseguenza è necessario costruire navi cisterna, terminali e oleodotti con costi considerevoli di investimento e un pericoloso effetto che apre la strada al caos climatico.
E’ invece tempo ormai di creare diverse civiltà solari in tutto il mondo, come condizioni di una battaglia esplicita delle sinistre, per una definitiva sconfitta dei sostenitori dell’energia fossile e per un’inarrestabile ascesa delle energie rinnovabili e compatibili con i tempi biologici.
Occorre convincersi che l’universo è un luogo aperto in cui il futuro non è assolutamente predicibile secondo gli schemi previsionali dell’età della crescita. “Se riconosciamo la coscienza e il libero arbitrio come proprietà fondamentali, l’evoluzione dell’universo -come dice Federico Faggin – non è più opera di un orologiaio cieco, bensì di enti coscienti che ne partecipano”. Attraverso la creatività e l’approfondimento delle nuove scienze, la parte emotiva della vita torna ad avere un ruolo centrale, senza dover considerare lo stato presente come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro.
L’AFRICA E UN NUOVO ORDINE MONDIALE PER LA PACE ED IL CLIMA
La guerra in Ucraina ha cambiato radicalmente il panorama geopolitico. Il futuro di un sistema internazionale basato su regole appare minacciato e i prezzi delle materie prime sono alle stelle. Entrambi gli aspetti aumentano la pressione economica su aziende, governi e consumatori e complicano anche lo sforzo globale sul clima. Ciò riguarda non solo i prezzi dell’energia in sé, ma anche i mercati delle materie prime, come la grafite o il cobalto, anch’esse importanti per la transizione energetica. Entro questo contesto di crescente drammaticità ha preso vigore una maggiore cooperazione tra i Paesi del Sud del mondo, con una proposta di allargamento della cooperazione dei BRICS. L’ambasciatore del Sudafrica ha dichiarato che la nuova entità dei BRICS avrebbe dato avvio a «un cambiamento epocale nell’architettura geopolitica del mondo”. Il riferimento al clima e al ruolo dell’Africa nell’approvvigionamento energetico è stato al centro del summit concluso il 24 agosto scorso, contribuendo, con l’appoggio di India e Brasile, a rinsaldare i Paesi nel loro insieme, presentandoli come il motore capace di affrontare le esigenze del Sud del mondo, non più nel ruolo ordinario di aree depresse o emergenti. Vedremo più avanti come il ruolo del nuovo assetto possa incidere sulle proiezioni che riguardano i bilanci energetici europei. Gli sviluppi sono tutt’ora in corso, anche se la parte continentale francofona, dilaniata da colpi di stato e tensioni interne, ha avuto scarsa voce in quella che si è presentata come la novità geopolitica più rilevante dell’estate.
Il blocco, a cui oggi appartengono Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, aprirà le porte a sei nuovi membri; Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, rappresentando, rispetto al club del G7, una quota più ampia e significativa del Pil globale, L’entrata dei nuovi membri renderà più coesa ed efficace la collaborazione non solo per lo sviluppo di tecnologie rinnovabili, ma anche per sfuggire ai ricatti da greenwashing dei Paesi avanzati, che ancora aspirano a scambi favorevoli nel mercato del carbonio, spostandone l’onere sulle popolazioni africane e sulle risorse biologiche di quel continente, svenduto a prezzi e devastazioni insanabili
Mentre la Cina scommette sullo sviluppo dei Brics come mezzo per promuovere sostanzialmente i suoi interessi nazionali, quaranta Paesi hanno espresso il desiderio di unirsi al blocco negli ultimi diciotto mesi, per cercare nello specifico alternative efficaci all’ordine globale a guida occidentale e una più ordinata forma di scambi anche con Russia e Repubblica Popolare Cinese. La volontà comune è quella di costruire un sistema internazionale più multipolare, in uno scenario molto complesso, caratterizzato dalla rivalità crescente tra Usa e Cina, ma anche dall’imprescindibile necessità di accelerare la transizione energetica secondo maggiore equità e sfruttando l’occasione della creazione di una rete ed un regime elettrico in particolare non più dipendenti dai fossili. A differenza del G7, che raccoglie le democrazie liberali più grandi e ricche del Pianeta, che si riconoscono in una visione condivisa dell’ordinamento mondiale, le Nazioni dei Brics in espansione non sono allineate su determinati sistemi politici ed economici, né tantomeno possono vantare un’agenda comune, anche se, nel caso dell’’Etiopia (come per la maggior parte dell’Africa sub-sahariana), l’obiettivo è una maggior integrazione economica con Pechino, che ha già superato abbondantemente Washington come fonte di investimenti sul Continente.
In ogni caso i Brics spingeranno per esercitare un peso maggiore in seno alle organizzazioni multilaterali, come l’Onu, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, riducendo la loro dipendenza dal dollaro statunitense e portando al centro degli obbiettivi dell’IPCC aree desertiche, siccitose e con forti modifiche di escursioni termiche, ad ora totalmente trascurate, ma preziose per preservare l’equilibrio dell’ecosfera. Una tappa importante di questo sviluppo riguarda il G77+Cina che si svolgerà all’Avana con 134 Paesi. In particolare, il nuovo assetto dovrebbe assicurare al Sud globale un maggior potere decisionale e un trasferimento di risorse e tecnologie per temperare gli effetti climatici, facilitando l’introduzione di manovre di supporto ed equilibrio tra i nuovi membri. Occorre tener conto di quanto il nuovo pensiero ecologico acquisisca peso soprattutto in Africa, esibendo forte vigore e figure di riferimento anche molto giovani e radicali. Il continente africano, con una popolazione di 1,3 miliardi di persone, è responsabile per non più del 4% delle emissioni globali. Ed a fronte delle sue grandi risorse energetiche – verdi e non – il dato del numero di persone prive di accesso all’energia elettrica negli ultimi anni è aumentato, invece di diminuire. Il dilemma è su come saziare la fame di energia del continente, promuovere lo sviluppo e salvaguardarne la popolazione da eventi estremi, come quelli accaduti in Libia, Congo Sud-Sudan ed Etiopia, mentre sono a grande rischio gli abitanti delle maggiori megalopoli.
In questo quadro, sostanzialmente per la minore capacità termica dei suoli rispetto alle acque di mari e oceani, le terre emerse si sono riscaldate di più della media globale: in Italia, ad esempio, l’aumento è stato di circa 2°C nell’ultimo secolo, in Africa mediamente un po’ meno di 2°C. In ogni caso, ciò che preoccupa non sono i pochi gradi in più in sé, quanto gli impatti di questa temperatura maggiore sui territori, gli ecosistemi e l’uomo, con le sue attività produttive – prima fra tutte l’agricoltura – e la sua salute e gli influssi sulle attività economiche, specie in paesi dalla struttura economica e sociale molto fragile. L’aumento abnorme di intensità e talvolta di frequenza di ondate di calore, siccità prolungate, eventi estremi con precipitazioni molto violente, ma anche di alluvioni lampo che in poche ore riversano la quantità di pioggia che normalmente sarebbe caduta in parecchi mesi dipendono non solo dalla vulnerabilità dei territori, ma soprattutto dalle economie e dalle strutture sociali. In questo senso, ovviamente, l’Africa appare come un continente estremamente fragile, una zona in cui il cambiamento climatico può amplificare problemi già endemici, fino a far superare soglie di vivibilità e sopravvivenza e contribuendo spesso a determinare conflitti e migrazioni.
In particolare, nel Sahel, il territorio da cui attualmente giungono in Italia 9 migranti su 10 di quelli che percorrono la rotta mediterranea, l’aumento di temperatura e il cambiamento nella stagione delle piogge, che è avvenuto a causa del riscaldamento globale, ma anche per l’attività di deforestazione degli ultimi decenni, stanno producendo un fenomeno molto intenso di desertificazione Si pensi, ad esempio, che la superficie del lago Ciad dagli anni ’60 si è ridotta di ben 17 volte, a causa dell’azione congiunta di cambiamenti climatici e di emungimenti insostenibili di acqua. Se ai fenomeni climatici si sommano una corruzione diffusa e l’azione spesso spregiudicata di multinazionali occidentali, il quadro è chiaro: il cambiamento climatico sta amplificando a dismisura le crisi che sempre più spesso si manifestano in conflitti armati e migrazioni di massa.
Centinaia di gruppi della società civile africana hanno chiesto che il vertice della Cop 28 prenda una posizione in difesa dei reali interessi del continente e non ceda alle pressioni per un ‘green-washing’ di facciata. Ad agosto, più di 400 organizzazioni hanno firmato una lettera aperta in cui denunciano il tentativo, messo in atto da alcune organizzazioni di “sequestrare il summit” per promuovere “un’agenda occidentale a discapito degli interessi africani. “Non c’è spazio per l’illusione delle compensazioni in un mondo in cui abbiamo esaurito il budget di carbonio rimanente”, ha affermato Mohamed Adow, direttore del think tank sul clima Power Shift Africa. “La struttura stessa del carbon credit prevede purtroppo che noi offriamo ai paesi industrializzati e alle aziende il permesso di continuare ad inquinare, autorizzando di fatto un percorso ad alte emissioni: si tratta al fine di una nuova forma di colonialismo”.
Non ci deve sfuggire quanto il problema del contrasto all’emigrazione e all’accoglienza sia strettamente legato ai cambiamenti in corso ed alle decise prese di coscienza appena esposte: le destre europee collegano l’ambientalismo e il nuovo paradigma energetico ad una conseguente decolonizzazione e ad un ordine mondiale in cui l’occidente è costretto a limitare le sue pretese e a contrattare criteri di scambio meno iniqui. In questo senso il piano Mattei della Meloni è una pura azione di copertura.
SOVRANISMO E NEGAZIONISMO: LA INADEGUATEZZA DELLE DESTRE
Non è qui il caso si enumerare la sconvolgente accelerazione che il 2023 ha presentato in quanto ad eventi climatici ormai fuori portata anche per il più ottuso negazionista, Per un aggiornamento a metà Settembre basta andare al sito Longread dell’ISPI https://ispo-zcmp.campaign-view.eu/ua/viewinbrowser?od=3zfa5fd7b18d05b90a8ca9d41981ba8bf3&rd=166050cd8db9ce1&sd=166050cd8db893c&n=11699e4c1bd8911&mrd=166050cd8db8928&m=1 . Veniamo da settimane sconvolgenti, abbiamo visto le immagini di inondazioni contemporanee in tre continenti, migliaia di vittime, incendi estesi oltre la nostra stessa immaginazione. Ma quello su cui riflettere è l’assuefazione alla tragedia che la natura avvicina alle nostre porte, ai nostri balconi, alle nostre spiagge, fino ad allarmarci solo quando penetra nei nostri giardini o nel nostro quartiere.
Usando le parole di Ferdinando Cotugno “andiamo verso una normalizzazione della violenza degli eventi meteo estremi, come se il nostro sistema di vigilanza interiore avesse già accettato quello che il discorso pubblico rifiuta: il fatto che questo stia diventando un mondo sempre più pericoloso”.
A destra è ormai data accoglienza alla convinzione che non ci sia spazio per tutti sul pianeta: perciò, consapevolmente, può essere osteggiata o ritardata la transizione ecologica, mentre si inasprisce senza rimorsi la guerra all’immigrazione. Intanto, si punta a consolidare e, nell’immediato, addirittura ad espandere un sistema fossile dai costi sempre più elevati, che strutturalmente e nella configurazione della sua filiera fa da preludio alla ripresa del nucleare. Manterremmo così un fossile di lunga transizione in attesa dell’atomo di nuova generazione su cui moltissimi interessi stanno tacitamente convergendo.
Ma anche una soluzione così avventata e tanto irresponsabile non sarebbe affatto in grado di sanare le fratture fra sviluppo della specie umana e biosfera che stanno raggiungendo un punto di non ritorno: il tempo per riparare ormai viene a mancare. Senza timore di smentite possiamo prevedere nell’immediato una convergenza di tutti i governi conservatori verso il prolungamento del ricorso al gas sotto forme mascherate di abbattimento delle emissioni o di interventi di azzardata bioingegneria a valle della combustione. Si tratta di uno scenario pessimista, ma ne abbiamo sentore nelle alleanze che si stanno precostituendo in vista delle elezioni europee e nella debolezza di contrasto che circonda nel nostro Paese gli annunciati investimenti in nuovi impianti ad ogni bordo di mare o lungo le direttrici dorsali dalla Puglia all’Emilia.
Ritengo che in questa fase di indispensabile conversione, resa drammatica da una scansione del cambiamento climatico sempre più disastrosamente accelerato, la discussione non possa che aprirsi, mentre l’informazione debba articolarsi il più criticamente possibile, affinché le intuizioni del NEXT GENERATION UE e le raccomandazioni dell’IPCC possano diventare argomento sofferto di ricostruzione, di distacco da un incubo che soltanto una coscienza democratica ed una convinta pratica di responsabilità verso le nuove generazioni possono allontanare.
Il nostro Paese perde tempo e cammina con gli occhi rivolti dietro le spalle. Sembra che non voglia aprire la partita finale contro il gas: anzi, la stessa sinistra si attarda lontano dai movimenti che si attivano localmente.
Secondo l’indagine che Greenpeace ha commissionato a Giugno all’Osservatorio di Pavia, la comunicazione del governo (dalla premier Meloni ai ministri Salvini e Pichetto Fratin) nei primi mesi di quest’anno si è caratterizzata per una marcata attenzione alla sovranità nazionale rispetto alla definizione di politiche energetiche innovative, nell’evidenziare le forti resistenze alla transizione ecologica (come lo stop alla vendita di auto a benzina e diesel entro il 2035) e nel diffondere a profusione i continui tentativi di SNAM ed ENI ad accedere coi loro progetti sul gas ai finanziamenti europei.
Pertanto, la strategia di “inazione climatica” del governo Meloni – la cui bozza di decreto sulle “aree idonee” per le rinnovabili pare fatta per bloccarle invece che per promuoverle – assieme al negazionismo d’accatto di parte della stampa ed una insulsa campagna contro le rinnovabili con il tentativo non dissimulato di riaprire al nucleare, sembrano proprio mirati al mantenimento dello status quo fossile, come complemento di un comportamento reazionario sull’intero fronte economico e politico ormai esteso, come detto, all’intera UE.
Per cambiare rotta, basterebbe confrontare i tempi di realizzazione ed i costi attuali delle rinnovabili comparati con lo sconvolgimento territoriale dovuto alla filiera fossile e coi sussidi pubblici erogati al fine di consentire ai fossili di mantenersi in competizione. (nel 2022 si è raggiunta la cifra record mondiale di 7 mila miliardi di dollari: soldi versati dai contribuenti)
Il report di Irena 2023 infatti mostra come già negli ultimi 13-15 anni, i costi di produzione di energia rinnovabile siano diminuiti in maniera drastica. Tra il 2010 e il 2022, il fotovoltaico e l’eolico sono diventati più che competitivi in termini di LCOE (Costo Livellato dell’Elettricità) rispetto ai combustibili fossili, anche senza sostegno finanziario pubblico. Il costo medio ponderato globale dell’elettricità prodotta dal fotovoltaico è sceso dell’89%. Per l’eolico-onshore il calo è stato del 69%, per quello off-shore del 56%.
Intanto, l’emanazione da parte del nostro governo dei decreti attuativi per la realizzazione delle comunità energetiche, continuano ad essere un mistero. Sono in migliaia, tra cittadini, imprese, associazioni, enti locali e molti altri, in attesa, ormai da otto mesi, di certezze sull’implementazione dei meccanismi di incentivazione. Mentre non c’è stata esitazione alcuna ad agevolare le autorizzazioni per gli impianti di rigassificazione, il protocollo finale della Commissione sulle CER rimane inspiegabilmente in sospeso, tenendo conto che entro il 2026 devono essere impiegati i 2,2 miliardi del PNRR ad esse riservati.
Del venir meno del senso di emergenza e dei ritardi riguardo il cambio di paradigma se ne deve preoccupare in particolare il sindacato, poiché un governo che non accelera una transizione rapida verso le rinnovabili, gli accumuli, la mobilità elettrica e l’edilizia sostenibile renderà insopportabile la perdita di posti di lavoro senza una preventiva e contrattata riconversione.
Per esprimere tutta l’irritazione sui ritardi in capo ai nostri governanti – dopo il mitico exploit di Cingolani – l’ultimo rapporto di Irena, l’International Renewable Energy Agency, sostiene che l’86% (ossia 187 GW) di tutta la nuova capacità verde messa in servizio nel 2022 aveva prezzi inferiori rispetto all’elettricità generata da combustibili fossili, facendo risparmiare complessivamente 520 miliardi di dollari sui costi dei carburanti inquinanti. Mai prima le rinnovabili erano giunte a tale livello di convenienza.
Intanto, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni rivela che le persone in fuga da disastri ambientali hanno già superato quelli in fuga dai conflitti. Ma la crisi climatica non è solo quella da cui scappano: è anche quella che incontrano lungo molte delle rotte. Una ricerca pubblicata su Science nel 2021 aveva misurato che per sopravvivere alla traversata del deserto di Sonora, lungo la rotta tra il Messico e gli Stati Uniti, oggi serve il 34 per cento dell’acqua in più rispetto a trent’anni fa; per farcela, una donna incinta oggi ha bisogno di portare con sé dodici litri di acqua; ogni anno muoiono oltre trecento persone nell’attraversamento. Per quanto riguarda l’Europa, le turbolenze climatiche dei paesi lungo la rotta balcanica, e i diciotto morti nella foresta di Dadia, rispecchiano l’aumento di questo rischio, con i richiedenti asilo colpiti da eventi estremi, mentre passano in territori dove non parlano la lingua e non hanno accesso alle informazioni di emergenza.
LO SCENARIO ITALIANO: HUB DEL GAS, SEQUESTRO CO2, NUCLEARE
Siamo ad una svolta che potrebbe portare al declino della vocazione manifatturiera del Paese, optando per un sistema di logistica e stoccaggio di fonti fossili di importazione anziché sostenere produzioni locali all’avanguardia nel settore eolico, fotovoltaico e degli accumuli, con una particolare attenzione per la filiera dell’idrogeno verde. Sullo sfondo viene agitato l’abbaglio del nucleare principalmente per rimandare un’azione immediata e urgente sul cambio di paradigma e sulla riduzione dei consumi energetici.
Per evidenziare il profilo strategico tutt’altro che episodico di questo approccio avventuroso, ricorrerò in questo paragrafo alla citazione diretta di documenti e dichiarazioni ufficiali.
Navi da oltre trecento metri di lunghezza, attrezzate con grandi serbatoi per contenere gas naturale liquefatto (gnl), attraccate ad impianti di rievaporazione installati in mare e collegati a nuove condotte per riportarlo a terra allo stato gassoso, sono state già collegate a Piombino o sono in preparazione con gli opportuni allacciamenti a Ravenna. Il Ministro Picchetto Fratin ha già disegnato l’ampiamento di una rete che dovrebbe costituire “l’hub mediterraneo del gas europeo”, potenziando gli impianti già in esercizio a Panigaglia-La Spezia, a Livorno e a Rovigo. A cui si aggiungerebbero nuovi rigassificatori a Porto Empedocle e Gioia Tauro, oltre a due altri eventuali in Sardegna. È di queste settimane l’annuncio di puntare sulla «risorsa mare» e assumere un ruolo centrale di “piattaforma energetica intercontinentale” attraverso l’ipotesi di un rigassificatore anche a Trieste, perché “quel golfo potrebbe essere un’importante direttrice per una piattaforma dl transito del gas per fornire anche il nord Europa”
La previsione è che Ravenna diventi “la capitale italiana dell’energia grazie ai giacimenti di gas metano, alla posizione strategica, al porto, alla cultura di impresa e al sequestro di CO2”. I conti di questa follia sono stati esibiti al convegno Ambrosetti a Cernobbio dall’Amministratore Delegato della SNAM, che ha definito il progetto “Zero Carbon Technology Roadmap — Carbon Capture and Storage – una leva strategica per la decarbonizzazione e la competitività industriale”, valutando che il costo del sequestro sarà di circa 123 euro a tonnellata nel 2030 e che, grazie alle economie di scala, scenderà sotto i cento euro nel 2040, “rendendo la Ccs (Carbon capture and storage) sempre più competitiva rispetto al prezzo dei diritti ad emettere (il sistema Ets)” e considerando che le quote assegnate gratuitamente da Bruxelles agli energivori dal 2026 saranno progressivamente eliminate. “Un’occasione anche per le aziende straniere, dato che la capacità nei giacimenti esauriti ha un potenziale di 500 milioni di tonnellate”.
L’Italia, quindi, con Eni e Snam, si candida a diventare l’hub della Ccs per l’Europa e a seppellire non soltanto le emissioni delle nostre aziende, ma anche quelle di altri Paesi, poiché “possiamo disporre di giacimenti esauriti di gas al largo dell’Adriatico di fronte alla Pianura Padana, dove si concentra la maggior parte delle industrie ad alta intensità di energia e di emissioni. Un vantaggio che potrà andare a beneficio dell’intero bacino del Mediterraneo, per esempio delle industrie francesi, per cui sarà più conveniente stoccare la CO2 a Ravenna e non trasportarla fino in Norvegia”. In effetti, il potenziale italiano di sequestro arriva a 750 milioni di tonnellate, come emerge dalla proposta di aggiornamento del Pniec (Piano integrato energia e clima). che il ministero dell’Ambiente ha impudentemente presentato a Bruxelles senza quasi darne notizia in patria.
La partita – quasi sotto traccia per l’opinione pubblica – è tuttavia perlomeno da giocare su un piano alternativo, anche da quando Terna ha avanzato una diversa proposta, certamente in linea con il New Deal UE, che ritiene che l’Italia debba, al contrario, diventare un “hub europeo e mediterraneo per l’energia elettrica da fonti rinnovabili”, con l’interconnessione tra Italia e Tunisia per garantire l’ottimizzazione delle risorse energetiche tra l’Europa e il Nord Africa e il collegamento tra i sistemi elettrici della Sardegna, della Corsica e della penisola italiana. Per di più, nel secondo semestre del 2023 Terna avvierà la consultazione pubblica “per il nuovo cavo sottomarino con la Grecia, 200 km di lunghezza e 500 MW, che raddoppierà la capacità di scambio tra i due Paesi”. Un insieme di connessioni, che insieme agli elettrodotti tra Italia-Francia, Italia-Svizzera e Italia-Austria, consentirebbero al nostro Paese, in virtù della sua posizione geografica, di rafforzare il suo ruolo di “hub elettrico dell’Europa e dell’area mediterranea”, mantenendo ed anzi rafforzando la filiera manifatturiera nazionale che ne conseguirebbe.
Ma la scommessa di Terna deve venire alla luce ed essere portata in discussione anche dai movimenti e dagli ambientalisti, dopo che nell’ultimo anno è stato un continuo stringere mani con leader di altrettanti paesi estrattori di gas, non certo democratici e rispettosi dei diritti civili: Qatar, Mozambico e, di recente, Algeria.
A rafforzare la sensazione di una regressione su molti fronti, non va passato sotto silenzio il fatto che aziende italiane si stanno muovendo per nuove collaborazioni nel settore energetico addirittura in Patagonia: la Camera di commercio in Argentina, con l’Ambasciata italiana, ha infatti accompagnato il primo programma di internazionalizzazione delle PMI italiane nella provincia di Neuquen. Obiettivo: “partecipare al boom estrattivo della seconda riserva mondiale di shale gas”.
Infine, la questione del nucleare. Anche l’opportunismo politico gioca un ruolo importante nel suo illusorio riapparire. Gruppi politici che fino a poco tempo fa, e in alcuni casi ancora adesso, negano l’urgenza del cambiamento climatico, spingono l’energia nucleare come la soluzione miracolosa per il clima, al fine di distogliere l’attenzione dal fatto che non venga intrapresa l’azione urgente già praticabile sul cambiamento climatico.
Le dichiarazioni del vicepremier Salvini al Forum Ambrosetti, mentre il ministro Pichetto Fratin convocava la prima Piattaforma nazionale per “un nucleare sostenibile”, affermano che “una centrale nucleare sarà operativa in Italia nel prossimo decennio”. Sappiamo bene che realizzare nuovi impianti atomici è estremamente costoso e richiede tempi lunghissimi, inconciliabili con gli obiettivi climatici.
La narrativa pro-nucleare di Salvini e Pichetto punta soprattutto al possibile sviluppo di piccoli reattori modulari (SMR: Small modular reactors), una soluzione che non sembra affatto sostenibile dal punto di vista tecnico-economico, stando a diversi recenti studi sulle prospettive di mercato. I reattori modulari sono ancora lontani dalle eventuali applicazioni commerciali e comportano problemi insoluti, legati soprattutto ai costi, agli approvvigionamenti di combustibile ad alto arricchimento di uranio e alle diseconomie di scala. Quindi, si tratta, in definitiva, di un tentativo di assecondare le tante lobby industriali che ruotano intorno all’atomo e agli stessi attori dei combustibili fossili, tesi a prolungare il più possibile un sistema elettrico incentrato sulle centrali a gas. Con la prospettiva eventuale di utilizzare tra venti anni gli SMR come nodi di supporto, nella convinzione che non sia realizzabile una rete 100% rinnovabile. bilanciata con la domanda grazie a diverse opzioni di stoccaggio e flessibilità (batterie, pompaggi, idrogeno).
ALCUNE CONSIDERAZIONI
Appare evidente come la strategia di politica energetica del governo conti sulla permanenza delle destre al governo per i prossimi 10 anni: qui abbiamo cercato di illustrare quanto il contrasto a tale prospettiva debba partire decisamente e in primo piano dall’inadeguatezza della risposta alla questione climatica e ai mutamenti che, assieme all’emergenza migratoria e al persistere delle guerre, mutano il quadro di riferimento globale e il ruolo futuro del continente africano a sud del Mediterraneo.
Fin qui abbiamo trascurato una ipotesi fantascientifica, che tuttavia comincia a prendere piede assieme ad una soverchia fiducia nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Anche se non si può conoscere tutta la verità del mondo fisico non solo in pratica, ma in linea di principio, qualcuno comincia a pensare al fatto che una perpetuazione del sistema fossile e nucleare possa essere compensato da una stolta propensione a “terraformare” l’ambiente esterno che si va pregiudicando. Se, cioè, abbiamo alterato indirettamente il clima e cambiato il nostro mondo, mettendo a rischio la nostra stessa sopravvivenza, una miracolosa tecnologia ci consentirebbe di fare ciò consapevolmente, salvandoci violando le regole naturali con una soluzione tecnica rapida ed efficace, invece di complessi percorsi di redenzione verso la sostenibilità. La parola chiave che contraddistingue questa chimera è: geoingegneria climatica, Espressione che comprende l’insieme delle tecnologie proposte per tentare di contrastare su scala planetaria a monte le cause o gli effetti dei cambiamenti climatici e in particolare del riscaldamento globale (assottigliamento dei cirri , intervento con aerosol stratosferico, scissione e stoccaggio del biossido di carbonio in formazioni geologiche, etc.), con interventi irreversibili sull’intensità della radiazione solare o sull’acidità e intensità delle precipitazioni. Questa strada, oltre che di insostenibile presunzione, sarebbe fatale.
Altro percorso è invece quello di affinare gli strumenti di previsione tenendo conto del vantaggio, ma anche del limite che può fornire l’intelligenza artificiale e non lasciandoci trascinare da una ideologia che torna all’antropocentrismo più immodesto. Ritengo che sia cruciale per qualsiasi organismo vivente, dalla cellula all’uomo, essere in grado di predire quale sarà il prossimo evento che verrà sperimentato. Ciò richiede che gran parte dell’elaborazione informatica sia dedicata alla previsione di eventi futuri che riguardano l’intero mondo naturale. Si tratta di un processo di apprendimento in cui le differenze tra l’evento predetto e quello sperimentato producono i segnali necessari per creare gradatamente un modello della realtà il più accurato possibile, attraverso l’impiego di una rete estesa di computer in cui l’evento successivo sia già in memoria, essendo accaduto precedentemente e significativamente con alta probabilità.
Dato che l’architettura del programma di un computer che impara da solo è stata inventata da noi, se ci si attiene a quanto già accaduto con una buona confidenza statistica, bisogna anche credere che nell’universo ci sia un principio finalistico che porta a migliorare il nostro ambiente ed a prolungare la nostra sopravvivenza. Mettere la tecnologia a disposizione della vita è la sfida che oggi sembra soccombere.
Infine, merita un accenno speciale la sostituzione della parola efficienza con sufficienza. (e qui mi rifaccio alle ultime pubblicazioni di Wolfgang Sachs).
Con tutti gli sforzi per passare alle energie rinnovabili si perde di vista quello che dovrebbe essere considerato il compito principale della politica energetica: evitare la domanda di energia. Al momento questa prospettiva, sviluppatasi storicamente in seguito alla crisi petrolifera degli anni Settanta e alla lotta contro il nucleare, è decisiva anche per il passaggio dalle risorse fossili a quelle solari, anche se sembra predominare un tacito consenso, come se la produzione di energia elettrica verde si potesse espandere all’infinito, con le energie rinnovabili che prendono semplicemente il posto dei combustibili fossili, mentre tutto il resto rimane lo stesso. Ciò alimenta l’illusione che la modernità espansiva sia possibile anche con le rinnovabili. Ma, mentre il raggiungimento del 100% nella produzione di elettricità va raggiunto nel più breve tempo possibile, esso risulta un obbiettivo reale se il fabbisogno rimane invariato o addirittura cala. In definitiva: se non vogliamo aprire una porta alla geoingegneria occorrerà introdurre il criterio di sufficienza energetica: un’ulteriore rivoluzione in questa fase senza precedenti dell’Antropocene.
(pubblicato da: Alternative per il socialismo, settembre 2023)
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