Medio Oriente, tragedia senza fine e giochi mortali con le vite di civili di Yorgos Mitralias

 

Naturalmente, alla base della creazione e del perpetuarsi della tragedia mediorientale c’è la fondazione dello stato di Israele come stato esclusivamente ebraico e lo sradicamento violento dei palestinesi dalla loro terra.

Che cosa non fare

Ma con queste premesse, la grande domanda – ancora senza risposta – era e rimane: cosa stiamo facendo e cosa dobbiamo fare per fermare questo incessante, orribile, barbaro braccio di ferro in Medio Oriente, al cui culmine stiamo assistendo in questi giorni, temendo che forse il peggio debba ancora venire?

Ammettiamo che l’attuale estrema esacerbazione della tragedia mediorientale ci impedisce di avere risposte pronte sul da farsi. Abbiamo però alcune idee su cosa non fare. E non, ovviamente, in Israele o in Palestina, dove le nostre parole non hanno alcuna possibilità di raggiungere o influenzare, ma qui, nei nostri paesi e nel nostro spazio politico naturale, la sinistra.

In questo senso e da questa angolazione, la prima osservazione è che molte cose sarebbero cambiate in meglio se il rifiuto categorico della responsabilità e della colpa collettiva non fosse rimasto sulla carta come un pio desiderio, ma fosse stato applicato non solo dai protagonisti – diretti e indiretti – della tragedia, ma anche da ciascuno di noi. E ci spieghiamo subito.

Non è solo che, in nome di una colpa collettiva, stiamo perpetuando politiche e crimini le cui principali vittime sono civili innocenti, anche neonati e bambini.

È anche, e forse soprattutto, che queste politiche e questi crimini vanno costantemente a vantaggio di criminali rivali, che devono per forza di cose farsi sostenere dall’opinione pubblica.

E radunando l’opinione pubblica dietro i leader/criminali, impediscono a “quelli in basso” di entrambe le parti di riunirsi, un’eventualità che questi stessi leader/criminali temono più di ogni altra cosa.

Criminali rivali

L’attuale parossismo di guerra e crisi umanitaria ne è un esempio eccellente. Il momento esatto in cui sono iniziate le ostilità era segnato da una caduta libera della popolarità di Hamas e del governo Netanyahu.

Infatti, mentre Israele era scosso da mesi e più che mai nella sua storia da continue manifestazioni di centinaia di migliaia di cittadini che denunciavano la corruzione e, soprattutto, la manifesta intenzione di Netanyahu di trasformare il paese in qualcosa che assomigliava sempre più a una dittatura, a Gaza i sondaggi e le testimonianze di osservatori del tutto attendibili convergevano nel prevedere che, in caso di elezioni, Hamas sarebbe crollato a favore di una OLP, che lì è praticamente inesistente, mentre al contrario, nella Cisgiordania occupata, la corrotta OLP che la gestisce perderebbe nettamente proprio contro Hamas.

Nel lanciare il suo attacco contro Israele e, soprattutto, contro i civili israeliani, Hamas ha fatto esattamente quello che fanno tutti i leader antidemocratici del mondo quando sentono la minaccia di perdere il proprio potere: ha cercato di costringere i palestinesi di Gaza ad unirsi attorno a lui, convinti come erano che la risposta militare di Netanyahu, che assomiglia sempre più a un genocidio ben pianificato, non avrebbe lasciato loro alcun margine di manovra per sottrarsi a questo ricatto.

Ma allo stesso tempo, Hamas stava facendo anche qualcos’altro: stava tirando fuori Netanyahu e i suoi partner di governo – ancora più razzisti, estremisti e bellicosi – dalla difficilissima situazione in cui si trovavano, dal momento che le manifestazioni antigovernative sono cessate immediatamente e la popolazione israeliana è stata costretta a stringersi – almeno temporaneamente – dietro Netanyahu e il suo governo.

Bloccata l’unità di “quelli in basso”

E non è tutto. Nel campo palestinese, che solo poche settimane fa aveva visto 130 personalità pubbliche denunciare pubblicamente il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas per le sue dichiarazioni antisemite, non solo è stato bloccato ogni tentativo di riavvicinamento tra le due parti, ma è stato anche alimentato l’odio provocato – com’era prevedibile – dal massacro degli abitanti di Gaza da parte dell’esercito israeliano.

Nel campo israeliano, il riavvicinamento storico che aveva cominciato a prendere timidamente forma all’orizzonte da quando l’apparizione delle bandiere palestinesi nelle manifestazioni antigovernative non faceva più scalpore e non suscitava più reazioni negative è svanito nel giro di poche ore.

Questo significa che l’attuale conflitto militare è stato “truccato” e che c’è stata una “collusione” tra Hamas e Netanyahu?

Siamo lontani da qualsiasi interpretazione complottista o da qualsiasi “concezione poliziesca” della storia, che si limita a confondere le acque e a fuorviare l’opinione pubblica, lasciando i veri colpevoli liberi di proseguire le loro attività criminali.

Ciò non significa, tuttavia, che Hamas e lo stato israeliano non si facciano “regali” a vicenda, sempre a spese delle rispettive popolazioni, poiché l’esistenza del primo giustifica e perpetua quella del secondo.

Ad esempio, è un fatto storico che negli ultimi 20 anni Israele abbia usato ogni mezzo, anche finanziario, per aiutare Hamas a stabilire la sua egemonia a Gaza, al fine di indebolire l’OLP e l’Autorità Palestinese.

Ed è anche un fatto storico che ogni volta che un governo israeliano estremista ha iniziato a essere messo in discussione dalla sua società, Hamas – ma anche la “potenza protettrice” iraniana – è stato rapido ad agire, creando fatti compiuti e riaccendendo l’odio (essenzialmente religioso) tra i due popoli.

E tutto questo con il “successo” delle loro odiose politiche garantito in anticipo grazie all’applicazione della stessa ricetta collaudata: mettere in pratica la perversa “teoria” della responsabilità e della colpa collettiva, dal momento che entrambe le parti uccidono indiscriminatamente, e nel modo più massiccio possibile, civili di tutte le età, preferibilmente bambini piccoli e persino neonati, di tutti i sessi e di tutte le convinzioni ideologiche, anche quelli che combattono per la pace e la solidarietà con il “nemico”.

Una pratica storicamente consolidata

Ma tutta questa barbarie non è limitata al Medio Oriente. Ahimè, è tollerata e persino incoraggiata da stati e potenze, grandi e piccole, che fanno sistematicamente la stessa cosa da almeno due secoli.

Questi ultimi due secoli sono stati indelebilmente segnati da innumerevoli pulizie etniche di popolazioni innocenti, da genocidi che hanno mietuto milioni di vittime, da bombardamenti indiscriminati di città e dall’annientamento di intere popolazioni con armi convenzionali e non convenzionali (nucleari), da politiche “punitive” che si spingono fino a privare gli abitanti di paesi “nemici” o addirittura di regioni “nemiche” dello stesso paese dei mezzi di sopravvivenza (acqua, cibo, medicine, infrastrutture di base, ecc.).

E tutti questi flagranti crimini contro l’umanità non solo continuano oggi, ma vengono commessi con l’approvazione non solo dei leader ma, purtroppo, spesso con il consenso delle popolazioni.

L’ironia della storia è che le stesse grandi potenze che durante la Seconda guerra mondiale si rifiutarono sistematicamente di intervenire per fermare l’olocausto della nazione ebraica bombardando ripetutamente i campi di sterminio nazisti, in particolare Auschwitz, oggi si rifiutano palesemente di fermare il massacro della popolazione palestinese di Gaza da parte dei razzisti di Netanyahu e dei suoi amici.

Le responsabilità della sinistra

Non sorprende quindi che la destra – e il suo sistema capitalista – condannino ipocritamente la responsabilità e la colpa collettiva a parole, ma la applichino sistematicamente nella pratica.

Perché lo fanno? Perché per loro è una questione di vita o di morte dividere “quelli che stanno sotto” per governare e monopolizzare il potere.

Lo hanno sempre fatto, anche quando giustamente combattevano il fascismo, riducendo in macerie città della Germania (Dresda, Amburgo, ecc.) e del Giappone (Tokyo, Hiroshima, ecc.) e uccidendo centinaia di civili, non solo per punire la popolazione nemica, come sostenevano, ma soprattutto per una ragione non detta: prevenire – come ammettono oggi, dopo 80 anni, molti dei suoi storici – rivolte popolari nei paesi dell’Asse sconfitti, che avrebbero potuto costituire una minaccia per il suo potere.

E la sinistra? Perché in molti casi una certa sinistra fa finta di non vedere o, peggio ancora, plaude ai crimini commessi in nome della colpa e della responsabilità collettiva, gettando addirittura benzina sul fuoco?

La risposta sta nella progressiva perdita di quello che, ai tempi d’oro, era il suo marchio di fabbrica: l’internazionalismo. Questo è iniziato durante la Prima Guerra Mondiale e ha segnato profondamente il percorso successivo della sua componente socialdemocratica, che da allora è sempre stata in prima linea nella difesa degli interessi del “proprio” paese e della propria cosiddetta borghesia nazionale.

Ma lo stesso è stato per l’altra grande componente della sinistra, quella comunista, che, ricordiamolo, è nata in opposizione inconciliabile al “tradimento” nazionalista della socialdemocrazia, e con l’obiettivo di dare nuovo contenuto alla frase fondante del movimento socialista “lavoratori di tutti i paesi, unitevi!”.

Nel suo caso, il progressivo abbandono dell’internazionalismo culminò nella Seconda guerra mondiale, quando i leader sovietici, e Stalin in particolare, dopo aver trasformato la guerra antifascista in una guerra “patriottica”, finirono per dare ai soldati dell’Armata Rossa carta bianca per “punire” massicciamente i civili tedeschi, in particolare le donne, in nome della colpa collettiva dell’intero popolo tedesco.

Emblematico di questa barbarie nazionalista fu persino il fatto che si arrivò a criminalizzare ciò che veniva definito “mostrare pietà per il nemico”, di condannare a pene detentive di almeno 10 anni i soldati sovietici che avessero cercato di impedire l’assassinio di civili o lo stupro di donne tedesche.

Ciò che seguì era prevedibile. Con la solidarietà operaia internazionalista ormai non solo un lontano ricordo, ma anche un’accusa che ti manda in galera o nei Gulag, i partiti comunisti si sono trasformati dopo la guerra in baluardi della difesa degli “interessi nazionali”, che non sono altro che gli interessi di ciascuna borghesia “nazionale”.

E, ahimè, questa tendenza è stata successivamente rafforzata e completata dalla loro evoluzione e disintegrazione “eurocomunista”, cosicché non hanno più alcun problema di coscienza quando tollerano o addirittura approvano le campagne di odio della classe dirigente del loro paese contro i “nemici secolari della nazione”; o l’invocazione di una colpa collettiva in nome della quale le popolazioni civili vengono sterminate non appena questi abomini sono imposti dalle loro relazioni con gli alleati reazionari e oscurantisti.

Dopo due settimane di ostilità e atrocità senza precedenti in Medio Oriente, saremmo più che pessimisti se non vedessimo sempre più persone in Palestina, in Israele e nella diaspora ebraica che si alzano, spesso piangendo i propri cari, per mettersi “nei panni del nemico”, per solidarizzare con lui e per proclamare che solo l’unità e la solidarietà di “quelli di sotto” possono portare la pace.

Con persone come loro, che sono il fiore all’occhiello dell’umanità, possiamo essere ottimisti. Dopo tutto, come abbiamo scritto nel nostro precedente testo, il loro “compito sembra ed è effettivamente difficile. Ma è l’unica opzione realistica”.

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