SCENARI. L’unico antidoto alla spirale di violenza è la fine dell’occupazione: questo solo porterà alla realizzazione di un futuro di pace e di umanità per palestinesi e israeliani.
In queste ore in cui si assiste sgomenti all’evolvere della escalation di morti palestinesi e israeliani, è chiara una forte dissonanza nelle reazioni dei due mondi. I milioni di palestinesi dentro e fuori i territori occupati si sono trovati in uno stato di trance, tra un’innegabile iniziale euforia, presto divenuta choc e paura: si chiedono se quello che hanno avuto davanti agli occhi sia stato delirio onirico o realtà. Non si capacitano del ribaltamento della esperienza della violenza, abituati come sono a vedersi vittime sotto le bombe, i mitra e gli apparati di controllo israeliani. Il governo israeliano ha risposto dichiarando «guerra totale», promettendo la polverizzazione di Gaza e chiedendo agli abitanti di lasciare la Striscia, sapendo che non c’è via di fuga.
MA DICHIARARE guerra significa assumere che prima ci fosse la pace. Certamente gli abitanti di Sderot e del sud di Israele vorrebbero continuare a vivere in pace. Per gli abitanti di Gaza, all’opposto, «pace» è un concetto astratto, un vissuto mai sperimentato. Per gli abitanti della Striscia, così come per il diritto internazionale, Gaza è un territorio occupato la cui popolazione – 2,2 milioni, per due terzi rifugiati del 1948 – vive o, per usare le loro parole, muore lentamente in un regime di prigionia. Il controllo di ingressi e uscite di persone, cibo, medicinali, elettricità e telecomunicazioni, frontiere di mare, di terra e di aria, è in mano a Israele.
Il diritto internazionale, correttamente invocato a difesa della popolazione ucraina e per sanzionare l’occupante russo, è carta straccia per Israele che gode di una impunità concessa a nessun altro stato che operi in siffatta violazione delle risoluzioni delle Nazioni unite, degli accordi da loro stessi sottoscritti, e delle convenzioni internazionali.
Ciò che sta accadendo – sconvolgente e terribile per numero di vittime, inclusi bambini e anziani – crea non solo un nuovo scenario politico, ma impone una nuova cornice di senso. Si è infranto l’assunto che da sempre, ma più prepotentemente dagli accordi di Oslo in poi, fa da filtro emotivo e interpretativo al «conflitto», ossia la normalizzazione dell’asimmetria di valore delle vite degli uni e degli altri, che a sua volta poggia su un’aspettativa di acquiescenza e accettazione della propria subalternità dei palestinesi in quanto popolo colonizzato.
Tale impalcatura si è retta sulla certezza che i palestinesi non possano reagire alla loro condizione, non solo a causa dell’evidente inferiorità militare ma nella convinzione che la soggettività palestinese debba e possa accettare di rimanere colonizzata e occupata all’infinito. Come se l’asimmetria di forza sul campo debba trasformarsi in accettazione di inferiorità nella gerarchia della vita umana.
Tutto questo non si può comprendere con gli strumenti di chi vive in pace, ma solo (nella misura in cui questo sia perfino possibile per chi non vive a Gaza o nei territori occupati palestinesi) da dentro agli effetti della violenza e del trauma coloniale di cui gli effetti più devastanti, come ci spiega Franz Fanon, sono le ferite fisiche e psichiche e con queste la frammentazione di canoni di empatia e di sensibilità che sono privilegio e prerogativa primaria di chi vive in pace.
OGGI A GAZA chi non ha ancora vent’anni, circa la metà della popolazione, è già sopravvissuta ad almeno quattro bombardamenti, nel 2008-9, nel 2012, nel 2014 e ancora nel 2022. È a Gaza che si è perfezionata la tattica israeliana di sparare sui manifestanti durante le proteste pacifiche, come quelle del 2018, per menomare i corpi, in un cinico calcolo necropolitico di distribuzione delle casualità tra mutilati e morti. In tale stato di menomazione fisica e psichica la resistenza è l’unica possibilità di riparazione del soggetto colonizzato. Lo è stato storicamente in tutti i contesti di liberazione dal dominio coloniale, in cui la lotta palestinese si inserisce.
È in questa chiave che va letta la lunga durata della resistenza palestinese degli ultimi 70 anni di cui negli ultimi giorni abbiamo visto una svolta senza precedenti, risultato – come hanno notato molti osservatori anche israeliani – del fallimento delle molteplici forme di resistenza pacifica che i palestinesi hanno saputo portare avanti nonostante l’occupazione e che continuano a mettere in campo: gli scioperi della fame dei prigionieri in detenzione amministrativa, la resistenza civile degli abitanti di villaggi come Bi’lin o Sheikh Jarrah, schiacciati tra il muro di separazione e l’espropriazione delle terre e soffocati dalla sempre più aggressiva e inarrestabile espansione degli insediamenti, la protezione dell’ambiente naturale e della cultura indigena palestinese, degli alberi di ulivo secolari, bruciati e vandalizzati dai coloni, la resistenza delle organizzazioni della società civile palestinese che mappano le violazioni dei diritti umani – fatto che le rende, per Israele, organizzazioni terroristiche.
La lotta per la memoria culturale e politica, quella dei rifugiati nei campi profughi che attendono riparazione e riconoscimento dei loro diritti umani, supportati dalle risoluzioni dell’Onu, e la resistenza delle pietre della prima Intifada, quando giovani con fionde lanciavano quelle stesse pietre con cui i soldati israeliani spezzavano loro le ossa e la vita.
SCRIVEVA Mahmoud Darwish in un suo saggio sulla «follia» della palestinità scritto dopo il massacro di Sabra e Shatila del 1982, che il palestinese «è ingombrato dall’incedere incessante della morte e impegnato nella difesa di ciò che rimane della sua carne e del suo sogno…Non riesce più a urlare, può solo fare una cosa, diventare ancora più palestinese, perché non ha altra scelta».
L’unico antidoto alla spirale di violenza è la fine dell’occupazione e dell’assedio, questo solo porterà alla realizzazione di un futuro di pace e di umanità per palestinesi e israeliani.
(Pubblicato su: il manifesto, 15 ottobre 2023)
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