L’estate 2022 è risultata la più calda mai registrata dall’Uomo. Quella del 2023 supererà sicuramente ogni limite, almeno a giudicare dalle giornate e dalle notizie in corso, con l’aggravio dell’annuncio recentissimo dell’Organizzazione Mondiale di Meteorologia per cui l’Europa e il Mediterraneo hanno già subito dall’inizio dell’era industriale un gradiente di aumento della temperatura quasi doppio rispetto alla media del resto del Pianeta.
C’è una correlazione diretta tra cambiamento climatico, riscaldamento del pianeta e accelerazione di una crescita fuori misura, che si è avvalsa e si avvale tuttora della densità di potenza fornita dalle fonti energetiche fossili. Questo è il nodo di fronte al quale è posta la generazione attuale, che si trova nella necessità di ripianificare l’offerta e contenere la domanda di energia, a partire dall’abbandono delle fonti a grande densità – gas, carbone, petrolio, uranio – generate tutte in tempi lontanissimi. Le prime tre, generate dal lavoro incessante della radiazione solare per miliardi di anni sul manto terrestre in formazione. L’ultima delle quattro, dispersa nell’Universo, fino ad arrivare a noi in seguito all’esplosione di stelle a fine vita. C’è quindi una sfasatura temporale incommensurabile tra il presente in cui operiamo e l’origine di quelle fonti, che non sono certo rinnovabili, sono ormai esauribili e, quando vengono portate a combustione o a fissione in appositi impianti, rilasciano gas e scorie che la natura prova a smaltire in tempi e in cicli ben più lunghi di quelli biologici entro cui si dispiega la vita. La ferita permane a lungo ed il bilancio energetico potrebbe venire infranto, al punto che la “natura amica” -come la definiva Marx – potrebbe ribellarsi irreversibilmente. Perciò, lasciare i fossili sottoterra in luoghi frequentemente lontani dal loro utilizzo significa non alterare ulteriormente la temperatura e l’irradiamento di un’ecosfera già in parte compromessa. Quindi, decidere per un cambio di paradigma energetico, basato su fonti rinnovabili e disponibili localmente in tempo reale, comporta stravolgere consapevolmente, ma previdentemente, un nodo determinante del modo di produrre, consumare e vivere a livello planetario: quindi, incidere direttamente sul sistema di governo a scala globale. Le nuove (ultime?) generazioni, lo stesso Bergoglio, chiedono insistentemente di convergere verso l’azzeramento delle emissioni di gas climalteranti, che, attraverso processi non circolari, vengono assorbiti nelle acque, nelle rocce, nei suoli, nelle foreste, fino ad essere liberati in eccesso nell’atmosfera che circonda la Terra. Un’atmosfera che ha un equilibrio termico fragile ma abbastanza temperato da aver originato il vivente, da aver favorita l’evoluzione delle specie, dall’aver consentito lo svolgersi della stessa storia umana e permesso la riproduzione e la sopravvivenza dell’intera biosfera. Tutto ciò entro i limiti del mantenimento di una precisa e stretta finestra energetica, per cui l’acqua, elemento essenziale per la vita, può attraversare senza traumi le sue fasi – solida, liquida e gassosa – ripartendosi in ghiacci, oceani, laghi, fiumi e vapori a seconda delle stagioni, delle latitudini e delle altezze sopra il livello dei mari.
Un equilibrio fragile, scrivevo sopra, in gran parte dipendente dalla quantità di energia fossile consumata per creare le protesi artificiali con cui conviviamo e attraverso cui sono organizzati differenti stili di vita, a discapito spesso della giustizia sociale. La questione climatica è pertanto centrale, con riflessi immediati sul quotidiano degli umani ovunque si trovino, dato che l’emergenza in corso è così evidentemente di natura antropica, che una inaspettata e nuova era geologica viene a definirsi come “Antropocene”, pur dispiegandosi nell’arco di non più di duecento anni, anziché di centinaia di millenni come toccò alle precedenti, in cui il sapiens era ancora ininfluente.
Le emergenze appena delineate, oltre alle guerre, al pericolo nucleare e alla crescita della povertà, mettono al centro la necessità di una conversione energetica radicale da compiersi al più presto. Proprio sulla base di queste prime considerazioni, che proverò di seguito a motivare più in dettaglio, provo una netta contrarietà verso chi vuole istruire un vincolo giuridico che legittimi un comportamento differenziato in materia energetica, affidato all’autonomia e alla presunta autosufficienza (o alla necessaria sussistenza) delle singole Regioni rispetto allo Stato.
IL SIGNIFICATO DEL CAMBIO DI PARADIGMA VERSO LE RINNOVABILI
Parto dalla convinzione che occorra avere a riferimento una giusta misura nel comportamento complessivo del genere umano, in quanto essa viene imposta dalle caratteristiche organiche della biosfera da cui traiamo vita e sostentamento.
Una giusta misura che si può ottenere solo con un governo multilaterale sia dei processi produttivi che della dinamica dei consumi, fissando limiti invalicabili alle emissioni di climalteranti, agli eccessi di scarti e rifiuti e non assecondando lo sfruttamento di lavoro e natura, che il sistema capitalista ha portato all’estremo.
In quasi tutto il mondo è possibile sfruttare territorialmente energia rinnovabile, purché sia programmata in chiave cooperativa anziché concorrenziale una politica industriale conseguente all’abbandono del modello oggi prevalente. I costi a breve termine per porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili sono significativamente inferiori rispetto agli sbalorditivi costi ambientali e sociali a lungo termine dovuti all’accelerazione del cambiamento climatico. Tuttavia, l’attuale quadro politico internazionale e le strategie neoliberiste sono tutt’altro che adeguate ad affrontare l’urgenza di una crisi brusca su cui convergere: preferiscono il protrarsi infinito delle guerre ed i conflitti interminabili per stabilire l’egemonia militare, economica e tecnologica nel mondo di fine secolo.
Nonostante il dispiegamento di ormai trenta assisi internazionali (Cop) per uno “sviluppo sostenibile”, ancora non esistono a livello internazionale meccanismi legali per fissare un obiettivo entro una data specifica, né misure di applicazione sanzionatorie se un obiettivo prefissato non viene raggiunto. Gli accordi non menzionano ostacoli per i combustibili fossili, né tantomeno la necessità di lasciare almeno l’80% di ciò che di essi rimane nel sottosuolo. Inoltre, non si affronta la necessità di tagliare i sussidi governativi a gas e petrolio e alle spese militari, come, in definitiva, a qualunque spreco che intacchi la decarbonizzazione globale.
Rendiamoci conto che il clima contemporaneo e la crisi politico-economica vanno oltre le sperimentate crisi del capitalismo. La tecnologia e il mercato in sé non sono gli unici problemi. Il fallimento e l’inadeguatezza delle false soluzioni richiede che mettiamo in discussione i presupposti fondamentali del mercato dominante e del paradigma tecnologico e ci spostiamo verso un modello di partenariato ecologico in grado di fornire soluzioni autentiche al riscaldamento terrestre ed agli eventi catastrofici che si manifestano con insolita frequenza. Ovviamente, al centro di questo spostamento c’è la chiusura di tutti gli impianti a carbone e a gas: un tema che non può essere consegnato ai governi regionali, al pari della localizzazione integrata di una rete elettrica alimentata da vento acqua e sole. Non sto affatto negando la partecipazione delle autonomie locali e delle Regioni al processo, purché la direzione di marcia proceda coordinata ad un livello multilaterale superiore.
Non può esistere in alcun modo una autosufficienza o un profilo energetico isolati “burocraticamente” entro piani regionali non comunicanti. Per le ragioni appena accennate, quindi, l’autonomia energetica di singole Regioni non risulta affatto adeguata alla risposta all’emergenza, che va presa in considerazione preventivamente ed a più ampia scala. 100% rinnovabili non è detto a caso. Ad esempio. non si capirebbe come potrebbe attuarsi un regionalismo differenziato che si ponga in contraddizione con un sistema integrato di energie rinnovabili a dimensione europea, assistito da accumuli, batterie, sistemi di back-up posti anche a grande distanza in altre regioni o nazioni. Neppure si capirebbe che, a fronte dell’espansione dei sistemi digitali che operano in tempo reale, non sia il piano energetico nazionale a indicare soluzioni di bilanciamenti e scambi anche tra diverse fonti e stoccaggi tra Regioni, così che l’ecologia integrale diventi la meta verso cui si orienta lo sviluppo dell’economia locale.
PARTIRE DAL BASSO NON È TRASFERIRE AUTONOMIA ALLE REGIONI
L’intera questione energetica non si può circoscrivere semplicemente nel rimando di competenze fra Stato e Regioni. Semmai, occorre richiamare il senso di un processo dal basso che parta dalla società civile, dai corpi intermedi, dai Comuni.
È questo il caso esemplare di Civitavecchia, dove si è innescato un processo virtuoso facendo maturare dal basso una soluzione di sostituzione della prevista centrale a turbogas progettata nel PNIEC con una rete di pale eoliche galleggianti a 35 Km dalla costa e una dotazione di pannelli solari, idrogeno verde e accumulatori sulle banchine del porto. Qui è maturata una soluzione che all’efficienza ha contrapposto la sufficienza e la salute e che non potrà che far convergere le forze progressiste e perciò più sensibili alla crisi climatica. Se verrà realizzato, come sembra ormai certo, dato il suo stato di avanzamento, rappresenterà un riferimento nazionale di un approccio alle nuove fonti in base ad un modello di calcolo distribuito, non certo ad isola, in cui le unità energetiche rinnovabili decentrate operano isolate una accanto all’altra, ma collegate in una rete energetica e informatica su vasta scala, creando una economia ecocompatibile in cui il territorio è connesso, anziché isolato e non più irrimediabilmente vincolato alla combustione di materiali in centrali di grande potenza.
IL NAZIONALISMO SOVRANISTA NON È AFFATTO LA SOLUZIONE
Con il governo Meloni, l’ideologia sovranista si è fatta luce da subito. Non rispettando gli obbiettivi a breve termine del Green Deal Europeo si è chiarito da subito che la decarbonizzazione non è al primo posto e che il gas sarà protagonista anche nei prossimi lustri. Un piano nazionalista-sovranista come il PNIEC attuale conta perfino sull’esportazione di gas, In fondo non c’è da meravigliarsi se il negazionismo delle destre populiste del nostro continente e del mondo intero trova conforto nella dottrina liberista e nel nazionalismo sovranista. Un comportamento tanto irresponsabile sa bene che una mitigazione del cambiamento può progredire solo in un coordinamento multilaterale di tutti i livelli di governance. Invece, ignari dei mutamenti incombenti, assillati dall’imperativo della crescita e dall’espansione del “libero” mercato, nonché indifferenti alle interconnessioni che hanno dato origine alla vita in una biosfera fragile e in evoluzione, una parte del genere umano è giunta a azzardare che non ci sia posto per tutti sulla Terra e che i governi scelti possano mettere in conto tale indicibile oscenità. In effetti, la destra nella UE cerca di costruire consensi non solo sul rigetto dell’immigrazione, ma anche sul freno alle regole ambientali (a cominciare dall’Ecr di cui fa parte il partito di Meloni).
Ma lo scenario non viene adeguatamente illustrato dai media. Le resistenze del governo italiano a livello Ue su temi come l’auto elettrica o l’efficientamento energetico degli edifici vengono motivati con l’avversità verso la concorrenza cinese e franco-tedesca, legittimando in questo modo i ritardi storici del nostro principale produttore di automobili e sottraendo l’industria edilizia alla ricerca e all’impiego di nuovi materiali.
In Italia, addirittura, si inventa un “piano Mattei”, che ha come effetto non la diversificazione produttiva e lo sviluppo equilibrato nei Paesi “estrattori”, ma la persistenza di un modello neo-coloniale, in cui petrolio, gas, e materie prime servono per produrre elettricità e idrogeno da trasformare e distribuire in casa nostra. Lo scambio sta nel controllo e nel respingimento delle migrazioni, ignorando che proprio la subordinazione di quei territori alla logica e alla pratica estrattivista, con l’obiettivo di controllare i giacimenti e le zone minerarie, ha provocato la desertificazione e gli scontri continui fra signori della guerra, oltre alla fine di un’economia agricola di sussistenza che permetteva agli uomini, alle donne, ai bambini di quei Paesi di sopravvivere e di non dover emigrare con atroci sofferenze. Il “Piano Mattei” adombra addirittura la possibilità di fare della nostra Penisola lo snodo del sequestro di CO2 anche per i paesi confinanti verso cui esporteremmo gas fossile. Manderemmo così all’aria gli obbiettivi di Net zero al 2050, continuando a fare del Mediterraneo un mare di morte, anziché l’hub del sole e del vento, dello scambio di culture e del trasferimento di tecnologie innovative per superare definitivamente la dipendenza dal petrolio e dal gas.
REGIONALZZARE UN CAMBIO D’EPOCA?
Già sarebbe arduo capire come si potrebbe “regionalizzare” un progetto così insensato e isolazionista, ma la cosa appare ancor più insensata a fronte del cambio di sistema che l’IPCC autorevolmente indica. La soluzione è quella di velocizzare l’installazione di impianti eolici e solari, sviluppare le “comunità energetiche”, riconvertire i consumi e puntare sulla sufficienza anziché sull’efficienza.
Ciò richiede mobilitazione ed una coalizione sociale che sappia fare un’opposizione propositiva a tutela dei giovani e del lavoro. Un indirizzo così sconvolgente rispetto alla situazione attuale prevede una ricollocazione delle risorse prevalentemente al Sud e che criteri etici, sociali ed ecologici, come la non violenza e il rispetto compassionevole per tutta la vita, inclusa la biodiversità, prevalgano nel processo decisionale economico. E richiederebbe riduzione d’orario a parità di salario ed un grande piano sulla formazione e sull’educazione, che riguardi permanentemente lavoratori e studenti ed apra scuole popolari nei territori. Che c’entra questo dispiegamento virtuoso di energie fisiche naturali e intellettuali con l’autonomia differenziata delle regioni? Cannibalizzarsi a vicenda, magari con il solito scarto Nord-Sud non aiuterebbe nemmeno ad ottenere un vantaggio competitivo nella corsa globale per la tecnologia pulita.
È pur vero che molti cittadini iniziano a chiedersi: a quanta crescita e benessere dovremo rinunciare per de-carbonizzare l’economia? Siamo sicuri che il welfare pubblico continui a tutelarci? Se questi dubbi si rafforzano, il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 solleverà spinosi problemi di sostenibilità sociale e politica. Perciò la transizione non può essere fatta a spese delle persone che per vivere lavorano nei settori che dovranno essere ridimensionati perché producono troppo gas serra, inquinamento, degrado territoriale. Senza convincenti proposte che assicurino occupazione, salute e riqualificazione professionale a questi lavoratori, è inevitabile che essi difendano il loro posto di lavoro.
ÈÈ necessario un grande piano nazionale ed europeo, che mappi seriamente i lavori a rischio nella transizione ecologica e digitale, e investa risorse per costruire nuovi posti di lavoro, e per affrontare le riconversioni produttive necessarie in molti comparti dell’industria. Dobbiamo sapere che la strategia della sufficienza si contrappone agli impulsi di un capitalismo programmato alla concorrenza. Molte imprese scompariranno, altre dovranno riconvertire i propri processi produttivi, altre ancora dovranno nascere perché il loro operare è essenziale alla continuità della società. Occorre su questo terreno muoversi d’anticipo, e non semplicemente agire di rimessa rispetto a scelte imposte da altri.
(tratto da: Su la Testa, Luglio 2023)
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