- Nel 2022 aumentato l’uso del carbone; gas stabile; CO2 in aumento
La macchina mediatica sulle fonti rinnovabili arranca e di conseguenza spesso dimentica di ricordare ai governi e all’industria in quale direzione stia andando il mondo, oltre ad indicare quale sia la direzione verso cui sarebbe meglio che vada. In questa ottica, la notizia che il 2% dell’elettricità globale nel 2022 sia arrivata da eolico e solare e che sia in aumento solo del 2 per cento rispetto al 2021, assume un amaro sapore.
Il dato è fornito dal think tank energetico Ember: insieme, tutte le fonti di elettricità a zero emissioni – idrico, eolico, solare + nucleare- hanno raggiunto nel 2022 il 39% dell’elettricità globale. Purtroppo, il 2022 ha registrato anche una prepotente crescita dell’energia prodotta da fonti fossili, nonostante il solare sia stata la fonte di energia
elettrica in più rapida crescita, con una produzione in grado di alimentare un paese come il Sudafrica, mentre l’eolico, aumentato del 11,7%, sarebbe sufficiente ad alimentare quasi tutto il Regno Unito. A confronto, eolico e solare sono cresciute dell’8%, mentre il carbone da solo è arrivato ad una quota pari al 36 per cento (+1,1% sull’anno). Poche buone notizie anche dal gas: la produzione di energia elettrica da questa fonte è diminuita di pochissimo; solo lo 0,2%.
In termini di impatto climatico, le emissioni del settore energetico sarebbero aumentate dell’1,3%, (eravamo in piena pandemia!) raggiungendo il loro massimo storico di 36,8 miliardi di tonnellate. Anche le emissioni di metano, sempre legate all’energia, sono aumentate, rimanendo comunque al di sotto dei livelli record del 2019. Le emissioni di CO2 dovute a destinazione ad uso civile del suolo vegetale (privato della sua naturale capacità di assorbimento) si sono invece stabilizzate a circa 6 Gt., a livelli comunque molto elevati.
Se nel 2023 ci fosse una forte crescita della domanda globale di elettricità le stime sulle rinnovabili potrebbero salire, secondo l’IEA, al 35% già nel 2025. L’obbiettivo è tanto più significativo e desiderabile, quanto più frequenti risultano le crisi dell’idroelettrico per le interruzioni dovute alla siccità (ormai all’ordine del giorno) e quanto più è in aumento la capacità mondiale di accumulo di batterie di nuova concezione, più facilmente riciclabili, a maggior rendimento e a più lunga durata.
La prospettiva di un deciso investimento nelle fonti naturali, rese sempre più efficienti da sistemi di distribuzione e stoccaggio dell’elettricità, è da sostenere senza esitazioni, anche se viene fortemente contrastata – come capita in Italia – non sul piano locale, ma a livello nazionale, in seguito alla pressione delle grandi imprese energetiche. Si tratta di uno scontro mosso da interessi assai potenti, aggrappati al sistema centralizzato di combustione delle fonti fossili, prelevate ed estratte da ogni dove, con sempre maggior dispendio di risorse naturali e con un controllo dei prezzi sul mercato all’origine di scontri e conflitti che mappano l’intero pianeta. Uso volutamente la parola scontro, perché ne è nascosta la portata da un’informazione asservita, che impedisce, sotto le spoglie della sovranità e della sicurezza energetica nazionale, la piena consapevolezza dei cittadini sulla posta in palio sul versante climatico e financo della pace.
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- Ci stiamo avvicinando ai tipping points. Il punto di vista di Irena
Nella scienza del clima, un punto critico (tipping point) è una soglia critica che, una volta superata, porta a grandi e spesso irreversibili cambiamenti nel sistema climatico, aumentando frequenza e intensità degli eventi estremi come alluvioni, frane, tifoni, ondate di calore estive, siccità, estinzioni di specie. Il loro superamento potrebbe diventare più “probabile” già con un aumento medio delle temperature tra 1,5-2 °C, al punto che quell’intervallo stretto tra 1,5 e 2 °C potrebbe davvero fare la differenza tra un Pianeta più sicuro e un Pianeta maggiormente devastato da catastrofi imprevedibili. Una trasformazione che può anche essere brusca e con conseguenze irreversibili (per decenni, centinaia di anni o anche millenni). I candidati al primo collasso sono le calotte glaciali in Groenlandia e Antartide, la permanenza delle barriere coralline a basse latitudini e lo scioglimento del permafrost. La soluzione non sta, evidentemente, nell’attesa di nuove improbabili tecnologie riparatrici, ma nella diffusione sostitutiva e realizzata con grande rapidità di impianti a fonti rinnovabili, integrati con sistemi di accumulo energetico e produzione di idrogeno verde, così da eliminare gli usi di carburanti fossili in ogni settore (elettricità, trasporti, industrie). Il taglio più consistente di gas serra deve assolutamente avvenire entro il 2030 e non basta genericamente fissare un vago net zero per la metà del secolo.
Anche alle nostre latitudini ci si sta rendendo conto che, con il superamento di un solo un punto critico, il clima si modifica su scala regionale in modo visibilmente differenziato, con maggiori o minori intensità a distanze relativamente ravvicinate. Ciò è accaduto nel tempo appena trascorso, quando le immagini dei telegiornali ci rimandavano, da una parte, l’estesa siccità sulle coste del Mediterraneo meridionale e sulla Pianura Padana, dall’altra – e contemporaneamente – gli incendi boschivi in Liguria e in Carnia e, ad ulteriore contrasto, le mareggiate e l’impeto delle bombe d’acqua al Sud e nelle Isole. Questa diversificazione in territori a contatto comporta situazioni potenzialmente inadatte a sostenere le attività umane, con conseguenti migrazioni in territori quasi contigui sia a seguito di eventi meteorologici disastrosi, sia a causa di una penuria improvvisa di risorse. Le ripercussioni sui sistemi socio-economici ed ecologici avvengono in tempi relativamente brevi, senza che le società locali abbiano il tempo di adattarsi alle condizioni climatiche mutate bruscamente e imprevedibilmente.
Proprio per l’urgenza di un maggiore controllo del clima, il nuovo rapporto di Irena (International Renewable Energy Agency), il World Energy Transitions Outlook 2023 Preview, prevede oltre 10.000 GW totali di potenza installata nelle rinnovabili al 2030 per un investimento di 35mila miliardi di $ nelle diverse tecnologie della transizione green, dalle rinnovabili ai veicoli elettrici, passando per le reti, i miglioramenti dell’efficienza energetica, la produzione di idrogeno. Ma oggi siamo solo a circa 3.000 GW: quindi il target proposto da Irena significherebbe installare in media quasi 1000 GW ogni anno. Proseguendo invece con le politiche attuali, nel solo settore della produzione di energia elettrica, le fonti rinnovabili arriverebbero a 5,4 TW di capacità cumulativa nel 2030, circa metà di quello che servirebbe. Nonostante che nel settore elettrico nel 2022 si sono installati 295 GW di rinnovabili, con una quota percentuale altissima (83%) sul totale della nuova potenza installata, lo sforzo è insufficiente. Le rinnovabili, scrive Irena, rappresentano oggi quasi il 40% della potenza globale elettrica, ma non corrono abbastanza. In particolare, bisognerebbe installare ogni anno, in media, da qui al 2030, 551 GW di fotovoltaico e 329 GW di eolico, contro, rispettivamente, 191 e 75 GW sviluppati nel 2022.
Gli investimenti annuali in nuova generazione elettrica rinnovabile dovrebbero di conseguenza quasi triplicare, da 486 miliardi di $/anno in media a 1.300 mld $.
Saranno necessari anche più investimenti per le reti elettriche e le tecnologie di flessibilità, come gli accumuli: in totale 548 miliardi di $ ogni dodici mesi, circa il doppio rispetto alla media degli ultimi anni. Solo così le fonti rinnovabili dovrebbero arrivare al 67% della generazione elettrica complessiva nel 2030, contro il 28% odierno. Entro questo quadro globale suggerito, l’Italia è tra i fanalini di coda.
Se passiamo al quadro dei consumi energetici finali, guardando al 2050, si deve prevedere almeno una diminuzione dei consumi globali di energia del 15% rispetto al 2020, con un crollo della quota delle fonti fossili nei consumi finali complessivi di energia, che passa dal 66% nel 2020 al 12% nel 2050.
In una prospettiva di elettrificazione dei consumi, la quota dell’elettricità sui consumi finali passerebbe dal 20% al 51%, con un peso delle rinnovabili sempre più vicino al 100%.
Una fetta rilevante (14%) dei consumi finali sarebbe coperta da idrogeno (di cui il 94% sarebbe H2 verde da rinnovabili), tenendo conto sia degli usi diretti sia degli indiretti, tramite i cosiddetti e-fuel, carburanti sintetici ricavati da idrogeno green e CO2 presente nell’aria.
In definitiva, le rinnovabili devono diventare completamente sostitutive; la quota di nucleare rimarrebbe stabile, al 6-7%, senza conoscere quindi quel nuovo boom di progetti che alcuni – anche nel nostro Governo, hanno ritenuto o ritengono possibili, mentre le fonti fossili sarebbero ancora dominanti solo fino al 2030, per poi andare in pareggio con le rinnovabili cinque anni più tardi (47% a testa) e ridursi costantemente fino a zero nei due decenni successivi.
Come detto, si tratta di uno sforzo enorme che potrà essere conseguito solo se ci sarà una volontà politica molto più forte di quella oggi dimostrata e verranno spostate risorse dai paesi ricchi per accelerare gli investimenti nelle economie emergenti.
- Quattro vie e una svolta per arrivare a 1.5°C al 2100 secondo IEA
IEA (Agenzia internazionale per l’energia), non certo sospettabile di parzialità, suggerisce un percorso non molto dissimile da quello di IRENA, esaminando distintamente quattro settori climalteranti:
- a) Settore energetico. La decarbonizzazione dell’elettricità, l’accelerazione dell’efficienza energetica e l’elettrificazione sono gli strumenti fondamentali.
- b) Veicoli: le vendite di auto elettriche dovrebbero raggiungere una quota di mercato di circa il 60% entro il 2030, mentre i camion di stazza media e pesante a zero emissioni dovrebbero raggiungere una quota di mercato di circa il 35% entro lo stesso anno.
- c) Deforestazione. Va ridotta a zero entro il 2030, in linea con la Dichiarazione dei leader di Glasgow sulle Foreste e l’uso del Suolo, rappresentando così la quota massima di riduzione delle emissioni dipendenti dall’uso del suolo.
- d) Emissioni extraCO2. Affrontarle è fondamentale per limitare il picco di riscaldamento. Presupponendo un’azione incisiva sulla CO2, il rispetto o il superamento di impegni come quelli previsti dall’Emendamento di Kigali sui gas fluorurati (HFC) e dall’Impegno Globale sul Metano, accompagnati dall’intervento sulle emissioni extraCO2 dell’agricoltura, potrebbero fare la differenza tra uno scenario che supera sostanzialmente 1,5 °C, rischiando di innescare punti di svolta climatici irreversibili, ed uno che non lo supera.
.Da ultimo – e con qualche riserva – IEA riflette anche sul ricorso al sequestro di carbonio: CCS. Anche in uno scenario in cui le temperature eccedano di meno
di 0,1 °C il valore di 1,5 °C di surriscaldamento, la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera diventerebbero necessari per mitigare e compensare le emissioni residue difficili da abbattere. Sarebbe necessario realizzare progetti per la cattura di circa 1,2 Gt di CO2 entro il 2030, contro i circa 0,3 Gt di CO2 attualmente previsti. Una soluzione che ha forti limitazioni tecnologiche, economiche ed ambientali e su cui il mio netto disaccordo si trova in folta compagnia.
In conclusione, secondo l’Agenzia, un percorso credibile verso l’obiettivo di 1,5° C ritiene indispensabile un’accelerazione forte e immediata su ciascuna delle quattro vie sopra illustrate, per ottenere riduzioni adeguate delle emissioni.
A questo punto, merita dedicare una riflessione più specifica al profondo cambio – un’autentica svolta – di modello necessario per quanto riguarda le reti di distribuzione. Lo scenario di cambio di paradigma dell’attuale sistema elettrico, per puntare al 100% di rinnovabili al 2050 è stato illustrato dal professor Leonardo Setti – docente di politiche energetiche all’Università di Bologna – adottando un approccio dal basso verso l’alto, che comporta un’unica grande rete elettrica di primo livello basata su rinnovabili e sistemi di accumulo legati al settore residenziale, al comparto industriale e alla mobilità elettrica. Questi ultimi saranno la parte portante di tutta l’infrastruttura, perché sono i dispostivi che conservano l’energia con il maggior rendimento, relegando a fattore marginale il ricorso al gas e al biometano. Quindi, produzione locale prevalente con l’eventuale soccorso di una rete transnazionale o transcontinentale, soprattutto per coprire eventuali picchi di richiesta.
La rete dovrà funzionare dal basso verso l’alto, tranne che per le grandi imprese
Quindi, tra le sfide del futuro rientra anche quella di una modalità di funzionamento della rete con meno infrastrutture, più flessibile e meno costosa, in appropriata sintonia con la generazione distribuita da energie pulite.
Nel caso italiano, il più grosso problema sarà quello di trasferire l’energia da una regione del sud a una del nord, a causa delle strozzature della rete di AT (ad alta e media tensione). Concentrare una notevole potenza di impianti eolici e solari nelle regioni meridionali, viste le più favorevoli risorse presenti, non potrà consentire di far viaggiare questa generazione elettrica verso le regioni settentrionali senza costruire nuove e costose dorsali.
- La doppia sfida CO2/qualità dell’aria e ascesa delle auto elettriche
Provo ad inquadrare il salto di qualità che i due provvedimenti adottati dal Parlamento Ue (Fit for 55 e Stop al 2035) cercano di imporre, sempre che la Commissione e i capi di governo non ne attenuino il contenuto, come è avvenuto in tempi recenti per la “tassonomia europea” e come si sta profilando per la riduzione della quota di rinnovabili da varare entro il 20230 (dal 45% al 40% secondo la Commissione).
E’ in atto, purtroppo, un preoccupante scostamento tra gli esecutivi e il Parlamento, che Ursula von der Leyen tratta con troppa disinvoltura e con un ascolto non irrilevante da parte delle lobby fossili. Occorrerà grande attenzione da parte degli ecologisti, della sinistra e dei movimenti, affinché non venga consentito ai singoli Stati-nazione di agitare l’ideologia del nazionalismo e ripararsi sotto l’emergenza e il dramma delle guerre in corso per sfuggire da impegni multilaterali sul contenimento del clima.
L’aggressione all’Ucraina ha cambiato completamente gli scenari su cui il Parlamento UE ha posizionato e aggiornato i suoi obbiettivi: in meglio, almeno sulla carta, anche se la loro realizzazione appare controversa e differentemente coniugata dalle 27 nazioni della Comunità. La riduzione delle emissioni climalteranti alla fine del decennio rispetto al 1990 è salita al 55% e la quota delle rinnovabili è passata al 45%, che corrisponderebbe sul versante elettrico ad una quota di elettricità verde del 70-80%. Anche l’obbiettivo dell’efficienza energetica risulta più incisivo. Ma…nei fatti? A livello delle singole nazioni si tergiversa anziché alzare la voce. La Germania amplia la quota di carbone, la Francia chiede di poter produrre idrogeno verde col nucleare, Polonia ed Ungheria riaprono all’atomo. Il nostro Paese si limita ad un dibattito stucchevole, ancora permeato di negazionismo stantio e privo di qualsiasi accenno alla drammaticità della situazione: al più si scalda sui costi delle bollette.
Insomma, le rinnovabili hanno conquistato una indubbia centralità, ma non ovunque e certamente non nella nostra penisola. In Italia il fotovoltaico è ripartito (1 GW nei primi sei mesi del 2022), con un peso determinante solo nel comparto residenziale. Eppure, sono una quarantina le proposte inevase di parchi eolici offshore, soluzione verso la quale molti si sono riversati, viste le difficoltà di concretizzare gli impianti a terra. In realtà, temo che i progetti che verranno realizzati nella seconda parte del decennio e negli anni successivi saranno solo tra cinque e dieci. Ci sono margini per forti riduzioni dei costi, grandi occasioni per le imprese di manifattura, di carpenteria pesante, di logistica, ma serve innovazione ed una dose di coraggio imprenditoriale, perché le caratteristiche del Mediterraneo sono diverse di quelle di altri mari e la nostra industria insiste nel non riconvertirsi al nuovo paradigma ormai in avanzata gestazione nel resto del mondo.
Secondo Elettricità Futura, (nata dall’integrazione tra Assoelettrica e assoRinnovabili) con il piano europeo REPowerEU in Italia si potrebbero installare 85 GW di rinnovabili facendo salire la quota di elettricità verde all’84% nel 2030 e attivando investimenti per 309 miliardi di euro. Intanto, una nuova fabbrica di fotovoltaico nascerà a Catania: sono entrambi segnali interessanti ma insufficienti, rispetto alla valanga degli ultimi anni di nuova capacità produttiva asiatica e prossimamente statunitense.
Così, alcune decisioni vengono prese in sedi ristrette, mentre aspetti innovativi di assunzione di responsabilità a livello partecipato sono passate sotto silenzio.
Ad esempio, nel nostro Paese in questi giorni è stata trascurata una notizia di notevole rilievo che – a mio avviso – potrebbe non solo influenzare, ma qualificare il prossimo decennio dell’assetto del sistema energetico nazionale. Mentre la guerra in Ucraina spinge i nostri ministri e capi di governo, affiancati dall’immancabile AD di ENI Descalzi, a siglare accordi per l’approvvigionamento di gas fossile proveniente dai pozzi e da regioni lontane dalla nostra penisola – con bilanci energetici ambientali e implicazioni finanziarie e politiche pesantemente sfavorevoli – il 22 Marzo una serie simultanea di comunicati ufficiali, sottolineati con l’enfasi dalle sigle in calce di tre grandi imprese ENI CDP E CIP , ha inondato le redazioni italiane ed europee specialiste del settore energetico, senza tuttavia che le novità in essi contenute fossero convenientemente amplificate da giornali, social o TV. E’ stata infatti formalizzata la costituzione di una colossale joint venture tra ENI, Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e un forte partner danese (CIP) – il più grande gestore di fondi dedicato agli investimenti verdi nelle rinnovabili – per rendere operativi a regime 3 GW di nuova capacità elettrica verde, ottenuta con eolico galleggiante a 30 Km dalle coste del Tirreno (Civitavecchia) e delle grandi isole italiane. Anche se può sollevare una certa apprensione la presenza di grandi interessi economici e finanziari nell’esecuzione di progetti decentrati e a carattere territoriale, in questo caso si è trattato del risultato di una grande attenzione e mobilitazione dei cittadini locali, che hanno conquistato il diritto a condeterminare le scelte sugli investimenti energetici che riguardano i loro territori, la loro vita, il loro lavoro. L’approvazione di un grande progetto di messa in posa di pale eoliche offshore risulta del tutto contraddittoria rispetto al rilancio del gas e del sistema centralizzato di approvvigionamento e combustione dei fossili per produrre energia che sembra tuttora all’attenzione dei Ministri in carica e dei loro consiglieri. Quindi un buon segno, anche se intanto, in altre località marine, siamo nel mezzo di una disputa aspra tra cittadini locali e rappresentanze istituzionali riguardo all’approdo in rada di enormi rigassificatori, come accade a Piombino ed a Ravenna. Si continua a glissare sulla realizzazione del progetto di Civitavecchia, mentre negli stessi giorni si è dato fiato alla sigla di accordi sul gas con il Mozambico, la Libia e la Tunisia ed è stato rilanciato il progetto di sequestro di CO2 in Romagna, sotto l’egida di ENI e del Presidente della Regione, mentre la presidenza del Friuli mostra disponibilità nell’accettare la riconversione a Monfalcone della centrale a carbone di A2A in una potente centrale a turbogas. Non si può fare a meno di constatare che l’avvio di una riconversione dal carbone e dal gas al vento, al sole e all’idrogeno è maturata solo in un contesto di straordinaria partecipazione democratica che, andando oltre alla mera opposizione al metano, ha saputo costruire le condizioni e le idee progettuali per alimentare un’autentica coalizione sociale, che ha favorito l’incontro di cittadini, studenti, sindacati, ricercatori e tecnici e che ha tradotto in politica la pressione sociale per liberarsi dall’inquinamento nell’Alto Lazio.
Il governo Meloni-De Scalzi non promette le accelerazioni richieste da Next Generation UE e la vicenda delle nomine delle partecipate ed i viaggi oltre la sponda sud del Mediterraneo non promettono granché bene.
Sulle rinnovabili, per esempio, vengono così ritardati molti provvedimenti necessari per un indilazionabile rilancio. I processi di decarbonizzazione sono stati rallentati a seguito di accordi pluriennali sulle forniture di gas e, perfino, carbone. I prossimi cinque anni saranno decisivi sul fronte dell’emergenza climatica: ci aspettano autentiche rivoluzioni sul fronte della generazione elettrica decentrata, ma stentano anche solo a decollare.
Per quanto riguarda i motori per autotrazione, la spinta regolatoria, seguita dal mercato e dalla sensibilità ambientale dei consumatori, è una leva che sta forzando in Europa l’avvio dell’elettrificazione del trasporto pubblico e privato, responsabile del 30% delle emissioni totali di CO2 in Europa. Dal punto di vista delle fabbriche automobilistiche, le principali difficoltà tecniche per alleggerire l’inquinamento da traffico consistono innanzitutto nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e, inoltre, nel contenimento degli ossidi di azoto (NOx) per le alimentazioni diesel e del numero di particelle microscopiche (PN) per le alimentazioni a benzina a iniezione diretta. Le principali difficoltà tecniche che incontrano i costruttori di autovetture e veicoli commerciali leggeri consistono nel contenimento degli ossidi di azoto (NOx) per le alimentazioni diesel, e del numero di particelle (PN) per le alimentazioni a benzina a iniezione diretta (GDI).
Sulla CO2 la cosa interessante da notare è che per la prima volta un Regolamento sulle emissioni nel settore automotive cita la metodologia dell’intero ciclo di vita LCA (Life Cycle Assessment,) quale strumento importante di valutazione dell’impatto ambientale del funzionamento delle autovetture. Con un punto di vista decisamente lungimirante, il Parlamento Ue ha decretato lo stop alle auto a diesel e benzina dal 2035, mentre tutto il centrodestra italiano votava contro ed il Governo Meloni annunciava una procedura di contestazione.
E’ significativo come perfino un redivivo Roberto Formigoni abbia oggi sentenziato contro il limite fissato al 2035, dimenticandosi forse che fin dal 2004 un gruppo allargato di ricercatori dell’Enea, sotto la supervisione del Nobel Rubbia, avesse presentato alla Regione Lombardia un articolato piano per la mobilità sostenibile fondato sulla riconversione a idrogeno dei motori degli autoveicoli e sull’estensione di sistemi di logistica intermodale in cui prevalesse il trasporto pubblico. Si trattava di riconvertire l’intera area Alfa Romeo in una manifattura prestigiosa e all’avanguardia, finita, invece, dopo estenuanti confronti, con l’ospitare il più grande supermercato d’Italia – “Il Centro” di Arese – il cui azionista di maggioranza è da sempre vicino alla Compagnia delle Opere. La povertà di visione di chi ci governa (in Lombardia ormai da 30 anni e a Roma da sei mesi) riduce perfino la politica industriale a interessi di parte e ad un gioco di poteri stantii.
Già il governo Draghi si era battuto per il principio della “neutralità tecnologica” sostenendo che sarebbe stato un errore puntare su una mobilità esclusivamente elettrica. Si tratta purtroppo non di un fatto estemporaneo o di un timore giustificato per l’occupazione, ma di una linea di fondo che non percepisce la premura di un cambiamento complessivo delle produzioni e dei consumi in un tempo che viene ogni giorno sempre più a mancare e che necessita di un impegno altrettanto urgente per la salute e la difesa del lavoro.
Intanto, fortunatamente, nel Paese si intravvede anche l’avvio di un percorso partecipato che unisce le forze per impedire – come insidiosamente si palesa anche in alcuni incoerenze che spuntano nella stessa Commissione Ue – che la guerra, il pericolo nucleare e la crisi climatica rendano invivibile il pianeta che abbiamo ricevuto in prestito. Si tratta per ora di riflessioni molto impegnative, avverse al mantenimento dello statu quo o a percorsi ritenuti fuorvianti, ma ritenuti praticabili dai poteri che ci governano. Posizioni di singoli intellettuali, giornalisti, nuclei di lavoratori e di studenti, ma anche, in misura crescente, di associazioni e movimenti in collegamento tra loro, che individuano nelle emergenze epocali e nell’inadeguatezza dei governanti ad affrontarle un nodo da sciogliere al più presto. Ne provo a trattare nel paragrafo che segue, esponendo solo alcuni esempi significativi.
5 Nomine nelle partecipate e politica energetica del governo Meloni
Sull’incredibile ritardo accumulato sulle rinnovabili è apparsa lo scorso 13 Aprile su “Italia Libera” una lettera di quattro esperti – Mattioli, Scalia, Naso e Silvestrini – che hanno avuto un ruolo non secondario nel proporre e realizzare un sistema energetico nazionale fondato nella voluta assenza del nucleare e nel ruolo sempre più marginale del carbone. Essi si rivolgono all’opposizione in Parlamento perché si dia come obbiettivo primario “il contrasto rispetto all’accelerazione dei drammatici fenomeni innescati dal global warming, trovando un’occasione eccezionale per imboccare di slancio la necessaria transizione energetica e dare un futuro di sostenibilità e di lavoro anche ai nostri figli. E nipoti”. Definendo il limite di 1,5°C “una guida di sopravvivenza per l’umanità”, aggiungono che “ affidare a Descalzi la conduzione dell’ENI nella prospettiva di fare dell’Italia l’hub europeo del gas” sia una incauta interpretazione della sovranità nazionale in campo energetico, mentre “barattare per “Piano Mattei” la miopia politica di chi vuole idrocarburi, ora e sempre, sia un insulto” e che “occorra una partecipazione diretta alla politica per dar vita ad un progetto che dia priorità al lavoro e che accolga i rifugiati climatici che stanno già soverchiando i rifugiati politici, cioè coloro che fuggono da conflitti, stermini e negazione di fondamentali diritti umani.”
Questo appello era stato preceduto da una lettera aperta alla politica italiana disponibile sul sito della Società Italiana per la Scienza del Clima. Oltre cinquanta climatologi sottoscrivevano l’urgenza di porre la questione del clima in cima all’agenda politica. “Per un grado di riscaldamento globale in più – affermano – rispetto al presente, ad esempio, si avranno mediamente su scala globale un aumento del 100% della frequenza di ondate di calore e tra il 30 e il 40% di aumento della frequenza di inondazioni e siccità, con una conseguente diminuzione del benessere e del prodotto interno lordo. Nel Mediterraneo e in Italia, poi, la situazione potrebbe essere anche più critica, in quanto, ad esempio, si hanno già chiare evidenze di aumenti di ondate di calore e siccità, di ritiro dei ghiacciai alpini, di aumento delle ondate di calore marine e, in parte, di aumento degli eventi estremi di precipitazione.”
Su “Domani” del 24 Aprile Alessandro Penati sotto il titolo: “Testacoda Starace- Scaroni ad ENEL, il governo sbaglia tutto” evidenzia come “i rischi di una cattiva governance societaria siano intrinsechi alle società quotate a capitale misto pubblico-privato. Ma – ammonisce – “nel colosso elettrico le scelte del centrodestra sembrano legate esclusivamente a logiche di spoils system e di lottizzazione” Nel suo articolo, l’economista, fondatore di “Quaestio Capital Management”, evidenzia la lungimiranza dell’intuizione di Starace che aveva avviato l’ENEL nella direzione di una multinazionale delle rinnovabili, guardando al futuro. Nella riconferma di Descalzi all’ENI e nella designazione alla presidenza ENEL di Paolo Scaroni, “responsabile quando era ai vertici dell’Eni della dipendenza italiana dal gas russo (e dal gas in generale, aggiungo)” viene espressa una critica non dissimulata all’ostinato orientamento del governo a favore dei fossili. E, infatti, l’ampia pagina del quotidiano si conclude con una nota molto dura: siamo di fronte ad “un caso emblematico di come un governo possa danneggiare se stesso e gli altri azionisti in una società a capitale pubblico-privato, rimuovendo per puri appetiti politici l’amministratore delegato che aveva creato una multinazionale, facendo ricco anche lo stato… posizionandola sulle fonti del futuro”.
Sempre il 24 Aprile, Gianni Barbacetto su “Il fatto quotidiano sostiene che “per il caso ENI- Nigeria il conto delle spese legali sostenuto dal colosso energetico per la tutela di Descalzi, Scaroni&C ammonta a 31 milioni per gli avvocati, il resto per altri incarichi. Dal punto di vista penale, la vicenda si è chiusa con una assoluzione generale. Ma ora trapela il conto delle spese legali – oltre 40 milioni di euro – sostenute dalla compagnia petrolifera per difendere la società e i suoi manager”.
Si tratta della causa civile con cui Eni chiede “il risarcimento dei danni dalla stessa subiti in conseguenza delle condotte e delle dichiarazioni – anche di natura gravemente calunniosa e diffamatoria – rilasciate da Armanna al precipuo fine di recare discredito alla reputazione della società e delegittimare i suoi vertici”.
I 31 milioni di euro sono andati a saldare le parcelle di avvocati e studi legali nominati da Eni e dai manager apicali Paolo Scaroni, Claudio Descalzi, Roberto Casula e Ciro Antonio Pagano, indagati, poi imputati e infine assolti con sentenza di primo grado resa definitiva dalla scelta della Procura generale di Milano di non ricorrere in appello. Non sarà certo la conclusione giudiziaria a fugare i dubbi di un comportamento di ENI non dissimila da quello delle grandi multinazionali Oil&gas, in una fase in cui l’esproprio di risorse in Paesi dove la corruzione dilaga è fonte di palese ingiustizia sociale per la maggior parte delle popolazioni che vivono in situazioni di indigenza e grande disagio ambientale.
In un commento ad una nota dell’Ansa del 7 Marzo, la rivista “Greenreport.it” mette in rilievo come “L’Italia investa 35 anni di politiche di uscita dal nucleare (decise dal referendum dell’8 e 9 novembre 1987) per stringere un’alleanza con la Francia, che dipende dall’atomo per la sua elettricità”. Si riporta come “Il gruppo Ansaldo Energia (controllata da Cassa depositi e prestiti, braccio finanziario del ministero del Tesoro), tra i grandi produttori di centrali elettriche al mondo, insieme alla controllata Ansaldo Nucleare, al gigante pubblico transalpino Edf e alla sua controllata italiana Edison, ha firmato un’intesa per collaborare allo sviluppo del nuovo nucleare in Europa e favorirne la diffusione, in prospettiva, anche nella Penisola. Obiettivo dell’accordo è “valorizzare le competenze della filiera nucleare italiana, di cui Ansaldo Nucleare è capofila, a supporto dello sviluppo dei progetti di nuovo nucleare del gruppo Edf” e “avviare una riflessione sul possibile ruolo del nuovo nucleare nella transizione energetica in Italia” e “verificare le potenzialità di sviluppo e di applicazione del nuovo nucleare in Italia, date le crescenti esigenze di sicurezza e indipendenza energetica del sistema elettrico italiano”. I deputati di FI Alessandro Cattaneo e Luca Squeri hanno presentato una mozione “che impegna il governo a mettere in campo iniziative per promuovere, all’interno della politica energetica europea, la produzione di nuovo nucleare”.
Infine, un’ulteriore considerazione: questa di carattere più generale. Mi viene suggerita da una nota di Franco Astengo sul lessico allusivo che la compagine governativa sceglie non a caso (Ministero del merito, della sovranità alimentare, della sicurezza energetica etc.). La presidente del governo in carica ha più volte richiamato la necessità di varare un “Piano Mattei” rivolto ai paesi africani per agevolare la possibilità dell’Italia di fronteggiare il fabbisogno energetico in forme diverse rispetto a quanto avvenuto nel corso degli ultimi anni. Per non banalizzare il richiamo al primo presidente dell’ENI e oltrepassare anche il riferimento alla sua tragica fine, sarebbe il caso di richiamare – sia pure in forme schematica – all’interno di quale quadro economico politico Mattei avesse agito.
Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale i punti di debolezza dell’Italia si misuravano nel numero degli addetti all’industria e nella scarsa potenza installata; nei limiti dell’organizzazione aziendale, mentre il livello della tecnologia non era molto distante da quella dei paesi industriali. Al termine della Seconda Guerra Mondiale il sistema economico nazionale si configurava come poco più di un ammasso informe di giacimenti minerari, di aree agricole, di impianti industriali, di reti di trasporto, di comunicazione, di distribuzione. Per la ricostruzione furono decisivi il Piano Marshall e l’intervento pubblico in economia. In questo quadro la disoccupazione fu una scelta strategica contro le sinistre. Le conseguenze furono il rallentamento della ripresa industriale, la riduzione dei salari, il blocco della domanda interna, fino al drastico aumento del prezzo del pane e dei prezzi amministrati. La politica liberista del governo aveva dunque fatto pagare costi salatissimi sia al proletariato industriale del Nord, sia al bracciantato del Mezzogiorno. Agli elevati profitti stavano di fronte salari bassi e pesantissime condizioni di lavoro: condizioni miserrime per milioni di persone cui si accompagnava una fortissima emigrazione verso i Paesi europei. Le condizioni reali di vita di gran parte del Paese iniziarono a migliorare soltanto con l’avvio della modernizzazione della grande industria, avvenuta grazie all’innovazione tecnologica che aveva fornito grande vantaggio alle esportazioni e toccò all’industria di Stato ricoprire il ruolo di capofila sia sul terreno dell’innovazione tecnologica, sia rispetto alle esportazioni, nella siderurgia, nella chimica e nell’industria petrolifera, con una asserita centralità dovuta all’ENI di Mattei e alla sua crescita rapidissima (gli investimenti aumentarono del 700 per cento tra il 1954 e il 1962). L’impegno della holding si estese ad alcuni settori collaterali con una politica molto aggressiva e prorompente, che contribuì ad una maggiore diffusione di benessere e giustizia sociale, fino alla sua misteriosa scomparsa. Mattei diede un contributo all’attenuazione di una politica di classe che aveva occupato l’intero dopoguerra e, infatti, era misteriosamente scomparso due anni prima della nascita del centrosinistra, che avviava le nazionalizzazioni e cercava di impostare la programmazione.
.Entro questi cenni di lievitazione cui ho accennato soffermandomi su autorevoli valutazioni individuali, si sta ricostruendo anche un movimento di massa che, dopo la pandemia e la frammentazione dovuta alla tragedia delle guerre, cerca di ricomporsi in un grande progetto per la riconversione ecologica dell’economia e della società, come da decenni richiedono in tutto il mondo i movimenti ambientalisti, per la pace e per la giustizia sociale. È un impegno gigantesco, che necessita della partecipazione diretta dei cittadini, anche per rimontare l’attuale disgusto per la politica così impietosamente misurato dalla costante crescita dei non votanti alle elezioni e che richiede. forme di rappresentanza diretta, indiretta, partecipativa, associativa e sindacale, già in atto peraltro in alcune situazioni europee, Oltre alla richiesta di un’assemblea nazionale sul PNIEC avanzata dalle associazioni che costituiscono l’“Osseratorio sul PNRR”, sono in fase di organizzazione una serie di manifestazioni (dopo Piombino, a Ravenna per il 6 Giugno e a Sulmona per il 10 Giugno), ad opera di un gruppo di movimenti sotto la denominazione “Rete per il Clima Fuori dal Fossile”. Inoltre, da pochi giorni, 18 sigle ecologiste tra le maggiori con l’adesione anche della CGIL stanno preparando un appuntamento di mobilitazione “provocatorio, ironico e comunicativo” a metà Giugno che metta in luce il tema del blocco delle rinnovabili e le responsabilità delle istituzioni (in primis il Governo ma in diversi casi anche Regioni e Sovrintendenze), con un approfondimento sul tema della sostituzione immediata dei fossili con le rinnovabili da tenersi con incontri di formazione, in particolare nelle scuole e nelle università nelle settimane di Maggio.
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6 Fine per il motore endotermico e smacco italiano per il biofuel
Fino agli autoveicoli da Euro 1 a Euro 6 si sono fissati limiti di emissioni del combustibile impiegato misurati “al tubo di scappamento”. Dal 2035, anziché continuare ad andare esclusivamente nella direzione di combustibili a minor emissioni di carbonio, il Parlamento UE ha deciso che ci si muoverà verso le nuove fonti di alimentazione dei motori, come i gruppi motopropulsori elettrici delle batterie, che ottengono la loro energia dall’elettricità con cui si caricano. E qui entra in gioco, come abbiamo accennato precedentemente, non solo il gas misurato allo scappamento del veicolo, ma anche quello immesso in atmosfera dal mix di fonti con cui si alimentano le colonnine di ricarica. Il passaggio all’elettrico ha quindi un significato che va oltre il settore automobilistico. In sostanza: il salto di qualità sta nel porsi un obbiettivo più esteso: il vettore (elettricità o idrogeno) che consente al motore elettrico di abbassare drasticamente gli inquinanti rispetto al motore a combustione termica andrà a sua volta ottenuto da fonti rinnovabili a bassissime emissioni anziché da fonti fossili, grandi emittenti di climalteranti e gas inquinanti (o radiazioni nel caso del nucleare). Un sostanziale assorbimento di energia elettrica per il settore stradale può fungere quindi da driver per aumentare la quota di energie rinnovabili nel mix di fonti energetiche UE. E, parimenti, “l’inverdimento” del mix di reti aiuta anche “l’inverdimento” del settore stradale.
Perché allora tanta ostilità e insensibilità climatica da parte dei nostri ministri e governanti? Forse per produrre e utilizzare biocarburanti per le 40 milioni di auto circolanti in Italia (666 ogni 1000 abitanti!), quando si importa, tra le altre cose, il 50% di frumento e si fa guerra alla natura con veicoli a combustione fossile, che in gran parte occupano suolo pubblico senza pagare nulla?
La destra italiana ha perso in Europa, ma lo smacco per l’Italia non finisce qui: per i motori endotermici sopravvissuti verranno ammessi solo i carburanti sintetici verdi (cioè fatti combinando chimicamente idrogeno prodotto con fonti rinnovabili e CO2, dall’aria) non i biocarburanti, cioè quelli ottenuti dalla trasformazione di materiale organico.
Una fonte giustamente considerata fuori gioco, in quanto ottenuta per lo più da piantagioni dedicate, coltivando piante da cui si può estrarre olio da trasformare in carburante con grande consumo di acqua, in aree geografiche molto estese e probabilmente extraeuropee, mentre un terreno incolto intrappola più CO2 di quanta se ne risparmia usando biofuel e favorisce la biodiversità.
7 Una prima conclusione
In definitiva, la stagione neoliberale ci consegna uno Stato che ha imposto privatizzazioni, flessibilizzazione, austerità, disinvestimenti e sovvenzioni ambientali regressive ai suoi cittadini e che, per questo, non può aspettarsi di essere considerato un attendibile gestore della politica climatica.
La politica climatica richiede di distribuire con saggezza e senso dell’eguaglianza i costi della transizione, tra classi, persone e territori. Richiede poi fiducia nella classe politica, senso di appartenenza e capacità di collocarsi in un orizzonte temporale dove ai sacrifici di oggi corrispondono benefici futuri. Una UE cobelligerante non dà più le stesse garanzie che dobbiamo riconquistare anche facendo cessare la guerra.
Per questo – come dice Filippo Barbera sul manifesto – “è necessario ricostruire fin da ora il ruolo dell’azione pubblica per la transizione verde, attraverso un impegno collettivo che non fugga davanti al conflitto sociale e all’apertura degli spazi democratici necessari”.
(pubblicato in: Alternative per il Socialismo, aprile 2023)
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