Gli scioperi del ‘43/’45: ottant’anni dopo di Edmondo Montali e Mattia Gambilonghi
Ricordare oggi, a ottant’anni di distanza, gli scioperi del 1943-45, può ad un primo impatto apparire un esercizio retorico legato alla memorialistica e ai tanti anniversari che segnano e scandiscono l’attività degli enti e delle istituzioni culturali come la nostra. Riteniamo al contrario utile e necessario da un punto di vista politico e civile – conferendo cioè alla memoria storica e alla sua custodia una missione fondamentale ai fini di una cittadinanza cosciente e consapevole – ricordare gli eventi che si dispiegano in un biennio così importante per la nostra storia comune, analizzandone le cause, i motivi ispiratori, le ricadute politiche. I nessi e i punti di contatto con la realtà odierna e le vicende attuali non mancano, del resto. Tornare su quei fatti può perciò fornirci degli elementi di comparazione e delle chiavi di lettura non banali e più precise per confrontarci con temi e questione di non facile risoluzione. Il primo di questi nessi con l’oggi è forse il più evidente, vista la tragedia in corso in Ucraina, a sole poche ore di volo dall’Italia. Ricordare gli scioperi del ‘43-’45 significa infatti, in primo luogo, soffermarsi a riflettere sulle centinaia di migliaia di persone che patirono sulla propria pelle tutta la scala di infiniti orrori della seconda guerra mondiale. Quelle persone e il loro vissuto ci restituiscono con le esperienze tutta la tragedia che i grandi avvenimenti, oggettivizzati dalla ricerca storica, rischiano di perdere nella loro generalità. La morte, la deportazione, la fame, la paura, la perdita, il lutto sono tutti sentimenti che, come possiamo sperimentale in qualche anche nella nostra esperienza esistenziale, distruggono la vita di una persona, la sconvolgono negli equilibri più intimi e la mettono a contatto vivido con il dolore, la sofferenza, con tutto ciò che una persona teme. Elementi da non sottovalutare e dimenticare, poiché il numero, nella sua enormità, se da una parte trasforma il dramma in una tragedia dell’umanità, dall’altra rischia di restituirci una freddezza di fronte alla quale restiamo impassibili. La seconda ragione per cui vale la pena tornare a riflettere su quel tornante riguarda l’importanza che quel complesso di avvenimenti ha avuto per la nostra comunità nazionale, avendo gli scioperi del 1943-45 contribuito a formare – e non serve scomodare la psicologia delle masse per metterlo in evidenza – un patrimonio valoriale e dei codici di comportamento tramandati fino ad oggi. Tramandati magari non sempre in maniera evidente ed esplicita (si pensi alla cosiddetta memoria pubblica e ai suoi processi di costruzione), ma conoscendo anche modalità nostra storia repubblicana, la nostra Costituzione e la nostra democrazia nascono esattamente a partire da quegli avvenimenti. Il protagonismo operaio fonda il nuovo compromesso costituzionale e senza una corretta percezione di quel biennio non saremmo in grado né di valutare la storia repubblicana, né tanto meno di orientarci tra i tanti cortocircuiti politici della nostra attualità. Il rapporto lavoro-democrazia costituisce ancora oggi il nodo centrale del dibattito politico, anche se continuano a ripeterci che è inutile parlare di fascismo e antifascismo quando nessuno dei due fenomeni storici esiste più. Eppure, l’eredità di quel confronto è esattamente il nodo quotidiano del discutere: l’attualità o meno del compromesso costituzionale. Negli ultimi mesi hanno infatti ripreso vigore e slancio i tentativi di delegittimare quel compromesso legandolo al protagonismo di forze politiche travolte dalla storia e tacciate senza nessuna parvenza di complessità di totalitarismo. Questo negherebbe qualsiasi fondamento ad una Repubblica che andrebbe perciò reinventata nei suoi valori. Il tratto strumentale di queste polemiche, alimentate tanta da una vulgata neoliberista desiderosa di scuotere tutta l’impalcatura pro labour della Costituzione, tanto da un revanscismo neofascista da sempre insofferente verso lo spirito e gli equilibri politico-sociali scolpiti nella Carta fondamentale, rendono necessari interventi volti ad agevolare un corretto uso della memoria storica, oltre che verificare l’attualità delle ragioni di allora, le quali trovarono espressione in una grande rivolta popolare in nome di valori quali la libertà, la democrazia, l’emancipazione dei lavoratori, una nuova idea di cittadinanza capace di coniugare i diritti civili e politici con i diritti sociali.
1. Il retroterra e i presupposti dell’esplosione sociale
Il tipo di protesta sociale di fronte a cui ci troviamo quando parliamo degli scioperi del ‘43/’44 è paragonabile ad un grande fiume carsico che emerge di volta in volta con intensità e in contesti diversi, sia cronologicamente sia a livello territoriale e aziendale, e che trova alcuni fondamentali momenti di sincronizzazione, come appunto gli scioperi generali del 1943 e soprattutto del 1944 (anche questi, però caratterizzati territorialmente e per settori produttivi). Sullo sfondo di questi episodi di lotta operaia, ci sono chiaramente gli avvenimenti internazionali della Seconda guerra mondiale, i quali cambiano radicalmente le condizioni di vita e di lavoro degli operai. Le vicende militari, come ad esempio le vittorie conseguite dall’Armata rossa (Stalingrado, che ne è il simbolo, ha luogo nel febbraio del ‘43) alimentano speranze e offrono un arsenale simbolico e di identificazione che rafforza la coscienza operaia. In misura ancor più importante per la realtà italiana, ci sono le azioni militari degli alleati anglo-americani, che per molti versi scandiscono i tempi della protesta, in quanto da un lato alimentano, tra speranze e disillusioni, la crescente consapevolezza che le sorti della guerra sono ormai segnate contro il nazifascismo; e dall’altro, attraverso soprattutto i bombardamenti sulle città italiane, contribuiscono a quel peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro che saranno un fattore decisivo per la protesta operaia. Ma cosa dunque accade tra il 1943 e il 1945? Per capirlo dobbiamo tornare qualche mese indietro e precisamente alla fine del 1942 quando le sorti della guerra stanno definitivamente cambiando e la disfatta italo-tedesca tra le dune di El Alamein lascia intravedere la catastrofe di Stalingrado. In quei mesi il partito fascista e il sindacato del regime cominciano a percepire una inusitata tensione all’interno delle fabbriche del Nord Italia. Una tensione che si traduceva in una disposizione rinnovata e minacciosa alla rivendicazione sindacale, all’attivazione di quegli operai sulla cui disciplina e controllo il regime aveva contato per le sue mire espansionistiche. Le industrie del Nord più moderne, con un totale di circa trecentomila operai sui circa due milioni di lavoratori dell’industria, erano quelle più coinvolte nella politica bellicistica del regime fascista perché erano destinate ad alimentare la complessa macchina militare. Le fabbriche sono il cuore dello sforzo bellico e del fronte interno. Sono loro che producono tutto ciò che necessita all’esercito combattente: armi, munizioni, vestiti, logistica. Se l’esercito, insomma, è il veicolo dell’imperialismo fascista, la fabbrica ne è il motore. E dentro la fabbrica naturalmente il lavoro degli operai, già fondamentale in una moderna società industriale, in guerra assume lo stesso valore e la stessa importanza dei soldati al fronte con la non trascurabile differenza che mentre questi ultimi sono facilmente sostituibili, i primi lo sono molto difficilmente, soprattutto quando parliamo di lavoratori specializzati. Non sorprende, dunque, come il fascismo da un lato utilizzi il partito e il sindacato per tenere sotto stretto controllo gli operai, ma dall’altro si sforzi, attraverso l’intervento dello Stato, di garantire a chi lavora per la guerra condizioni più favorevoli rispetto al resto della popolazione. Fino alla fine del 1942 queste misure, che si traducono in termini di salari, orari, distribuzione dei viveri, sembrano tenere alla prova della guerra, così come del resto il livello occupazionale sostenuto dalla necessità di aumentare la produzione. Ma con il peggiorare della situazione militare e l’inizio dei bombardamenti alleati, che minano la capacità di rifornimento delle città distruggendo il sistema dei trasporti, tutto l’apparato fascista vacilla e si sgretola. L’alimentazione diventa un problema, il mercato nero inaccessibile agli operai e al loro salario, le condizioni di vita peggiorano dentro e fuori la fabbrica e contemporaneamente cresce la richiesta delle direzioni aziendali di maggior tempo di lavoro e cresce lo sfruttamento intensivo per sostenere la produzione di guerra. Il tutto mentre i fallimenti militari inquinano le ragioni ideali che avrebbero potuto giustificare lo sforzo richiesto. I disagi nelle fabbriche si moltiplicano e i segnali di agitazione sono prontamente colti sia dal partito che dai sindacati fascisti tanto che l’avvio degli scioperi ai primi di marzo del 1943 e la loro rapida estensione non sembrano totalmente inattesi anche se lasciano sbigottiti per la facilità con la quale si estendono e per la partecipazione assolutamente inaudita. L’estensione degli scioperi e la loro imponenza mettono il regime di fronte alla pochezza di mezzi per fronteggiare la protesta ma soprattutto di fronte alla constatazione che c’era in gioco qualcosa di molto più importante delle singole richieste di natura sindacale avanzate dagli scioperanti, ovvero l’incapacità del sistema di regger il peso e le pressioni della guerra.
2. Crisi dell’ipotesi corporativo-imperialista e affermazione del protagonismo operaio
È dunque evidente come gli scioperi del 1943 aprano un conflitto nel punto più delicato dell’apparato che alimentava la guerra. Gli operai di fabbrica erano la più grande aggregazione sociale la cui attività era scandita da regole e rapporti ben definiti e stabiliti dallo Stato attraverso leggi, contratti collettivi e normative specifiche che andavano dal luogo di lavoro fino agli Istituti di previdenza, assistenza e dopolavoristici. Nei progetti del regime, essi rappresentano la colonna portante dello Stato corporativo necessario alla visione totalitaria del fascismo. Per questo motivo il regime non smette di giocare nei riguardi degli operai, accanto alla carta della repressione antifascista e del controllo di fabbrica attraverso i fiduciari (non a caso i loro rapporti insieme a quelli delle strutture di partito nei quartieri operai si moltiplicano durante la guerra), la carta del consenso attraverso le strutture di supporto extra-lavorative. La costruzione del sistema corporativo, con la fine del conflitto di classe, avrebbe dovuto determinare una nuova pace nazionale capace di garantire il sostegno del mondo della produzione e del lavoro agli obiettivi politici ed espansionistici del regime. Invece, la politica del regime di compromesso con le élite capitalistiche e il fallimento del sistema delle corporazioni non produce altro che una spinta di rinnovamento del capitalismo attraverso un progressivo peggioramento delle condizioni salariali e di vita dei lavoratori. L’introduzione di metodi di produzione più scientifici, in assenza di una libera contrattazione sindacale, si traduce in un aumento sensibile del livello di sfruttamento dei lavoratori, senza che il Welfare del partito e dello Stato riescano a compensare il peggioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro e nel potere di acquisto dei lavoratori. E’ questa la ragione di una freddezza di lungo corso degli operai di fronte al regime, la quale ha radici ben più antiche della guerra, come testimonia del resto il clamoroso silenzio dei lavoratori di Mirafiori durante la visita del Duce nel 1939. La guerra e l’evidente fallimento, prima politico e poi militare, del regime servì solo a precipitare la situazione, ma il mondo del lavoro operaio era in grado di poggiare il proprio dissenso su un antifascismo non ideologico ma piuttosto sostanziale, fatto di esperienza piuttosto che di teoria. Da quanto detto finora è possibile trarre due considerazioni preliminari che, a nostro parere, appaiono decisive non soltanto per comprendere la traumatica fine del regime fascista ma anche i caratteri peculiari dell’epifania della Repubblica fondata sul lavoro. La prima considerazione riguarda il nesso strutturale tra il tentativo fascista di costruire una società totalitaria al cui interno sussumere in termini organici il mondo del lavoro, la guerra intesa come destino genetico[1]identitario del fascismo che la prepara e poi la conduce presupponendo l’adesione della società totalitaria, e il conflitto sociale che segna il fallimento radicale di questa ambizione e, conseguentemente, il fallimento storico del fascismo. Proprio la guerra, infatti, fallimentare sul piano militare sia nella versione iniziale di scommessa politica per una pace veloce, sia nella versione della cosiddetta “guerra parallela” rompe il fronte interno e segna la scissione di vasti strati sociali dal regime, in primo luogo del mondo del lavoro, rimasto in misura consistente impermeabile ai progetti fascisti, ma anche di consistenti settori dei ceti medi che iniziano percorsi molto differenziati che spaziano da un disimpegno conservativo a un nuovo attivismo. La seconda considerazione riguarda invece la geografia socio-politica dell’Italia dell’epoca, interessando il tipo di dialettica che viene a determinarsi fra i diversi gruppi sociali in gioco: gli scioperi del 1943-44 ci dimostrano infatti come esista, nell’Italia ancora fascista e, poi, in quella repubblichina sotto l’egida nazista, un solo soggetto sociale collettivo in grado di prendere coscienza del suo ruolo strategico all’interno dello sforzo bellico e di assumere un ruolo conflittuale tale da mettere in crisi il meccanismo produttivo che sottende lo sforzo militare. Questo soggetto collettivo è la classe operaia del nord Italia che assume progressivamente un protagonismo con il quale non soltanto tutte le forze politiche dovranno confrontarsi, ma che proietta una propria centralità anche sul nuovo Stato italiano che si prefigura in lontananza. Pensiamo, naturalmente, alle impressioni che la lotta operaia suscita sugli industriali che giocano una difficile partita su più fronti (Alleati, tedeschi, fascisti, resistenza), ma soprattutto sui partiti antifascisti che faticano a trovare punti di intesa nel CLN: il protagonismo operaio non soltanto spinge il PCI a moltiplicare i propri sforzi di rappresentanza di classe, ancorandosi a quel ceto operaio che formerà il nucleo del partito nuovo togliattiano, ma obbliga anche le forze moderate, in primo luogo la DC, al confronto con la fabbrica sia in termini di consenso sia in termini di contenimento (anche sul piano internazionale gli scioperi solleveranno grande entusiasmo e grandi preoccupazioni per quello che Churchill il 25 aprile del 1943 definirà il “bolscevismo rampante”).
3.Scioperi economici o scioperi politici?
Alcune ipotesi interpretative Il sistema crolla nel 1943 e la ribellione operaia va a colpire il modello di relazioni politico[1]sociali del fascismo: lo sciopero riproponeva il conflitto di classe, esattamente quello che l’edificio corporativo aveva negato tanto da tramutarlo in un atto illegittimo e illegale: un tradimento da Tribunale Speciale. Il conflitto evidenziava l’incapacità del fascismo di costruire la nazione pacificata come risultato del totalitarismo rimettendo in gioco il rapporto tra Stato e società proprio mentre la guerra sottoponeva il regime alla sfida decisiva. Ecco perché lo sciopero, la sua estensione di massa, la sua partecipazione erano insieme il segnale della crisi del regime – che anticipa il 25 luglio – e contemporaneamente la spia del suo fallimento. Qui si annida il suo innegabile valore politico ben al di là delle accuse ai comunisti che invece nell’occasione, in quanto unica componente politica ad avere un rapporto reale con i lavoratori, giocano un ruolo da valutare ma comunque secondario. Gli scioperi sono un segnale fortissimo anche per l’antifascismo politico: per la prima volta in modo così eclatante si attiva una componente sociale, gli operai dell’industria, di grandissimo rilievo, che può giocare veramente un ruolo decisivo nell’opposizione al regime e che per questa sua natura strategica pone a tutte le anime politiche della nascente Resistenza la necessità di pensare o ripensare il proprio rapporto con le fabbriche. Le parole d’ordine degli scioperi del 1943 sono due: pace e lavoro. A prima vista, e questa fu anche un’interpretazione condivisa dalle autorità fasciste e una prima lettura data dai tedeschi, le rivendicazioni erano soprattutto di carattere economico e, quindi, non necessariamente interpretate come un pericolo di natura politica. In verità, la rottura avviene sul terreno dell’adesione o del rifiuto della guerra fascista, ovvero, dell’elemento più intrinsecamente legato all’esperienza del ventennio. Perché la guerra non è un elemento neutro o addirittura estraneo alla natura del fascismo, il che equivarrebbe a considerare la seconda guerra mondiale alla stregua di un “cataclisma naturale”. Viceversa Il legame tra fascismo e guerra (nelle diversi fasi della preparazione, della gestione della sconfitta militare) è inscindibile: la guerra rappresenta il banco di prova decisivo sul quale il regime gioca la propria credibilità e la propria capacità di mobilitare un blocco sociale fedele e che condivide le sue aspirazioni. Dal marzo del 1943 si attiva una sequenza ininterrotta di manifestazioni, proteste e scioperi che fanno degli operai di fabbrica una presenza costante e attiva. Presenza caratterizzata da una parte dalla difesa delle condizioni materiali di vita (le questioni di carattere sindacale) e dall’altra da questioni che toccano la dimensione più propriamente politica e le forze che in essa si muovono chiamate a interagire con la dimensione della fabbrica e le sue autonome rivendicazioni. Peraltro il confine è molto labile. Come, ad esempio, separare una rivendicazione salariale o di orario dalle necessità della guerra? Soprattutto quando l’interlocutore non è più l’imprenditore, ma direttamente il potere politico, prima fascista e poi nazista. Ogni rivendicazione è immediatamente politica dal momento che riguarda la questione politica per eccellenza: la guerra. I tedeschi ad esempio aprono o chiudono alle rivendicazioni a seconda del corso della guerra; anche le loro strategie cambiano tra concessioni e repressioni brutali, attivazione delle commesse per le fabbriche e spoliazione di uomini e materiali. Tutto è subito e irrimediabilmente politico: la fabbrica che lavora per la guerra è ontologicamente uno spazio politico: basti pensare a come la protesta operaia orienti la politica del governo Badoglio e lo costringa nell’agosto del 1943 a quelle concessioni negate in un primo momento nel tentativo di una fuoriuscita autoritaria dal fascismo. E’ la fabbrica a negare in nuce questa operazione imponendo l’accordo sulle Commissioni interne, la liberazione di prigionieri antifascisti e la richiesta di condizioni migliori di lavoro; è in questo momento che l’antifascismo politico trova il suo referente sociale. La fabbrica assume un ruolo tutto politico, che già lascia intravedere le possibilità di condizionare la rinascita del Paese dopo il fascismo e una transizione che le classi dirigenti non possono gestire esclusivamente in proprio. E’ la forza oggettiva dei fatti a porre l’esigenza di un avvicinamento constante tra fabbrica e antifascismo politico e militare in nome di una comune opposizione a fascismo. E in questa forza oggettiva non rientrano solo i momenti alti della protesta operaia (gli scioperi dell’agosto 1943 e quelli di novembre/dicembre, quelli del marzo 1944 e quelli dell’autunno, fino ad arrivare a quelli pre-insurrezionali), ma una conflittualità diffusa, spesso a livello locale, che scandisce – praticamente senza soluzione di continuità – tutto il periodo resistenziale.
4.Gli scioperi del ‘44, il dibattito fra le forze politiche e l’adesione operaia alla Resistenza
L’8 settembre, l’armistizio e i drammatici avvenimenti che seguono con l’invasione tedesca del Paese, mutano radicalmente le carte in tavola. Nessuna transizione più o meno indolore al fascismo, ma l’invasione alleata al Sud e quella tedesca al Nord con la rinascita di uno Stato fascista, la Repubblica sociale, benché ormai triste e sbiadita parodia del fascismo-regime in mano all’alleato tedesco. L’occupazione tedesca apre subito un dilemma relativo al rapporto che si deve stabilire tra la nuova autorità politica e militare nel Nord e il mondo delle fabbriche in ebollizione. Un rapporto che in buona sostanza dipendeva dalle decisioni assunte dai tedeschi. E’ noto che i programmi nazisti per la penisola oscillavano tra la soluzione “militare” tesa a uno sfruttamento radicale del tessuto produttivo italiano con la deportazione di operai e macchinari e una soluzione “diplomatica”, che poi si affermò, che mirava a integrare l’Italia occupata nel sistema economico del Terzo Reich. Questa seconda soluzione apriva uno scenario alternativo a quello di una contrapposizione frontale e di radicale resistenza: uno di collaborazione basato sulla garanzia di materie prime e ordinativi per l’industria capaci di tenere in vita il sistema, con relativa stabilità di profitti e salari, in cambio di una assoluta pace sociale e della piena collaborazione. Ma l’occupazione straniera, insieme al rifiuto del fascismo, esclusero la possibilità di una collaborazione duramente contestata sia dall’antifascismo politico sia da quella parte della società, operai in testa, che avevano preso atto del fallimento storico del fascismo e della sua guerra. Erano in quel momento sul tavolo i presupposti sia per la guerra di liberazione sia per la guerra civile, per stare all’interpretazione di Pavone, perché le forme di opposizione al fascismo e al nazismo si legano in quella fase in modo inscindibile (il tema della “guerra di classe”, invece, meriterebbe un ulteriore approfondimento). Già con gli scioperi del gennaio del 1944 viene sancito il fallimento del tentativo di collaborazione messo in campo dai tedeschi coadiuvati dai repubblichini, i quali riscoprono l’anima sociale del fascismo e tentano di conquistare alla Repubblica di Salò le simpatie operaie con parole d’ordine come quella della “socializzazione”. Il conflitto operaio risorge imponente nel marzo 1944, quando si apre quella fase in cui la natura politica dello sciopero viene dichiarata formalmente: a quel punto, la reazione tedesca imboccherà la strada di una feroce repressione. Gli scioperi del marzo del 1944 sono stati ricostruiti con molta accuratezza dagli storici. Rappresentano, secondo un giudizio ampiamente condiviso, la più grande manifestazione di opposizione di massa nell’Europa occupata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Dal 1 al 7 marzo scioperarono in tutto il Nord Italia 200.000 persone secondo i dati ufficiali della Repubblica sociale di Salò, quasi un milione secondo la ricostruzione di alcuni storici. Lo sciopero fu indetto dal Comitato di agitazione clandestino di Liguria, Piemonte e Lombardia. Scioperarono le fabbriche di tutte le grandi città del Nord con l’eccezione di Genova (il cui antifascismo era stato duramente colpito nei giorni precedenti e che avrebbe poi scioperato in maniera compatta nel mese di giugno del 1944). Proprio per queste ragioni si può considerare lo sciopero generale del 1944 come un vero e proprio momento di svolta della Resistenza italiana, poiché segna il passaggio definitivo del mondo del lavoro all’azione diretta, alla resistenza più ferma e alla guerra partigiana, la quale, alimentata dai molti operai in fuga per via di arresti e deportazioni, assumerà definitivamente i caratteri di guerra di popolo contro l’occupazione nazifascista Lo sciopero del 1944 fu però caratterizzato anche da fraintendimenti tra le masse operaie e le organizzazioni più prettamente politiche. Il partito che più di altri sostenne l’opportunità di uno sciopero generale fu il partito comunista, ma nel CLN non tutti erano di questa idea. I comunisti, soprattutto al vertice, immaginarono invece lo sciopero come un colpo potenzialmente decisivo al fine di minare la credibilità della Repubblica sociale e per interdire, parzialmente, la macchina da guerra tedesca, colpendola in un settore nevralgico come quello della produzione (essenziale per il proseguimento della guerra). Soltanto in via ipotetica, e senza eccessiva convinzione, si accennava alla possibilità che lo sciopero si trasformasse in uno sciopero insurrezionale, agendo come un detonatore capace di innescare la miccia della insurrezione nazionale, con la conseguente liberazione del Paese. Su questo punto, del resto, Palmiro Togliatti era stato molto chiaro già nel gennaio del 1944: nella sua visione, lo sciopero aveva un carattere duplice, essendo teso da un lato a colpire l’occupazione tedesca in un punto strategico e dall’altro a segnare un protagonismo antifascista così esteso ed efficace da poter essere speso sul tavolo politico una volta riacquistata l’indipendenza e la liberazione del Paese. Una strategia complessa che doveva poggiare sulla rete clandestina in fabbrica sulla quale il PCI poteva contare e che aveva radici lontane, nella scelta di continuare il lavoro sindacale clandestino in Italia dopo l’atto di scioglimento della CGdL del 1927 e la nascita di una CGdL all’estero (in Francia) di segno socialista. Va poi detto che i collegamenti tra i vertici, le organizzazioni a livello regionale e quelle a livello locale e di fabbrica non furono sempre facili. Piuttosto, essi si mostrarono spesso fin troppo carenti. E’ importante sottolineare come il messaggio dei vertici del PCI non passò alla base operaia in tutta la sua complessità, non presentando cioè le stesse sfumature politiche. Piuttosto, nel lavoro di preparazione degli scioperi, nella preparazione dell’azione e quindi nel passaggio di istruzioni da vertice alla base il dato che acquistò maggiore forza, e che nutrì le più importanti aspettative, fu quello dello sciopero insurrezionale. Gli operai introiettarono l’idea di essere davanti a un momento decisivo, di avere il supporto delle bande partigiane armate (che non era né semplice, né tutto sommato possibile vista la repressione tedesca e il numero ancora contenuto dei resistenti armati) e di poter imporre una rottura decisiva al fronte nazifascista. Queste aspettative, alimentate dalla speranza di farla finita con la guerra e i fascisti, spiegano la difficoltà da parte degli operai nel vivere come un successo il ritorno in fabbrica dopo che lo sciopero aveva assunto un’ampiezza inimmaginabile. Non era stato però lo sciopero insurrezionale che molti avevano sperato e, dal punto di vista materiale, esso non portò praticamente a nulla, giacchè non esisteva una vera e propria piattaforma rivendicativa. Inoltre, non c’era stato l’intervento dei partigiani, o almeno non nella misura sperata e immaginata: il che portò tutti i partiti del CLN a una valutazione più compiuta delle necessità della lotta armata e della cura delle formazioni combattenti. Lo sciopero generale del 1944 è il momento in cui il rapporto lotta sociale/lotta armata assume il carattere della collaborazione, testimoniata anche da un salto di qualità nelle organizzazioni di fabbrica dai Comitati di agitazione, CLN di fabbrica, Comitati sindacali, le SAP, ecc. Una crescita organizzativa importantissima, difficile da cogliere se si guarda solo alla dimensione quantitativa del conflitto. Questa infatti per tutto l’anno 1944 non toccherà più le punte di marzo e giugno. Le proteste saranno spesso aziendali, territoriali, locali, anche per il venir meno delle commesse tedesche che progressivamente diminuiscono, mentre sembra che la guerra li costringa ad abbandonare la penisola. Torneranno a crescere solo quando sarà chiaro che l’avanzata alleata si arresterà almeno per un altro inverno, il più duro per la Resistenza militare. Eppure in questo periodo le forze antifasciste costruiscono la loro presenza dentro la fabbrica, una presenza egemonizzata dai comunisti. Le rivendicazioni sono quasi tutte di carattere sindacale, ma il “nemico di classe” è diventato il tedesco che ha completamente esautorato i repubblichini e tratta in prima persona, provando la strada della mediazione, salvo poi mettere in campo tutti gli strumenti coercitivi lasciando ampio spazio alla parte più anti-operaia dei fascisti di Salò, in un crescendo di violenza nella cosiddetta guerra civile. Sono questi i mesi nei quali la reazione nazista si traduce in primo luogo nella deportazione operaia. Non certo un caso isolato, quanto, piuttosto, l’anello di una strategia che viene applicata a tutto il Nord Italia tra la primavera e l’inizio dell’estate del 1944. Pesarono in questa lunga tragedia del Paese le vicende della guerra; siamo in un momento nel quale il Comando tedesco mette in conto la necessità di dover abbandonare gran parte del territorio italiano e si prepara a rastrellare ogni possibile risorsa. E le risorse più preziose erano due: i macchinari del sistema industriale e gli operai. L’avanzata Alleata, invece, come sappiamo si fermò quando il baricentro delle operazioni si spostò in Normandia e lo sfruttamento dell’Italia ricominciò sui presupposti che erano stati stabiliti nel 1943. In effetti in estate le deportazioni cominciarono a diminuire sensibilmente, ma nella classe operaia ligure rimase ben impressa la sperimentazione di un modello di pianificazione di una possibile (e radicale) deportazione operaia. La brutalità della reazione consente con facilità all’antifascismo di indicare nel tedesco, e nei collaborazionisti, il nemico per eccellenza, capace di unificare il nemico di classe e l’invasore, la lotta patriottica e quella di classe. Il fronte antifascista si compatta anche per il ruolo oggettivo che svolgono gli occupanti tedeschi, che facilita lo schieramento degli operai nel vasto fronte di liberazione del Paese. Naturalmente, il nemico di classe tradizionale (gli industriali) non scompare. Il loro comportamento è stato definito di attendismo interessato, di opportunismo. Ma la situazione li metteva in una oggettiva condizione di ambiguità: da una parte collaborare con i tedeschi per non perdere le commesse che sole assicuravano la vita delle fabbriche e il loro mancato smantellamento, dall’altro non cadere nel collaborazionismo tenendo a mente le esigenze dell’antifascismo. Le minacce dei fascisti e le pressioni degli antifascisti li mettono in una situazione nella quale non mancheranno comportamenti di comodo, ma progressivamente li costringerà a guardare al dopo, a ricercare l’accordo con gli operai come sola garanzia di salvaguardia degli impianti. Certamente emerge una differenza importante con il protagonismo operaio su un nodo decisivo: quello della libertà. Gli industriali, peraltro in gran parte già compromessi con il regime fascista e quindi altamente delegittimati nel dopoguerra che inizia a intravedersi, possono rispondere alle atrocità della guerra con una fuga nel privato e un atteggiamento attendista. Come molte altre componenti della società italiana, essi preferiscono aspettare in una situazione di ambiguità, sperando che l’evoluzione militare della guerra li liberi dal fascismo. E’ un comportamento che vediamo riprodotto in gran parte dei ceti medi, e che gli storici hanno chiamato la “zona grigia”. Per gli operai questo è impossibile. La condizione di costrizione per loro connaturata al lavoro industriale anche in condizioni normali; nella guerra che volge al peggio questa condizione assume forme insopportabili, perché la costrizione diventa onnipresente: nella fabbrica perché lo sfruttamento maggiore, fuori dalla fabbrica perché le città sono bombardate e mal rifornite. Per la classe operaia la fuga nel privato è quindi impossibile, così come è impossibile la dimensione individuale. L’azione generale del mondo operaio trasforma immediatamente le singole rivendicazioni sindacali nell’azione politica espressione dell’unico soggetto sociale che durante la guerra può ribaltare gli equilibri di potere. L’azione collettiva del 1943-45 conferirà ai lavoratori una legittimità che nell’Italia democratica mancherà a tutti gli altri soggetti sociali. Torniamo un attimo alla repressione tedesca. In un tragico paradosso proprio la reazione così feroce degli occupanti dà conto meglio di tante altre cose dell’enormità dell’avvenimento. La brutalità tedesca si scatena perché c’è la piena coscienza di essere di fronte a una Resistenza di massa pericolosissima, la quale che incrociare e saldarsi con la resistenza militare. Le misure eccezionali sono direttamente proporzionali all’eccezionalità degli scioperi e alla loro pericolosità che i tedeschi intercettano subito. Anche ai fascisti la situazione appare subito in una luce di eccezionale gravità non è un caso che i primi a riconoscere negli scioperi del 1944 un fattore di enorme destabilizzazione per la Repubblica sociale di Salò sono i prefetti repubblichini e i sindacalisti fascisti. I primi si rendono immediatamente conto, e lo esprimono senza riserve a Mussolini, che gli scioperi hanno una carica antifascista ben più radicata delle motivazioni economiche che si manifestano. La classe operaia, ormai sorda agli appelli ufficiali, è su un terreno di opposizione non più conquistabile. L’unico mezzo per affrontarla è la brutale repressione, e le autorità di Salò non faranno mancare ai tedeschi il loro convinto e tenace appoggio in tutti i provvedimenti di repressione. Anche i sindacalisti capiscono immediatamente il senso degli avvenimenti e non mancano di sottolineare come la socializzazione repubblichina e gli appelli ad un mitologico “fascismo delle origini” siano parole vuote di fronte ad operai che non prestano più la ben che minima attenzione a una propaganda vuota e incapace di illudere. Anche le reazioni degli Alleati sono una spia importante del valore degli scioperi del 1944. Nel comunicato di Radio Londra del 9 marzo, anche al netto di una certa retorica comunque presente in un mezzo di comunicazione che svolge anche propaganda antinazista, si avverte la sorpresa per le dimensioni degli avvenimenti. Ancor più evidente tale sorpresa appare nell’articolo uscito, sempre nella stessa data, sul New York Times: si sottolinea come il popolo italiano stia dando una coraggiosa prova di riscatto proprio in virtù del sottinteso che da quel momento in poi nessuno può più derubricare la Resistenza italiana a fenomeno minoritario. Le componenti politiche a più stretto contatto con il mondo delle fabbriche, soprattutto i comunisti, moltiplicano nel 1944 gli strumenti per interpretare le esigenze operaie, ma anche le occasioni confronto sui reciproci progetti e le reciproche attese. Nell’Italia occupata, del resto, non sono molti i luoghi in cui si possono elaborare delle alternative politiche al fascismo. Certamente vi sono i luoghi della lotta armata, ma vanno annoverate anche le fabbriche, dove mentre si difendono gli interessi immediati si impara a guardare a un orizzonte più vasto. La fabbrica – che si apre così ad una visione generale grazie all’azione dei militanti dei partiti antifascisti – diviene un luogo nodale dell’elaborazione e della riflessione politica di massa, mantenendo un peso specifico anche negli anni del dopoguerra. Da questa elaborazione nasce una delle esperienze più significative della rappresentanza operaia: i Consigli di gestione, dai quali ha origine l’azione per salvaguardare, sul finire della guerra, gli impianti industriali italiani necessari alla ricostruzione del Paese. Un’esperienza, quest’ultima, nella quale gli operai dispiegano, mettendola a valore, tutta la consapevolezza – acquisita in quegli anni – del fatto di essere un soggetto sociale portatore di un interesse generale e nazionale.
5.Gli scioperi del ‘43’/45, la Resistenza operaia e la Repubblica fondata sul lavoro
Il protagonismo operaio del 1943-45 ci dà conto di fenomeni importanti: in primo luogo il carattere popolare della Resistenza italiana che la rendono un fenomeno molto originale rispetto a tutti i Paesi occupati dalla Germania nazista. La Resistenza italiana è, da questo punto di vista, un fenomeno estremamente complesso. Se ci limitiamo a una lettura della Resistenza come mera resistenza armata, allora la sua consistenza numerica sembra contenuta e i suoi effetti sugli avvenimenti bellici del 1943-1945 limitati e tutto sommato non decisivi. Del resto, è proprio questa una delle critiche che rivolte al grande movimento di liberazione dal nazifascismo da parte dei tanti che a lungo hanno, inutilmente, cercato di sminuirne l’importanza fondamentale. La premessa è chiaramente sbagliata: innanzitutto perché la Resistenza italiana fu un fenomeno molto più complesso, costituendo la sua dimensione militare solo la eroica punta di un iceberg molto più esteso. La Resistenza italiana fu infatti anche la scelta dei militari italiani di non far parte dell’esercito di Salò, anche a rischio di pagare tale scelta con la deportazione in Germania (con tutti i rischi che questa comportava). Fu anche la decisione, assunta da moltissime comunità e territori, di fungere da supporto logistico alla Resistenza militare, esponendosi alla reazione dei tedeschi e dei repubblichini che arrivò puntuale e brutale con deportazioni, fucilazioni, stragi. Fu anche la scelta morale ed etica di tante donne e uomini che decisero di esprimere con i gesti più diversi il loro dissenso in un contesto totalitario, dove ogni forma di dissenso era vietata e repressa. La Resistenza italiana fu anche l’espressione di innumerevoli atti di pietà nel nascondere partigiani, ebrei o soldati alleati mettendo a rischio la propria vita. E la Resistenza italiana fu il poderoso movimento di protesta di un grande soggetto collettivo: la classe operaia settentrionale. E’ questo carattere popolare che eviterà all’Italia lo stesso destino del Giappone, a cui gli americani imporranno la carta costituzionale, o del caso tedesco, dove si assisterà alla fine della sovranità nazionale e dell’unità del Paese. La Resistenza consentirà infatti all’Italia di dare vita ad un‘Assemblea costituente e poter darsi autonomamente una nuova Carta fondamentale, fondativa del patto nazionale in ragione del lungo e ponderato confronto che ha luogo tra le varie anime politiche del paese, che rimane ad oggi il momento più alto della nostra storia unitaria. Ed è il protagonismo operaio, con il quale abbiamo visto si confronta tutto il fronte antifascista riconoscendolo come referente sociale privilegiato, la condizione che spinge i costituzionalisti a fondare la Repubblica sul lavoro, a immaginare la persona come titolare non solo dei diritti civili e politici ma anche sociali, a interpretare il lavoro come condizione necessaria per l’esercizio della cittadinanza. Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente, dopo la promulgazione della Costituzione volle commentarla rilevando innanzitutto il “riconoscimento” avuto dal lavoro: Il lettore della nuova Costituzione vede ricorrere in essa molte volte la parola ‘lavoro’, completamente ignorata dallo Statuto Albertino del 1848. Sta di fatto che, dopo decenni e decenni di lotte tenaci, pur attraverso la parentesi obbrobriosa del fascismo, i diritti del lavoro hanno avuto finalmente il loro riconoscimento decisivo, diventando materia costituzionale e cioè parte integrante della legge fondamentale della Repubblica. Assumere il lavoro a condizione imprescindibile della cittadinanza significa cercare di dare una risposta democratica più avanzata di quella liberale al difficile tema dell’equilibrio di due valori fondamentali: la libertà e l’uguaglianza, senza che il primo radichi delle differenze economiche e sociali intollerabili per la dignità della persona o che il secondo, in un’ansia livellatrice, mortifichi il merito, l’iniziativa individuale, l’autonomia del singolo. Un equilibrio avanzato, quello raggiunto in sede di Assemblea costituente, che chiedeva a ognuno di contribuire al benessere nazionale come dovere e disegnava per tutti il diritto a un lavoro giustamente retribuito, a prestazioni di assistenza, previdenza, malattia a carico della collettività, a un sistema di Welfare inclusivo e universalistico grazie all’azione della Repubblica volta a rimuovere gli ostacoli al soddisfacimento di quei diritti. Senza queste premesse sarebbe impossibile dar conto della base personalistica e solidaristica della Costituzione. Siamo ormai in un’epoca nella quale si è smarrito il profilo prescrittivo della Costituzione. In nome dell’unica ideologia rimasta, quella liberista, e dei processi di globalizzazione si è prodotto un quadro nuovo: il lavoro è stato frantumato, flessibilizzato, privato progressivamente dei diritti e delle protezioni di uno Stato sociale in via di smantellamento. I dogmi della produttività e della competitività hanno sostituito i valori della uguaglianza e della parità dei diritti, il controllo dell’economia sulla politica ha snaturato il controllo democratico: la centralità e l’onnipotenza dei mercati hanno sottomesso la sfera politica e contemporaneamente l’hanno deresponsabilizzata nelle scelte di sostegno alle pratiche liberiste nascondendola dietro gli imperativi del pareggio di bilancio, o dei parametri che vietano politiche espansive o di sostegno sociale. E in questa contorsione del rapporto tra lavoro e democrazia, evidente nei tentativi riusciti di svuotare il diritto del lavoro e in quelli più o meno scoperti di rivedere l’intero impianto costituzionale, noi vediamo riflessa la crisi epocale nella quale viviamo: lavoro e democrazia soffrono della stessa crisi, della stessa perdita di centralità nella nostra società. In questo l’eredità della Resistenza rischia davvero di scolorire. Certo, il cambio di paradigma tecnico e produttivo ha innescato una vera e propria rivoluzione economica, sociale e politica, la quale richiede innanzitutto un gigantesco sforzo analitico, finalizzato alla comprensione delle nuove forme della modernità e alla elaborazione di nuove risposte in termini di protezioni, diritti e garanzie rispetto a quelli tipici dell’epoca fordista. Ma il prezzo non può essere la perdita di quella democrazia personalistica e solidaristica sancita nella Costituzione.
Fondazione Giuseppe Di Vittorio (24 marzo 2023)
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(tratto dall’Associazione Labour: www.labour.it)
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