Relazione al convegno CNEL sugli 80 anni del Rapporto Beveridge, organizzato dalla Fondazione Bruno Buozzi.
Tra il 1881 e il 1889, per ispirazione dell’economista Adolph Wagner, Bismarck diede vita al primo sistema previdenziale moderno (assicurazione contro le malattie e contro gli infortuni, pensione di vecchiaia), che servì da modello per tutti gli altri paesi. Una quarantina d’anni più tardi, l’economista inglese Arthur Pigou (1920) fondava l’economia del benessere, mostrando che il benessere economico della collettività non dipende solo dal prodotto nazionale, ma anche dalla sua distribuzione tra gli individui. Pochi anni dopo, negli anni successivi alla Grande Crisi del ‘29, Roosevelt (1935) e Keynes (1936) – sulle due opposte sponde dell’Atlantico ma anche nei differenti ambiti della politica e dell’economia – convergevano nell’individuare la spesa sociale non solo come sollievo ai problemi di deprivazione economica e sociale, ma anche come motore della ripresa dalla crisi, formulando con nuovo convincimento l’obiettivo del pieno impiego in una situazione in cui le sole forze del mercato non si mostravano in grado di conseguirlo.
In questo clima intellettuale, e con lo sguardo volto alla riconversione dell’economia dall’assetto di guerra a quello di pace che, con la smobilitazione delle forze armate e delle attività produttive non più necessarie a sostenere i consumi bellici, avanzava lo spettro della disoccupazione, circa un decennio dopo vedono la luce i lavori fondamentali di William Beveridge: il suo Rapporto (Social Insurance and Allied Services, 1942) e il suo Piano (Full Employment in a Free Society, 1944). Strumenti di progettazione e programmazione di un nuovo assetto sociale ispirato all’economia del benessere di Pigou e alle idee di Keynes, volto a sostenere il popolo inglese nell’impegno del conflitto in corso e in quello della successiva ricostruzione, secondo un ampio disegno di previdenza sociale “dalla culla alla bara”, contro i cinque “mali giganti” (Giant Evils): miseria, malattia, ignoranza, impoverimento (Squalor) e, soprattutto, disoccupazione (Idleness).
Consegnato al Parlamento il 18 maggio 1944, Il Piano è la più vasta indagine mai elaborata sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno della pace, della piena occupazione (individuata in un tasso di disoccupazione al 3%). Il modello di welfare universalistico (sussidi per matrimonio e maternità; assegno per i figli; assistenza sanitaria universale; pensione e sussidio di invalidità; sussidio di disoccupazione; assegno per le vedove; pensione di vecchiaia; pensione di categoria; sussidio per funerale), proposto al Parlamento dal nuovo governo laburista (Attlee),
viene approvato in varie tappe a partire dal 1945.
In quegli stessi anni Frank Knight (1944) nota che il miglioramento dello stock di saperi produttivi di una società può neutralizzare la legge dei ritorni decrescenti. Se la fonte
di flussi attuali e futuri di prodotto e di reddito è il capitale, il capitale umano (che ne è una specifica articolazione) è lo stock di abilità (skills) e saperi produttivi incorporato negli individui; e gli investimenti in capitale umano (l’alfabetizzazione, l’istruzione e la formazione, ma anche altri aspetti dello sviluppo socio-economico, quali il miglioramento della salute, la maggiore longevità, il calo della mortalità infantile e l’aumento delle risorse destinate ai bambini) operano un miglioramento delle abilità produttive e delle possibilità di reddito delle persone, come anche dell’efficienza delle loro decisioni economiche.
Nel 1948, con la fine del fascismo, della guerra e della monarchia, la Repubblica italiana istituisce nella Costituzione un nesso inscindibile tra i due progetti di lunga lena che la caratterizzano: quello politico e quello sociale. Quel nesso pone un vincolo forte all’indirizzo della politica economica – un vincolo che non può non riflettersi anche sulla scelta del modello di sviluppo. Già l’articolo 1, elevando il lavoro a fondamento della Repubblica, e qualificandolo nell’articolo 4 come diritto-dovere (in parallelismo con il voto elettorale) e come fondamento ad un tempo della libertà e del benessere dei cittadini, muove nella direzione di un’affermazione – almeno implicita – della rilevanza primaria del pieno impiego come elemento portante della costituzione materiale. L’affermazione che la Repubblica “riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” sancisce l’affidamento all’intervento pubblico del compito di annullare con idonee politiche economiche e previdenziali eventuali equilibri economici di disoccupazione involontaria.
In questa stessa prospettiva la Costituzione intende tutelare sotto il profilo materiale l’uguaglianza e la libertà dei cittadini allorché proclama con l’articolo 3 che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Finalità di uno Stato sociale di carattere indubbiamente universalistico nonostante, l’esplicito riferimento al lavoro; importante enunciazione di quella libertà positiva, che poi Sen (forse influenzato da Colorni, Spinelli o Basso) svilupperà nei termini degli entitlements, delle capabilities, e dell’effettivo functioning, muovendo dai diritti formali per arrivare alle capacità, e quindi al godimento effettivo dei diritti stessi. Anche qui l’orizzonte universalistico della norma è comunque fondato sul lavoro e sui lavoratori, in quanto trova attuazione concreta nella partecipazione, attraverso il lavoro, all’organizzazione del Paese come, nell’ art. 46, a quella delle imprese.
Non mi soffermo sulle molte altre radici costituzionali dello stato sociale. Ma la prima parte della Carta costituzionale (in particolare i Titoli I-III, artt. 1-47) chiarisce bene come essa rappresenti un progetto di società e di stato sociale, non tanto in aggiunta o a cornice, quanto in consustanzialità con la dimensione fondamentale – economica, sociale e politica – del lavoro.
Purtroppo, nonostante il dettato costituzionale, nell’esperienza italiana l’obiettivo del pieno impiego non può ancora dirsi raggiunto in modo durevole. Se nel 1963, dopo la ricostruzione postbellica, il tasso di disoccupazione è al 4 per cento, negli anni successivi e fino al 1997 la disoccupazione cresce rapidamente fino all’11,4 per cento, per poi tornare al 6,2 per cento nel 2006 e risalire da allora sino a valori sopra le due cifre dal 2012 al 2019. Ma l’alta disoccupazione e il rallentamento dei tassi di crescita, seppure a livelli più contenuti, risultano però comuni a tutte le economie avanzate.
A fronte della stagflazione globale degli anni ’70, una politica monetaria restrittiva divenne lo strumento cardine per assicurare un tasso di crescita non inflazionistico. La scelta si basava sull’ipotesi che il tasso di interesse regolasse gli investimenti e questi ultimi regolassero la disoccupazione, che a sua volta regolava i salari e i consumi – e quindi l’inflazione –, secondo la relazione messa in luce da William Phillips nel 1958.
In una situazione inflazionistica, un aumento del tasso di interesse, rendendo alle imprese più difficile e costoso l’accesso al credito, avrebbe rallentato la crescita. Il rallentamento avrebbe alimentato la disoccupazione che, a sua volta, avrebbe contenuto la pressione della domanda delle famiglie frenando ulteriormente l’attività economica, i salari e, infine, i prezzi.
Per il nuovo credo neoliberista, il principale colpevole della stagflazione veniva quindi implicitamente individuato nell’obiettivo della piena occupazione perseguito dalle economie sviluppate nella Ricostruzione postbellica. Quell’obiettivo ostacolava il contenimento dei salari e della domanda necessario ad “accomodare” gli shock di prezzo dell’energia e delle materie prime. Alla piena occupazione veniva perciò sostituito l’assai più prudente NAIRU (non accelerating inflation rate of unemployment): il tasso di disoccupazione “naturale” o “di equilibrio”, abbastanza
elevato da impedire – nelle condizioni date per ciascuna economia – l’aumento dell’inflazione.
Ma la lotta alla stagflazione condotta attraverso l’utilizzo combinato di politiche monetarie restrittive e flessibilizzazione del mercato del lavoro otterrà risultati inferiori alle attese. Se nella seconda metà degli anni ’90, nell’insieme dei paesi Ocse l’inflazione sarà finalmente sotto controllo (intorno al 2 per cento), la disoccupazione scenderà sotto il 6 per cento soltanto un decennio dopo, poco prima della crisi finanziaria internazionale del 2008, che in tre anni la riporterà all’8,5 per cento. E la crescita economica, che tra il 1960 e il 1973 era stata in media del 5,1% l’anno, nel successivo periodo 1973-1997 si dimezzerà al 2,8 per cento l’anno senza riuscire più a riprendersi.
Ma se la combinazione di politiche monetarie restrittive, liberismo, compressione dello stato sociale e disoccupazione naturale ha frenato l’inflazione, non è però riuscita a far ripartire crescita e occupazione. E l’abbandono dell’obiettivo del pieno impiego in favore della disoccupazione di equilibrio e della flessibilizzazione del mercato del lavoro hanno portato le economie avanzate ad una situazione di stallo: non c’è crescita se non c’è pieno impiego, perché (come ben sapevano sia Keynes che Beveridge) tra pieno impiego e domanda interna al netto della spesa pubblica esiste un legame forte, che non può essere sostituito né dalla domanda globale né dalla finanza.
Il problema della rifondazione economica dello Stato sociale è perciò quello di riuscire ad avere di nuovo, in un’economia non di comando, una situazione di pieno impiego ma senza inflazione né stagnazione.
Se la piena occupazione è irrinunciabile, per poterla riguadagnare nelle nuove condizioni dell’economia globalizzata, il lavoro deve cambiare: deve diventare più qualificato, più produttivo e flessibile ai fini della continua riorganizzazione del sistema produttivo. Ma il paradigma della flessibilità si può declinare in direzioni diverse, secondo diversi possibili “equivalenti funzionali”, ognuno dei quali comporta costi e benefici specifici. Le dimensioni della flessibilità del lavoro sono molte: dei rapporti di lavoro; del tempo di lavoro; dell’organizzazione; del salario. Quest’ultima è la più difficile ma anche la più promettente.
La flessibilizzazione salariale richiede di perseguire una trasformazione sociale di grande portata; ma è anche quella che mostra di poter aprire nuove prospettive alla riorganizzazione dello stato sociale. Numerosi sono gli esempi di forme più o meno limitate di retribuzione flessibile, dalle grandi imprese giapponesi alle cooperative del centro Italia, ma l’unica trattazione complessiva di un sistema economico fondato sulla flessibilizzazione delle retribuzioni è contenuta nell’opera Full Employment Regained? (1995) di James Meade, l’economista inglese amico di Keynes e premio Nobel nel 1977.
Meade evidenzia che l’accettazione della flessibilizzazione della retribuzione da parte dei lavoratori comporta l’assunzione del rischio di impresa, e perciò stesso una profonda modifica del tradizionale rapporto di lavoro dipendente. Il lavoratore che accetta di commisurare la propria remunerazione all’andamento dell’impresa non può che diventare un socio, un partner che investe nell’impresa il proprio lavoro al pari di chi investe nell’impresa il proprio denaro. Ma, ai fini della protezione del reddito delle famiglie, l’abbandono del principio della garanzia di stabilità della retribuzione comporta che essa sia necessariamente integrata con altri redditi. La prima e più socialmente scontata forma di integrazione è quella con il reddito da capitale (le “azioni di lavoro” della stessa impresa dove il lavoratore è impiegato ora o è stato impiegato in precedenza).
Meade intende rafforzare il legame di complementarità tra la diffusione della proprietà azionaria e la sostenibilità sociale di un elevato grado di flessibilizzazione della retribuzione del lavoro, e quindi di “purezza semantica” del salario come segnale di mercato, utile ad orientare l’allocazione ottima dei fattori. Il grado di flessibilizzazione dei salari e di integrazione di questi con redditi da capitale (azioni di lavoro) offre la misura della necessità di programmi pubblici di sostegno del reddito e di protezione dell’occupazione: un lavoratore partner a salario flessibile non perderà mai il proprio posto di lavoro (a meno che l’impresa non sia costretta a chiudere), ma potrà scegliere se rimanere nell’impresa in cui si trova o cercare di cambiare lavoro quando la sua retribuzione o il valore delle sue azioni abbiano raggiunto un livello che non gli sembri più adeguato.
La garanzia proposta da Meade è data dalla progressiva integrazione di tutti i redditi attraverso il “dividendo sociale”: un reddito ricavato da una partecipazione pubblica fino a un massimo del 50 per cento al capitale di tutte le imprese (attraverso un processo che chiama di “nazionalizzazione alla rovescia”). Il reddito ricavato dallo Stato dalla sua partecipazione nelle imprese dovrebbe gradualmente trasformare il debito pubblico in credito pubblico, sostituire buona parte della tassazione, e soprattutto consentire a tutti i cittadini di godere in perpetuo di un reddito uguale per tutti e indipendente dal lavoro – frutto tangibile della cooperazione sociale tra Stato, imprenditori e lavoratori nella buona conduzione delle imprese e dell’economia.
L’indicazione prospetta una profonda trasformazione dei rapporti sociali ed economici, che ha il vantaggio di poter essere attuata gradualmente, senza scosse sociali né politiche, né economiche. Certo in molti paesi europei e anche in Italia esistono programmi assistenziali universalistici, che assicurano un reddito minimo a tutti i cittadini in condizioni di particolare disagio economico, indipendentemente dalla loro presente o passata condizione nel mercato del lavoro. Ma la concezione meadiana non parte da motivazioni di carattere assistenziale, bensì dalla volontà di evidenziare da un lato a tutti i cittadini i frutti della cooperazione sociale e, dall’altro, di depurare i salari da qualunque rischio inflazionistico come anche da qualunque funzione redistributiva.
Il dividendo sociale propone un nuovo modello comportamentale dell’operatore pubblico, mirato a rilanciare in termini innovativi il tradizionale ruolo keynesiano di sostegno alla crescita economica e occupazionale, in cui lo “stato azionista di minoranza” trasforma il rapporto tra realtà produttiva e stato sociale, oggi in crisi, per dare vita ad un sistema di protezione sociale che, anziché contrapporsi come
correttivo allo sviluppo della produzione e del reddito, è totalmente connaturale con esso. Di più: mentre la disponibilità per il sistema economico di un consistente credito pubblico non può non influire positivamente sul mercato dei capitali e sul livello del saggio di interesse (e quindi sulla facilità di creazione di nuove attività produttive), l’interconnessione esplicita tra partecipazione pubblica alla produzione e livello del dividendo sociale configura una nuova e più ricca concezione della cittadinanza e della solidarietà sociale.
È questo il futuro dello Stato sociale?
*Docente di Economia e politica del lavoro, Università degli Studi Roma Tre
Roma, 30 novembre 2022
(tratto da: Associazione Labour ‘R, Lombardi’, /www.labour.it/)
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