Gianni Lucini, … e ora pagateci i danni di Woodstok! Storie di musica, musicisti, mode, vizi ed emozioni assortite* di Diego Giachetti

 

Il 7 gennaio 1970, Max Yasgur, il proprietario della fattoria di Bethel che aveva ospitato la “tre giorni di pace, amore e musica” entrata nella storia come il Festival di Woodstock, viene citato in tribunale dai proprietari dei terreni confinanti che chiedono trentacinquemila dollari di risarcimento per i danni provocati alle loro proprietà dai cinquecentomila partecipanti. La causa si trascinerà per molto tempo senza approdare a nulla a causa della morte di Max Yasgur, l’8 febbraio 1973. Da questo evento ha origine il titolo del libro di Gianni Lucini, scrittore, giornalista, drammaturgo, sceneggiatore, nonché da poco direttore responsabile di Radio Poderosa di Torino.

Il libro raccoglie storie pubblicate sull’allora quotidiano Liberazione a cominciare dal 6 luglio 1999 per la rubrica “Rock & Martello Story” e proseguita, giorno dopo giorno per ben due anni e mezzo, per poi conquistare una pagina intera settimanale. Tutti articoli dedicati alla musica nei quali l’autore si “dilettava a collegare passato e presente, storia, racconti e novità”. Tutto era iniziato con una inaspettata telefonata di Sandro Curzi, allora direttore del quotidiano che, in sintonia con Rina Gagliardi decisero di varcare i rigidi confini della politica militante e dare spazio a storie di cantanti e di musica che traevano spunto dal giorno in cui venivano pubblicate. Qui sono raccolti 366 articoli, solo una parte di una produzione che computa migliaia di testi, secondo una processualità impossibile da fermare perché, scrive l’autore, la musica, come ogni attività umana, è un continuo rincorrersi di storie già svolte che, come le canzoni, “nascon da sole, sono come i sogni/ e a noi non resta che scriverle in fretta/ perché poi svaniscono/ e non si ricordano più”, come aveva intuito Vasco Rossi nel 1983 in Una canzone per te.

Sono storie nelle quali l’unico vero soggetto è la musica. Parlano di persone, di artisti, di strumenti, di generi, di mode, di epoche diversissime. È un grande atto d’amore per la musica, tutta la musica, non solo quella buona, ma anche quella “cattiva”, “leggera”, della cattiva coscienza come si disse. Perché essa è uno specchio dei tempi, porta segni depositati dai giorni e dagli eventi, filtrati dalla vita, e riesce ad esprimere o riportare alla luce il vissuto delle persone, ritesse percorsi esistenziali, suscita o rievoca sentimenti, emozioni, nel collegamento fra musica, testo e contesto.

Oggi è riconosciuto che i linguaggi musicali svolgono un ruolo significativo nei processi di costruzione sociale della realtà e dell’immaginario, individuale e collettivo. Fenomeno tanto più rilevante nelle società contemporanee nelle quali i mass media e le tecnologie della musica favoriscono attraversamenti sonori, nel tempo e nello spazio, contribuendo alla costruzione delle esperienze e delle memorie personali e collettive. Non è stato facile attraversare la barriera posta dalla distinzione tra cultura “alta” e popolare e di conseguenza, tra “buona” e “cattiva” musica, quella che Adorno intravvedeva nella trasformazione della musica in prodotto di consumo di massa, che costruiva una falsa coscienza, contrapposta a quella autentica della musica colta.

Come già osservava Antonio Gramsci nelle riflessioni sul folklore, ciò che distingue la musica popolare “nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita. In ciò e solo in ciò è da ricercare la ‘collettività’ del canto popolare, e del popolo stesso”. Non a caso essa ha mantenuto e mantiene intatta un forte elemento evocativo. Lo aveva già capito Marcel Proust quando affermava che non si deve disprezzare la cattiva musica “dal momento che la si suona e la si canta ben di più e ben più appassionatamente di quella buona. Il suo posto, nullo nella storia dell’Arte, è immenso nella storia sentimentale della società. Il rispetto per la cattiva musica è la coscienza dell’importanza del ruolo sociale della musica”.

L’autore sorvola queste considerazioni sulla musica pop e sui testi “leggeri”, perché si concentra nella dimostrazione che le ipotesi di Gramsci e Proust trovano riscontro nella descrizione di una realtà raccolta attraverso ben 366 indicatori empirici, tante sono le storie narrate che evocano contesti e atmosfere che vanno dagli anni Trenta fino a tempi recentissimi. Testi capaci di riconnettere i lettori con la propria stagione formativa della personalità, quella che lascia l’impronta più rilevante, senza far torto a nessuno e consentendo anche di comprendere il perché del formarsi di altre mentalità, culture e stili di vita. Ne consegue una lettura piacevole e a scelta, che non necessita del fastidioso scorrere cronologico della narrazione conseguenziale. Si può cominciare da qualsiasi pagina si voglia, sempre si troverà una storia compiuta che ci indirizza al bisogno di rievocare sonoramente il testo richiamato o la produzione di un cantante. Si può ricercare la propria storia appellandosi alla data di nascita o altre per noi emotivamente significative e ritrovare nella vita e nelle opere dei cantanti tanti eventi storici e di costume che hanno segnato la seconda metà del Novecento.

*pubblicato da: Segni e parole, Novara 2022, euro 15.00

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