Il libro di Renzo Penna ricostruisce una lunga e complessa storia del movimento sindacale del nostro paese, quella che va dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso.
È una storia intensa nella quale l’autore, con intelligenza e passione, ci parla delle lotte operaie della sua città, Alessandria, senza mai distogliere lo sguardo e l’attenzione dagli eventi importanti che hanno caratterizzato in quegli anni la vita politica, sociale, culturale del nostro paese e, in essa, del sindacato stesso (del mondo del lavoro).
In questa storia complessa gli anni ’60 del secolo scorso rappresentano una tappa di fondamentale importanza. È proprio da lì che muove il libro di Renzo Penna.
In quegli anni, infatti, maturano trasformazioni profonde nell’organizzazione del lavoro e nei processi produttivi. L’industria occupava la gran parte della forza lavoro e rappresentava il settore trainante dell’economia del paese.
Una crescita intensa, forse mai conosciuta in precedenza, che al tempo stesso produceva contraddizioni e conflitti. È in questo quadro che prende corpo un ciclo straordinario di lotte operaie che dalla fine degli anni ’60 si sviluppò per più di dieci anni e cambiò profondamente gli equilibri economici e sociali del nostro paese.
Non fu un’esplosione improvvisa. Già dai primi anni ’60, infatti, la vertenza degli elettromeccanici a Milano, le vertenze dell’Alfa, della Siemens segnarono l’avvio di un nuovo protagonismo operaio. Quel quadro, come mette bene in evidenza il libro di Renzo Penna, è ulteriormente arricchito dalle lotte per le pensioni e contro le gabbie salariali che verranno definitivamente superate nel 1975.
È in questo contesto, quindi, che prende corpo l’autunno caldo che costituisce un vero e proprio salto di qualità. Per due ragioni. In primo luogo per i contenuti di quelle lotte, che non investono più solo l’orario ed il salario ma, più in generale, l’intera organizzazione del lavoro “fordista”: i ritmi, il cottimo, la salute, l’egualitarismo, cioè la riduzione delle disuguaglianze retributive. Testimonianza di ciò fu proprio la piattaforma dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto del 1969. Lì vi erano le 40 ore settimanali, il diritto di assemblea, il riconoscimento del diritto, fra un contratto nazionale di categoria e l’altro, di aprire vertenze aziendali. In secondo luogo, prendono corpo nuove forme di democrazia e di rappresentanza: i consigli di fabbrica ove i delegati venivano eletti su scheda bianca e alla loro elezione partecipavano tutti i lavoratori, anche quelli non iscritti alle organizzazioni sindacali. Un’esperienza importante, che tra l’altro, contribuì a rafforzare la stessa unità sindacale con la costituzione della FLM, la federazione dei tre sindacati metalmeccanici di CGIL, CISL, UIL, e con il Patto di unità di azione tra le Confederazioni.
Anche Alessandria, la città dove inizia la sua esperienza sindacale l’autore del libro, vive intensamente quegli anni. Ad esempio, sulla riforma delle pensioni e nella lotta per il superamento delle gabbie salariali, la partecipazione degli operai delle fabbriche di quella città è molto ampia. Così è nella Ricci e nelle altre principali fabbriche di argenteria: Cesa, Guerci, Goretta. E così sarà, negli anni seguenti, per le aziende metalmeccaniche.
Quella straordinaria esperienza, grazie ai contenuti innovativi delle lotte e alle nuove forme della rappresentanza, si prolungherà per gran parte degli anni ‘70 e, come è documentato nel libro, incontrerà un nuovo soggetto: il movimento degli studenti. Un incontro che realizzò un secondo intreccio tra la spinta antiautoritaria del movimento studentesco del ‘68 e i contenuti delle lotte operaie del ‘69. e in quegli anni si strapparono altri risultati importanti come ad esempio le 150 ore da dedicare non solo e non tanto all’aggiornamento professionale ma allo studio e alla cultura generale.
Grazie a quelle importanti esperienze che animarono quegli anni, il nostro Paese conobbe una intensa fase di crescita democratica che produsse anche importanti riforme: lo Statuto dei lavoratori, il Servizio Sanitario Nazionale, il nuovo assetto delle pensioni, la nuova psichiatria che porta alla chiusura dei manicomi, la legislazione sull’aborto. Inoltre, quella spinta democratica investì molti aspetti della vita sociale con la nascita e la diffusione dei comitati di quartiere, con l’affermarsi delle comunità cristiane di base, con i collettivi femministi.
Alla fine degli anni ‘70 quella grande stagione democratica e di conquiste operaie rifluisce. A questo esito contribuiscono diversi fattori. In primo luogo la strategia della tensione, gli attacchi fascisti, la deriva del terrorismo. In secondo luogo, si apre, a partire dalle fabbriche, una fase del tutto diversa. La drammatica vicenda della FIAT nel 1980 rappresenta una prova generale e l’avvio di una pesante controffensiva padronale nei confronti di quanto i lavoratori erano riusciti a conquistare con le lotte degli anni ‘60/’70. Inoltre, a quelle lotte si rispose riorganizzando i cicli produttivi: la grande impresa si decentra, si esternalizzano parti del processo produttivo affidate a una rete diffusa di piccole e medie imprese con salari più bassi e diritti aleatori.
Sono questioni con cui ancora oggi siamo chiamati a fare i conti. E credo che libri come quello di Renzo Penna che intreccia la sua esperienza personale, prima come delegato poi come dirigente di primo piano della CGIL del Piemonte, con la storia delle lotte di un territorio e del Paese intero, siano davvero utili. È difficile, infatti, progettare il futuro senza ragionare sul passato. Oggi abbiamo un compito non semplice: ricostruire un protagonismo del mondo del lavoro. È un percorso lungo, irto di ostacoli ma irrinunciabile. Da tempo, infatti, il valore e il peso del lavoro nella società, nella politica e nella stessa percezione di chi lavora sono stati stravolti e indeboliti. Le pagine del libro di Renzo Penna ci dicono come negli anni ‘60/’70 del secolo scorso c’era una vicinanza di coloro che lavoravano e una omogeneità nelle condizioni di lavoro. Oggi non è così. La logica del sistema dell’appalto, del subappalto, delle gare al massimo ribasso, dei processi di esternalizzazione e di delocalizzazione ha spinto le imprese a organizzare un sistema produttivo e occupazionale fondato sul criterio della competizione al ribasso. Si è fatto credere che comprimendo diritti e tutele di potesse avere una ripresa della crescita e dello sviluppo. Questo non è successo e si è avuto invece un peggioramento delle condizioni di lavoro. Lavoro precario, part-time involontario, riduzione dei diritti hanno prodotto una condizione diffusa fatta di disagio e di esclusione. Sono processi che rischiano di produrre forme sistematiche di emarginazione. Fenomeni che colpiscono in particolare giovani e donne. Lo stesso utilizzo, oggi, dell’innovazione tecnologica, apre nuove contraddizioni e rischia di produrre divisioni tra chi detiene il sapere e svolge funzioni strategiche nelle imprese e chi è costretto a lavori precari ripetitivi e di scarsa qualità.
Per tutte queste ragioni c’è bisogno di un impegno straordinario teso a riunificare un mondo del lavoro frammentato e diviso. Per questo è importante, come lo fu negli anni ‘60-’70 difendere il contratto nazionale, ampliare la contrattazione aziendale, dare vita a forme di democrazia e rappresentanza capaci di raccogliere la complessità delle condizioni di lavoro e di unire ciò che oggi è diviso.
Inoltre, c’è bisogno di ripensare e rimodellare le politiche di sviluppo. Infatti, decenni di politiche liberiste hanno lasciato credere che il mercato, libero di agire, avrebbe portato crescita e benessere per tutti. Invece proprio l’attuale modello di crescita ha portato ad un approfondimento delle disuguaglianze tra le persone e alla rottura degli equilibri e dei rapporti con la natura.
Per questo diventa oggi assai concreta e urgente la battaglia e l’iniziativa per affermare un nuovo modello di sviluppo orientato verso la qualità delle produzioni, la rivalutazione dei beni comuni e pubblici, la qualità sociale, la conoscenza e la cultura. Esiste una grande domanda inevasa su cui declinare nuove politiche di sviluppo: risanamento del territorio e delle aree urbane, mobilità collettiva, fonti di energia rinnovabili, salute e istruzione, economia circolare e manutenzione programmata. Tutto ciò significa porre la stessa industria al servizio di uno sviluppo equilibrato e sostenibile sul piano sociale e ambientale. Una nuova qualità dello sviluppo vuole dire valorizzare il lavoro, riconoscere spazi di autonomia, di libertà, di autorealizzazione. E ciò significa investire sulla intelligenza delle lavoratrici e dei lavoratori, sulla formazione permanente quale diritto soggettivo. Il mondo del lavoro, infatti, deve essere protagonista del cambiamento, deve poter avere voce sulla natura degli investimenti e sugli indirizzi dell’impresa. Centralità del lavoro, quindi, non solo nell’azione sindacale ma nella cultura politica del Paese e, più in generale, nella cultura del Paese.
Dal libro di Renzo Penna emerge con chiarezza che le fasi più intense e innovative delle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici hanno coinciso con un esplicito impegno unitario del sindacato. Oggi, se si vuole dare maggiore forza alla battaglia per la riunificazione del mondo del lavoro, per una nuova qualità dello sviluppo è importante avviare una fase nuova di un sindacato unitario, plurale, democratico.
Anche per queste ragioni, abbiamo bisogno di non dimenticare la nostra storia. Da essa, infatti, dobbiamo trovare il nutrimento e le ragioni di un rinnovato impegno per dare nuova centralità e qualità al lavoro e per cambiare la società.
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