Cominciando il suo saggio definitivo su Giacomo Debenedetti, Mario Lavagetto si chiedeva se il galateo della critica di cui aveva parlato il suo maestro sarebbe stato infranto fornendo al lettore una indicazione di itinerario ancora prima di compiere il primo passo. Avrebbe corso il rischio, diceva, e se ne sarebbe assunto la piena responsabilità. Non diversamente, tentando anzitempo e con grande dolore di ricordare il mio maestro Lavagetto a pochissime ore dalla sua scomparsa, correrò anche io il rischio di cadere a ogni passo in quella che Debenedetti a proposito di Marcel Proust, autore con il quale lo stesso Lavagetto si è misurato per tutta la vita, chiamava «una specie di agiografia, di vita di uno strano ed eterodosso Santo Padre»[1]. Mi assumo la responsabilità di dire che un vero maestro (parola dalla quale Lavagetto rifuggiva) è sempre almeno in parte un «Santo Padre» e che nelle pieghe dell’eterodossia del mio maestro si può far gettare uno sguardo a chi non l’ha vissuta solo attraverso degli aneddoti, antidoto naturale che lo stesso Lavagetto usava contro ogni eccesso di costruzione interpretativa, per poi trasformarlo in potentissima chiave di accesso alle stanze segrete, casseforti e officine nascoste degli autori di cui scriveva.
Allora il mio racconto, come quello che Lavagetto fa di Debenedetti alle prese con Proust, inscenerà per qualche istante «un [allievo] che si imbatte nel suo [maestro] quando ancora è giovanissimo e lo segue passo passo, lo interroga, torna indietro, riformula le stesse domande, tenta risposte differenziate, a volte si contraddice, poi rettifica la contraddizione e di lì riparte per chiarire insieme al destino [del maestro] anche il riflesso che da quel destino si proietta […] sulla sua vicenda»[2]. I nostri destini si sono incrociati più o meno trent’anni fa, nel novembre del 1990, in un’aula del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, al primo piano di via Zamboni 32, dove ero entrato per assistere alla prima lezione di un corso intitolato «Un’ipotesi di teoria freudiana della letteratura», la cui bibliografia assomigliava a una montagna incantata di libri (14 saggi di Freud più Amleto, Edipo Re, Delitto e castigo e altri), e sono rimasto folgorato alla vista di questo signore vestito come un «gentiluomo di campagna» (anni dopo, nella sua tenuta di Cafragna, alle pendici dell’Appennino Tosco-Emiliano, scoprii che amava definirsi così), blazer di tweed marrone ruggine, camicia Oxford azzurro polvere, pantaloni di velluto a coste verde oliva, la sigaretta in mano, che con voce rauca e sottile rotacismo raccontava come la psicoanalisi, in particolare nozioni stratificate quali sogno, lapsus, witz e la relazione complessa tra racconti dei pazienti e (ri)costruzioni degli analisti, potessero comporre una formidabile sinopia per l’analisi dei testi letterari, ripercorrendo con gli studenti il lavoro che lo aveva portato pochi anni prima alla stesura dell’insuperato Freud, la letteratura e altro (Einaudi, 1985).
Potete immaginare l’esaltazione della mente affamata ed eccitabile di quel diciannovenne nell’avere trovato, prima ancora di essere consapevole di averlo cercato, un maestro che lo avrebbe iniziato ai segreti della letteratura permettendogli di indossare i panni di Sherlock Holmes e insegnandogli un metodo che trasformava l’inerte e polveroso critico letterario in un instancabile cacciatore di indizi, un risolutore di enigmi, un essere al quale una sorta di seconda vista può rendere trasparenti le verità più intime dei testi. Potete immaginare l’inconsapevolezza spavalda con cui quel diciannovenne per anni, del maestro che senza volerlo cominciava a farsi padre, vedeva sempre più nitidamente l’acume meticoloso del teorico e del critico letterario e allo stesso tempo l’intelligenza rabdomantica del detective dell’anima che si sovrapponevano in una nèkyia del tutto simile a quelle per mezzo delle quali i suoi amati Freud e Proust si erano avventurati agli inferi della psiche. Lì, in quell’aula, trent’anni fa, quel diciannovenne (e altri insieme a lui) ha cominciato a seguire passo passo il maestro, a interrogarlo, a farsi le stesse domande che il maestro faceva a se stesso e al suo lavoro, tornando negli anni tante volte indietro a riformulare le stesse domande, tentando risposte diverse da quelle del maestro, a volte contraddicendosi, poi rettificando quelle contraddizioni e ogni volta ripartendo proprio da quelle contraddizioni per chiarire insieme alle ragioni e al destino del maestro anche le sue ragioni e il suo destino.
Le ragioni di Lavagetto sono state e sono, prima che in qualsiasi dichiarazione programmatica o ambizione di sistema, nell’attitudine eterodossa di non smettere mai di farsi domande e di interrogare gli autori e le loro opere (Saba, Svevo, Verdi, Freud, Proust, Balzac, Stendhal, De Roberto, Calvino, Boccaccio e innumerevoli altri) senza la presunzione di imprigionare il processo ermeneutico in una figura chiusa, senza pretendere di dire l’ultima parola sui testi, avendo il coraggio di lasciare interrotti i sentieri dell’analisi in pegno di future nuove indagini (si pensi a Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust e La macchina dell’errore. Storia di una lettura, pubblicati da Einaudi nel 1991 e nel 1996) o di aprirli a prospettive vertiginose che attraversano geografie e cronologie sterminate (si pensi a La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Einaudi, 1992), passando al calor bianco delle teorie più recenti linguaggi avviluppati in tradizioni stratificatissime (si pensi a Quei più modesti romanzi: il libretto nel melodramma di Verdi, Garzanti, 1979; poi EDT, 2003), rivendicando a ogni passo i principi freudiani del «lavorare con piccoli indizi» (che dà peraltro il titolo a una preziosa raccolta di saggi pubblicata da Lavagetto con Bollati Boringhieri nel 2003) e dell’interminabilità dell’analisi, presidiati sempre dall’altrettanto freudiana «attenzione fluttuante», un’attitudine ad attendere, auscultare, seguire e registrare con pazienza e scrupolo le intermittenze del senso che si annidano dietro le strutture volontarie e involontarie della scrittura. Un’attenzione instancabilmente esercitata fino al cristallino ultimo saggio Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron (Einaudi, 2019).
Le ragioni di Lavagetto hanno preso anche la forma della sua eterodossia accademica, che lo ha tenuto lontano da ogni incarico istituzionale che andasse oltre la sostanza più autentica del «destino» di un professore: ricerca e insegnamento. Ogni minuto della sua vita è stato dedicato con una coerenza quasi infallibile a questo doppio impegno, lasciando spazio, come unico esercizio autenticamente politico all’interno della vanitosa e petulante agorà accademica italiana, a una maieutica rigorosa e allo stesso tempo sempre curiosa e pronta all’ascolto nei riguardi di numerose generazioni di studenti. Un esercizio dal quale ha avuto origine direttamente o indirettamente una parte consistente dell’attuale generazione di teorici della letteratura e comparatisti italiani. Per nostra fortuna la passione per la ricerca di Lavagetto è sopravvissuta alla fine dell’insegnamento attivo e ci ha regalato il suo saggio definitivo su Proust, Quel Marcel! (Einaudi, 2011), una delle cui epigrafi, desunta da Michel Foucault, ci ricorda che «uno scrittore non realizza semplicemente la sua opera nei libri che pubblica e che la sua opera principale in definitiva è lui stesso che scrive i suoi libri»[3]. Ci ricorda dunque che l’opera di Lavagetto, al di qua e al di là dei preziosissimi libri che ha pubblicato, è anche, forse soprattutto per chi lo può ricordare personalmente, lui stesso che dialoga con la sua famiglia, con i suoi amici e con i suoi allievi mentre immagina e cesella i suoi saggi, che proprio per questo hanno e avranno sempre il respiro della vita di chi li ha scritti.
[1] G. Debenedetti, «Significato della biografia», in Id., Proust, progetto editoriale e saggio introduttivo di M. Lavagetto, testi e note a cura di V. Pietrantonio, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 247.
[2] M. Lavagetto, «Dai boschi di Champoluc», Ivi, pp. IX-X.
[3] M. Lavagetto, Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust, Einaudi, Torino, 2011, p. 1. La citazione è tratta da M. Foucault, «Archéologie d’une passion» (1983), in Id.,Dit et écrits 1954-1988, Paris, Quarto Gallimard, vol. II, p. 1426.
(apparso sul sito: leparoleelecose.it)
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