La statua di Indro Montanelli è lì, ripulita dalla vernice e dalla scritta “razzista stupratore”, un telo di cellophane tutt’intorno e del guano sopra. Un buon compromesso da cui partire per abbozzare un ragionamento che superi le pose da bodybuilders degli intellettuali in scena da settimane. Da una parte, quelli di destra, per lo più nipotini spuntati dalla manica di Montanelli, forti di quel tanto al chilo di tirocinio nei giornali “quando c’era lui” a dirigerli, il giusto per dire “sono della scuola di Montanelli”, posizionarsi, e vivere di rendita; dall’altra, quelli di sinistra, incapaci di qualsiasi tipo di azione incisiva contro, uno a caso, il Decreto Sicurezza ancora in vigore. Tutti parimenti iperproiettivi, accaloratissimi, famelici intorno a una statua. Deve stare lì dove sta, scandiscono con tono fintamente blasé i cosiddetti liberal. Va abbattuta, dicono gli altri. E come biasimarli. Mentre si trovava in Etiopia in veste di militare e colonizzatore fascista, Montanelli ha stuprato una bambina eritrea dodicenne venduta dalla famiglia, sposandola secondo la pratica del “madamato” che permetteva ai cittadini italiani nelle colonie di accompagnarsi temporaneamente con donne native, facendo attenzione affinché dall’unione non ne nascesse un figlio. (Solo con la promulgazione delle leggi razziali e del RdL n. 880 del 19 aprile 1937, con le “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi in virtù della protezione della razza italiana”, il fenomeno del madamato si arrestò). Il modo in cui Montanelli parlava di Destà, non su un bollettino fascista nel 1930, ma sul Corriere della sera nel 2000, solo vent’anni fa, è semplicemente aberrante:
Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile.
Questo però già si sapeva, non sono stati i manifestanti americani a dircelo. Si sapeva perché era stato lui stesso a parlarne, cambiando versione più volte. La propensione alla menzogna di Montanelli era quasi patologica, da sola basterebbe a impedire ogni onorificenza che attenga alla professione di giornalista e storico. Alla verifica dei fatti, Montanelli ha mentito quando disse che conobbe e intervistò più volte il maresciallo Mannerheim, le sue corrispondenze “dal fronte” finlandese sarebbero state scritte comodamente da una camera d’albergo; inventato l’incontro con Francisco Franco, di fantasia l’intervista a Hitler. Secondo le ricerche, mentì anche quando disse di essere stato condannato a morte dai tedeschi e di essersi salvato rocambolescamente, e mentì quando sostenne di essere stato a piazzale Loreto con Mussolini e Petacci lì appesi e vilipesi. Chiamato in tribunale a testimoniare sul caso Pinelli, dichiarò candidamente di avere in parte inventato, in parte “frainteso”, in parte espresso la “propria opinione”. L’elenco potrebbe continuare, ma tanto basta per togliere Montanelli dal Pantheon, smettere di tributargli onori, a meno di intendere il giornalismo alla stregua della facezia aneddotica, e riservarsi il ragionevole dubbio che il rapporto consumato con Destà (talvolta chiamata Fatima nelle interviste) potrebbe essere un’invenzione dettata da sprezzante machismo.
Perché si è deciso di soprassedere sulle nefandezze private di Montanelli e di ergergli comunque una statua? Lo spazio privato è sempre anche spazio politico? Quale era l’etica del lavoro quando è stata eretta la statua? Quale adesso? Dove il discrimine tra vita privata e vita pubblica? A quali requisiti morali deve rispondere un giornalista? Come riconoscere le vischiosità di cui il razzismo strutturale ha permeato la società italiana? Perché fino a due settimane fa era normale darsi appuntamento ai giardini Montanelli e portarci a giocare i bambini, magari della stessa età di Destà?
E ancora, perché a parlare di razzismo nelle redazioni e nelle televisioni quasi mai sono i diretti interessati, quelli che lo subiscono? Come fermare la solita vecchia storia dell’old boy network, il circolo dei vecchi amici che scelgono persone solo dentro la propria cerchia, senza mai gettare lo sguardo oltre la siepe, nemmeno quando si discute di temi che richiederebbero esperienza, oltre che studio? D’altra parte, perché mai uno straniero in Italia dovrebbe automaticamente avere a cuore la questione del razzismo? Nel salottiero mondo dell’informazione e dell’editoria italiana, gli stranieri, quelli “scomodi”, mica gli svedesi, sono pochissimi. Quando ci sono, valgono alla stregua di una quota rosa, merce quantitativa, non qualitativa. Di africani, pochissimi. E guai se qualcuno di loro non rispondesse alle aspettative e fosse, per esempio, di destra, o anche solo keynesiano. Condizione sine qua non per far parte dell’intellighenzia è che l’immigrato (il gambiano, l’albanese, il senegalese, etc.) parli e scriva di immigrazione e poco più. Sfugge il nome perché sfugge la storia di questo strano meccanismo di predestinazione, in mancanza di una grammatica lo chiameremo stereotipizzazione ghettizzante.
Che sia stata eretta una statua da contemporanei a un contemporaneo, di cui fatti e misfatti erano ben noti, è, e rimane, un fatto imbarazzante. E tuttavia l’azione di buttare giù la statua sostituendola tout court con un’altra significherebbe ripetere il tratto più tipico del capitalismo, quel processo di nascondimento e rescissione del tracciato storico cui il capitalismo mira da sempre. Significherebbe, ancora una volta, toccare con mano l’incapacità di pensare storicamente nell’era tardocapitalista e di avanzare un tentativo di ricomporre una “totalità” nel caleidoscopio postmodernista, pur sapendo che la storia non costituisce nessun monolite lineare e teleologicamente orientato di hegeliana memoria. Si è così a digiuno dal pensare storicamente da temere di cadere nella fallacia, o peggio, nell’indulgenza verso il passato. Storicizzare è un metodo, non una giustificazione, un metodo rigoroso, da adottare con atteggiamento distonico e scevro da ogni tipo di simpatia, per dotarsi di una mappatura cognitiva (come auspicato da Jameson) che consenta “una rappresentazione situazionale da parte dell’individuo esposto a quella immensa totalità, propriamente irrappresentabile” altrimenti ad appannaggio del capitalismo stesso. Una delle migliori traduzioni del Mein Kampf di Hitler è a cura di Giorgio Galli, responsabile di una dovizia di particolari e approfondimenti ancora oggi insuperati in Italia. Dunque, quale sarebbe lo scandalo nello storicizzare un tale minore come Indro Montanelli?
Sia che l’amministrazione di Milano accetti di rimuoverla, sia che decida di lasciarla lì, così com’è, con il guano sopra, tutto questo dibattito non sarà stato vano. Il genitore che prima portava beatamente il figlio ai giardini Montanelli, d’ora in poi, quando ripasserà di lì, magari sentirà l’esigenza di parlare di cose di cui non parlava mai, come il colonialismo italiano. Se è vero che un monumento, come afferma un celebre passaggio delle Tesi sul concetto di storia, VII, di Benjamin, “non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie”, è altrettanto vero che, come ricorda Griswold, il senso degli oggetti culturali risiede “nel rapporto tra le capacità simboliche dell’oggetto in sé e l’apparato percettivo di coloro che esperiscono quell’oggetto” e che tale rapporto si stratifica inevitabilmente. Un’ottima stratificazione sarebbe corredare la statua di Montanelli, nel caso rimanga, di un percorso storico, oppure, nel caso in cui venga rimossa, occupare il vuoto lasciato con qualcosa che si aggiunga a ciò che c’era prima, che lo approfondisca anziché cancellarlo. Insomma, alla pars destruens, sarebbe bello che seguisse una pars construens. Certo la pars destruens, appena nata, è ai suoi primi vagiti. Occorre aspettare ancora un po’, forse.
Bibliografia essenziale:
Claudia Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2004.
Francesco Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Torino, Bollati Boringhieri, 2006.
(pubblicato nel sito della Fondazione per la critica sociale, 21 giungo 2020)
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