C’è stato un tempo, a far data dagli anni ’80, nel quale chi seguiva, o continuava ad interessarsi ai problemi dei lavoratori, degli operai, veniva considerato, anche nel centrosinistra, alla stregua di uno studioso del ‘giurassico’. Un giudizio al quale, va riconosciuto, non mancavano i presupposti. Negli anni ’90, infatti, vi è stato chi, Jeremy Rifkin, ha teorizzato “la fine del lavoro” e la sostituzione, attraverso l’informatica e i robot, dei vecchi mestieri e dei lavori manuali più faticosi. In precedenza, già negli anni ’70, era entrata, progressivamente, in crisi la fabbrica ‘fordista’ e il modello di produzione ‘tayloristico’, con migliaia di operai impegnati nello stesso luogo, in mansioni ripetitive e alienanti, alla realizzazione in serie di prodotti e beni di massa.
Una crisi e un cambiamento che, però, ha riguardato i Paesi maggiormente sviluppati dell’Occidente, mentre, ad iniziare dagli anni ’90 del secolo scorso, con l’affermarsi della globalizzazione, numerose lavorazioni, considerate a minor valore aggiunto, sono state semplicemente trasferite in zone dove il costo e le condizioni del lavoro: bassi salari, assenza di diritti e di norme a tutela della sicurezza, della salute e dell’ambiente, permettevano alle imprese, in carenza di conflitti sociali, di massimizzare i profitti.
Un fenomeno che ha determinato pesanti conseguenze nei confronti dei lavoratori degli Stati dell’Occidente – Europa e Stati Uniti – in termini di aumento della disoccupazione, soprattutto, giovanile, di differenze salariali cresciute in maniera esponenziale tra dipendenti e manager della stessa azienda, attraverso la precarizzazione di interi comparti considerati marginali e l’utilizzo in agricoltura di lavoratori stranieri, sovente irregolari, nelle raccolte stagionali dei prodotti o nella cura degli animali. Una situazione favorita, negli ultimi decenni, dalla generale marginalizzazione culturale e politica del lavoro e del suo valore.
Nell’Unione Europea, ad aggravare il quadro sociale, hanno provveduto le politiche di ‘austerity’, innescate dalla crisi finanziaria del 2007, scoppiata negli Stati Uniti a causa dei mutui ‘subprime’ e della ‘bolla’ immobiliare. Misure consistenti in tagli e riduzione della spesa pubblica che hanno interessato e colpito l’economia dei paesi con una struttura più fragile e un maggiore debito pubblico: i cosiddetti ‘Piigs’, lo spregevole acronimo con il quale gli euroburocrati di Bruxelles hanno chiamato le nazioni di ‘Portogallo’, Italia’, ‘Irlanda’, ‘Grecia’ e ‘Spagna’. Provvedimenti che avrebbero dovuto, attraverso la restrizione dei consumi e l’eliminazione degli sprechi, la ‘spending review’, ottenere il risanamento economico e permettere di superare la crisi, ma che, al contrario, hanno causato maggiori disuguaglianze, l’aumento delle povertà, la drastica riduzione dello Stato Sociale, in particolare, sanità e pensioni, senza ottenere alcun abbassamento del deficit di bilancio. L’austerità ha finito così con il lasciare, in generale, i servizi pubblici dell’Europa del tutto impreparati dinanzi alla nuova emergenza.
La globalizzazione non ha riguardato soltanto la produzione di merci, ma anche quella delle idee. Le figure professionali ad alta qualificazione, ma a basso salario presenti in alcuni paesi in via di sviluppo, come l’India, hanno spinto molti colossi della produzione ‘hi-tech’ a ‘delocalizzare’ i laboratori di ricerca e sviluppo. Nel nostro Paese i tagli all’Università e alla Ricerca hanno costretto molti giovani a lasciare l’Italia e a mettere a frutto il loro ingegno nei migliori centri di ricerca e di scienza europei (Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia), degli Stati Uniti e della Cina.
Un esodo, una ‘fuga dei cervelli’ preoccupante nelle dimensioni e per le ricadute sull’impoverimento delle competenze e della possibilità di sviluppo del Paese nei settori strategici della ricerca e dell’innovazione.
In questo contesto, pieno di contraddizioni, ma considerato utile e immodificabile dal sistema finanziario che, per dirla con Luciano Gallino, domina la nostra “civiltà-mondo”[1], all’inizio del nuovo anno si è palesato il virus: il pandemico Covit-19. Da allora molteplici aspetti della vita, del lavoro e della convivenza, nelle priorità, nella scala di utilità e valori, sono mutati e stanno cambiando. Per rimanere al tema del lavoro è capitato, come ha raccontato Marco Revelli[2], che ai lavoratori delle mansioni più povere, generalmente meno considerate e retribuite, sia stato richiesto, mentre tutti gli altri si fermavano e si rinchiudevano in casa, di continuare ad operare e produrre, sovente senza protezioni, mezzi adeguati e a rischio della propria salute. Parliamo, ovviamente, di tutte le professioni sanitarie e assistenziali, comprese gli addetti alle pulizie e alla sanificazione dei locali; degli operai impiegati nelle attività indispensabili a garantire i servizi fondamentali (acqua, gas, raccolta rifiuti) e l’approvvigionamento delle merci della filiera agroalimentare e di quella farmaceutica. Parliamo dei lavoratori della logistica, della subfornitura, delle commesse di negozi e supermercati, dei raider che trasportano il cibo nelle case. Spaventati da un virus che chi ha voluto sottovalutare, come i presidenti di USA e Inghilterra, sta pagando con centinaia di migliaia di contagiati e decine di migliaia di morti, sono, almeno temporalmente, risultate meno indispensabili e vitali le professioni più invidiabili e ricche. Quelle di manager, pubblicitari, campioni sportivi, uomini dello spettacolo, architetti e chef famosi, consulenti e operatori della finanza.
Oltre che per un doveroso riconoscimento ai primi per il prezzo in vite umane pagato da questa parte del mondo del lavoro, risulta, di fronte alla terribile prova che il Paese sta affrontando, fortemente ridimensionata la teoria che per anni ha considerato il lavoro manuale, operaio, dei servizi poveri, come secondario, marginale e in via di dissoluzione. L’esperienza, dura e tragica di questi mesi, sta dimostrando che non tutto il lavoro può essere fatto da casa, sostituito dai robot, deciso dagli algoritmi, ma ci sono mansioni fondamentali per il funzionamento e la tenuta stessa della società per le quali servono le mani e la presenza fisica delle persone. Lavori, mansioni che dovranno essere rivalutate anche per quanto riguarda le loro retribuzioni. A tale proposito, nella prima e più rischiosa fase della pandemia, è stata importante l’intesa raggiunta dal Governo con le parti sociali che ha indicato la garanzia della salute come requisito indispensabile per lavorare, definendo le regole per operare il più possibile in sicurezza.
L’emergenza senza precedenti che stiamo vivendo e che il nostro Paese ha dovuto fronteggiare per primo ci presenta però numerosi altri insegnamenti.
La difficoltà a rifornire, in primo luogo, medici ospedalieri e di medicina generale, infermiere, badanti, paramedici, operatrici dell’assistenza agli anziani, dei mezzi idonei per essere protetti dal contagio (mascherine, camici, occhiali, calzari) ha messo in evidenza come tali materiali, al pari delle sofisticate attrezzature necessarie per curare i malati in terapia intensiva, da anni, per effetto della globalizzazione e di un mercato senza regole, non venissero più fabbricati in Italia. Una stortura da sanare urgentemente che ha causato nelle professioni sanitarie, non solo in Italia, migliaia di infettati e centinaia di morti. C’è da auspicare che la crisi innescata dal coronavirus acceleri la fine di una mondializzazione del commercio e delle produzioni senza regole, se non quella del massimo guadagno.
Sempre nel comparto della sanità l’aver continuato a tessere, specie nelle regioni del Nord, le più colpite dalla pandemia, le lodi per l’eccellenza del sistema sanitario nel quale si imponevano le strutture ospedaliere private, ha nascosto le debolezze e la vulnerabilità del sistema che la pandemia ha messo drammaticamente in luce. Mentre da anni, ad opera di diversi governi, si sono registrati cospicui tagli alla sanità pubblica che hanno ridotto il numero dei medici, degli infermieri e dei posti letto, è stato sminuito il ruolo della medicina di base e non si è investito sui presidi e le strutture sanitarie nel territorio. Un discorso e una riflessione a parte meritano poi le Residenze assistenziali sanitarie per anziani che in troppi casi, per gravi carenze organizzative e di cura, si sono trasformate in moderni lazzaretti. Di fronte a troppe situazioni che hanno messo in luce una esclusiva finalità al profitto, nella gestione delle RSA è necessario pensare ad un ritorno prevalente del pubblico, accompagnato dallo sviluppo di una rete efficiente ed estesa di assistenza domiciliare capace di favorire la cura degli anziani nelle loro abitazioni.
Le rivendicazioni, poi, di una maggiore autonomia delle Regioni del Nord, cavallo di battaglia, in particolare, della Lega, escono fortemente ridimensionate dall’attuale vicenda. La crisi del contagio ha messo in evidenza, anche per le non esaltanti prove di governo fornite dai presidenti di importanti Regioni, come nel campo della sanità e dell’istruzione sia indispensabile un forte ruolo di indirizzo e coordinamento dello Stato.
Ultimata l’emergenza, entrati con giusta prudenza nella seconda fase, occorre ci si predisponga a programmare, con una prospettiva di medio, lungo termine, la ripresa industriale, economica, sociale ed ambientale del Paese, traendo insegnamento da ciò che è successo ed evitando di considerare questa pandemia un accidente, illudendosi, magari, di poter tornare alle abitudini di prima. Al contrario è necessaria una svolta netta capace di modificare nel profondo il modello di sviluppo che abbiamo alle spalle il quale ha dimostrato tutta la sua fragilità ed incoerenza con il concetto di pubblico benessere. Un’occasione unica per trasformare in meglio l’economia e la società italiana.
Occorrerà decidere un indirizzo politico capace di affrontare prioritariamente tutti i temi della “green economy”, puntando a ridurre il divario tra Nord e Sud. In questa prospettiva sarà decisivo un maggiore ruolo imprenditoriale dello Stato che operi in stretto rapporto con le imprese, ne indirizzi e coordini gli investimenti e valorizzi il contributo delle parti sociali. Anche, come sostiene Mariana Mazzucato, per limitare la finanziarizzazione del sistema produttivo.[3]
Un nuovo modello più equo e sostenibile, capace di riconoscere e assegnare il giusto valore ai settori strategici della sanità, della scuola, formazione, ricerca, avendo cura e attenzione per l’ambiente, il territorio, la mobilità, l’utilizzo delle risorse della terra.
Riassegnando un nuovo valore al lavoro, sia esso manuale o intellettuale .
(Alessandria, 8 maggio 2020)
[1] Luciano Gallino: “Finanzcapitalismo”. Einaudi, 2011
[2] Marco Revelli: “Un paese salvato dagli ultimi”. La Stampa, 1/05/2020
[3] Mariana Mazzucato: “Ora uno Stato Imprenditore che decida dove investire”. Intervista – ‘la Repubblica’, 27/04/2020
(pubblicato su città futura on line, 08/05/2020 )
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