Spedita a France Inter che l’ha mandata in onda lunedì 31 marzo, questa lettera aperta di Annie Ernaux coglie, con la lucidità e lo stile esatto di chi ha scritto Les années (2008), uno stato d’animo che stenta a trovare adeguata espressione pure se è molto diffuso o comunque è latente nel senso comune. Ernaux punta all’essenziale e cioè rivendica il legame sociale come ultima istanza dell’essere al mondo e cioè dell’attuale sopravvivere alla logica darwiniana del capitalismo neoliberale, tipica di quanti già si augurano, all’indomani della fase acuta della pandemia, un irenico heri dicebamus. Per questo Ernaux sottolinea l’importanza del fatto che, in tanta calamità, beni e servizi essenziali siano pubblici o comunque siano pubblicamente tutelati, e per questo si appella, spogliandoli di ogni retorica, all’universalismo dei valori repubblicani, la libertà e la giustizia sociale.
di Annie Ernaux
Cergy, 29 marzo 2020
In piena facoltà, egregio Presidente, le scrivo la presente che spero leggerà. A lei che è un appassionato di letteratura, una simile introduzione evoca certamente qualcosa. E’ l’inizio della canzone di Boris Vian, “Il disertore”, scritta nel 1954, tra la guerra di Indocina e quella d’Algeria. Oggi, benché lei lo proclami, noi non siamo in guerra, qui il nemico non è umano, non è un nostro simile, non ha pensiero né volontà di nuocere, ignora le frontiere e le differenze sociali, si riproduce alla cieca saltando da un individuo a un altro. Le armi, visto che lei tiene a questo lessico guerresco, sono i letti d’ospedale, i respiratori, le mascherine e i test, è il numero dei medici, degli scienziati, dei sanitari. Ora, da che lei dirige la Francia, è rimasto sordo al grido d’allarme del mondo sanitario e quello che si poteva leggere sullo striscione di una dimostrante lo scorso novembre, “Lo Stato conta i soldi, noi conteremo i morti”, oggi risuona tragicamente. Lei ha preferito ascoltare coloro che sostengono il disimpegno dello Stato preconizzando l’ottimizzazione delle risorse, la regolazione dei flussi, tutto un gergo scientifico senza più carne, senza più realtà. Ma faccia attenzione, sono per la maggior parte i servizi pubblici, in questo momento, che assicurano il funzionamento del paese: gli ospedali, l’istruzione e le sue migliaia di insegnanti, di educatori, così mal pagati, la rete elettrica pubblica, la posta, il metrò, le ferrovie. E tutti quelli di cui lei ha detto tempo fa che non erano nulla, adesso sono tutto, quelli che continuano a svuotare i cassonetti, a stare alla cassa, a consegnare le pizze, a garantire una vita altrettanto indispensabile di quella intellettuale, la vita materiale. Strano come la parola “resilienza” significhi ripresa dopo un trauma. Noi non ci siamo ancora.
Si guardi, signor Presidente, dagli effetti di questo periodo di confino, di sconvolgimento del corso delle cose. E’ un tempo propizio a rimettere le cose in questione, un tempo per desiderare un mondo nuovo. Non il suo, non quello in cui i politici e i finanzieri già riprendono senza pudore l’antifona del “lavorare di più”, fino a 60 ore la settimana. Siamo in molti a non volere più un mondo dove l’epidemia rivela diseguaglianze stridenti. E, al contrario, in molti a volere un mondo dove i bisogni essenziali, nutrirsi in maniera sana, curarsi, avere un alloggio, educarsi, coltivarsi sia garantito a tutti, un mondo di cui le attuali solidarietà mostrano appunto la possibilità. Sappia, signor Presidente, che non ci lasceremo più rubare la nostra vita, non abbiamo che questa e “nulla vale quanto la vita”, ancora una canzone, di Alain Souchon, né imbavagliare a lungo le nostre libertà democratiche, oggi ristrette, libertà che permettono alla mia lettera, contrariamente a quella di Boris Vian, vietata alla radio, di essere letta stamattina sulle onde di una radio pubblica.
Annie Ernaux
(tratto dal sito leparoelelecose.it, 31 marzo 2020)
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