[Pubblichiamo il testo della Lectio Magistralis tenuta in occasione della cerimonia di premiazione del premio letterario Franco Fortini]
Parlare di Fortini e di sogni può sembrare una scelta eccentrica, un abbinamento in qualche modo incongruo se non fatuo e, in ogni caso, superfluo come un “fuori tema”, una diversione o peggio: un diversivo. La personalità di questo autore, infatti, il suo modo di essere intellettuale e di partecipare alle vicende del suo tempo inevitabilmente ci spinge – ci guida, vorrei dire, e quasi ci costringe, persino – verso tutt’altre zone che quelle del sogno, ambiti discorsivi ed esperienziali dominati da una razionalità esercitata in pieno giorno, senza sbandamenti in twilight zones o derive crepuscolari, escursioni nell’inconscio e dintorni. «Uomini usciti di pianto in ragione[1]»: tale è l’itinerario esplicitamente iscritto nei suoi versi; e non sarò io a contestare il fatto evidente che le «verità» di cui Fortini ci ha chiesto la protezione in Composita solvantur[2], l’ultima sua raccolta, riguardano i «destini generali», e perciò appartengono alla sfera del confronto dialogico e ad una veglia tanto lucida quanto tenace. Se poi non di regime diurno, per questa postura, si volesse parlare, ma di regime notturno, allora dovremmo porlo sotto l’insegna di Isaia 21, 11: «Sentinella, a che punto è la notte?» Il versetto biblico è infatti come un emblema della posizione di Fortini, appunto in quanto intellettuale: del suo porsi in allerta rispetto al mondo ed alle sue contraddizioni, ai suoi orrori ed alle sue speranze, ed insomma verso quanto continuiamo a chiamare “storia”, nella sua accezione tragica e collettiva. Così, se «Tutta la notte si dovrà vegliare», dice un verso in Di Maiano[3], non si può dubitare che la veglia fortiniana, ovvero il costante scrutare ciò che sembra stabile ed eterno (ma non lo è, anzi è pericolante, instabile come la Gronda di Una volta per sempre), la critica dell’apparenza (o dell’ideologia dominante) intesa, nel senso di Adorno, come “menzogna socialmente necessaria” e infine la scommessa sul futuro e la prospettiva schierata, di parte (dalla parte degli ultimi e degli invisibili): nessuno, davvero, può negare che tutto ciò sia una sua lezione esemplare, da rivendicare con fermezza. Nondimeno, la dimensione del sogno è tutt’altro che assente in Fortini, ed anche se di sogni veri e propri nell’opera se ne danno pochi (nulla di paragonabile, per esempio, a quanto accade in Sereni), non per questo tale dimensione è da trascurare o poco rilevante ai fini dell’interpretazione dell’opera complessiva. Vorrei subito azzardare, anzi – e non per gusto della provocazione – che quella dimensione è organica all’opera, ed in essa contribuisce alla formazione del senso, non meno di altre istanze. E poi, come sogna una sentinella? E come può la sentinella fronteggiare la notte? Tentare una risposta a queste domande non è forse un’impresa così fatua.
Proverò dunque a rispondere, e per prima cosa cercherò di fissare le coordinate entro cui collocare il discorso sul sogno in Fortini. Per far questo non mi atterrò a teorie e categorie da “addetti ai lavori”, freudiani o junghiani o lacaniani che siano, ma farò esclusivamente affidamento ai testi fortiniani, precisamente alle sue poesie. E dirò subito, allora, che le coordinate da cui avviare il discorso sono a mio avviso già definite nel primo libro di Fortini, Foglio di via[4], del ’46 (poi ripreso nel ’67) e più esattamente nei primi tre testi di quella inaugurale raccolta[5]. Da lì, precisamente, deve cominciare il discorso sui sogni: infatti nel percorso di formazione delineato, per frammenti e prese di coscienza, intuizioni e volizioni, impasses e slanci utopici, in quel libro, un rilievo decisivo lo riveste il trittico iniziale, costituito da E questo è il sonno, La città nemica, Quando; trittico che inizia con la parola «sonno» e termina con «sogna». In questa sequenza inaugurale dell’opera e nella sua dinamica interna già si delineano, sul piano strutturale, alcuni tratti fondanti ed esemplari della dimensione onirica, in senso lato, propria della poesia fortiniana: mi soffermerò pertanto su questo passaggio, per poi affrontare alcuni sogni di cui le poesie forniscono una traccia precisa.
La sequenza testuale del trittico di Foglio è contrassegnata da un fenomeno molto marcato e qualificante: ovvero dalla discontinuità. Una discontinuità che è, essa stessa, un ingrediente specifico e costitutivo della dimensione di cui qui si tratta, nella mia interpretazione. Ma di che genere di discontinuità si tratta, in questi versi del giovane Fortini? E come può una discontinuità essere un fondamento, sia pure il fondamento di un discorso sui generis, com’è quello del sogno? Ecco un’altra domanda che ci aiuta ad entrare nell’opera fortiniana, ed è un accesso per nulla secondario.
Vediamo da vicino. In primo luogo il testo d’esordio, E questo è il sonno[6], rilevato com’è dal corsivo e separato nella paginazione, viene esposto come una soglia o esergo a tutto il libro; c’è quindi uno stacco assai netto tra questa poesia e la sezione che segue, intitolata Gli anni, la prima delle tre scansioni del libro (le altre sono Elegie e Altri versi). Ma se la posizione del testo iniziale è intenzionalmente “altra” rispetto al seguito, un nuovo stacco (altrettanto evidente) è dato dai contenuti della rappresentazione, nonché dall’atmosfera tutta interiore che contraddistingue E questo è il sonno, nettamente diversificata rispetto a quanto segue, ovvero in prima battuta La città nemica e poi, più in generale, al drammatico percorso dell’io dentro la guerra, dentro l’Europa e dentro la giovinezza che, a suo modo, è narrato nel libro.
È dunque una discontinuità che investe più livelli, quella che abbiamo di fronte. I versi di E questo… si muovono entro un quadro tutto soggettivo, interiorizzato, claustrofiliaco: qui non siamo, ancora, dentro le fasi “storiche” né dentro la mappa geografica (tra Firenze, Genova, Basilea, Varsavia…) del percorso di Foglio di via; siamo, piuttosto, in un limbo preliminare, quasi si trattasse di una epigrafe dell’autore a sé stesso, quel sé stesso che spetterà al libro storicizzare, mostrare in cammino (on the road) e profilare sullo sfondo del tempo collettivo. Se consideriamo la poesia nel suo insieme, vediamo inoltre che è proprio il sonno ad assumervi un ruolo primario, da assoluto protagonista: è come se esso avvolgesse l’io e lo imprigionasse, per così dire dettandogli il suo tempo e racchiudendolo entro uno spazio funebre la cui iconografia è marcatamente regressiva, intonata alle tenebre di una morte-in-vita in cui l’esterno giunge con un «canto» indistinto, in dissolvenza e come attraverso un diaframma. Dentro l’alveo amniotico e smemorante che ospita l’io, la coscienza è disancorata dalla dimensione spazio-temporale ordinaria, ed è come catalizzata da quel «niente» – in rapporti stretti e forse collusivi con il sonno – su cui ritornerà, in chiave retrospettiva (e testamentaria), Composita solvantur. Siamo insomma in uno scenario di sprofondamento e oblìo che va nella direzione dell’astorico, una discesa nel chiuso del mondo strettamente individuale e sul limitare dell’inconscio; quasi l’indizio di una noche oscura che la figura di ragazzo dormiente disegnata da Fortini per la copertina della prima edizione del libro sembra indicare a mo’ di memento. Un memento, non un ornamento; qualcosa cioè che ha molto a che fare con la poesia, questa poesia ma (come vedremo più avanti) non solo questa.
Procedendo, ecco che la seconda composizione del libro, La città nemica[7], vira quasi ostentatamente verso tutt’altra direzione, con un salto tanto brusco quanto paradigmatico nella sua straniante inversione di marcia. Non più sprofondamento ma angoscia, non canti suadenti in strade slontananti, preludio all’addormentamento, ma intimazioni («Tutto è inutile sempre», con eco dell’Ecclesiaste) e minacce, aspri rifiuti e disconoscimenti («Tu chi sei?»); e quindi, non scenario introverso, bensì paesaggi allegorici dispiegati in campo lungo e insieme presenza del «popolo» e dei «volti vili», presenza allarmante, con un sospetto di empietà, in cui possiamo forse scorgere – tanto per evocare un possibile precedente – un sotterraneo legame con le folle minacciose che così spesso ricorrono nei sogni in Dostoevskij[8]. Tralasciando altre osservazioni su questa poesia, densissima e molto commentata dalla critica, è ora da osservare che in tema di discontinuità un’altra sottolineatura riguarda il tempo (i tempi) della seconda e terza poesia del trittico, appunto La città nemica e Quando[9]. Che tempo è, quello della Città? In ognuno dei testi ci sono due «quando»: tutti e quattro a inizio di verso e quindi in area molto esposta, un’esposizione simmetrica che è come una rima – qualcosa di più, secondo me, di un’anafora, proprio perché quegli avverbi sono colmi di risonanze semantiche soggettive. Eppure quei «quando», non appena li osserviamo più ravvicinatamente, sono essi stessi eterogenei, in un rapporto tra loro di reciIl «Quando» reiterato nei versi della Città nemica non indicava il tempo di un’azione episodica dell’io o una sua condizione occasionale: al contrario, equivalendo a “ogni volta che”, certificava il sottostare dell’io al dominio della ripetizione, una forma di coazione da cui non c’è scampo se non nella morte (il «pugnale nel cuore» del verso conclusivo, immagine un po’ à la Jacopo Ortis). Decisamente questa dichiarazione di guerra della città all’io, offerta ad apertura di sezione, assomiglia a un incubo: come se all’ingresso del libro (e all’apparire del mondo esterno nelle sue pagine) si addensassero subito le ombre persecutorie, plurali e belligeranti di un tempo bloccato su sé stesso (tutto è inutile sempre), intransitivo e dominato dalla vanitas, e di una collettività anonima ed altrettanto estranea ed ostile. Una contrapposizione così pronunciata, così esacerbata, quella tra io e città, che non si può non sentirvi vibrare delle note cupe, quasi allucinate, in questo senso affini o in chiave con la dimensione onirica. Il che non è in contrasto con l’elemento allegorico della composizione, anzi vi collabora efficacemente, perché quel blocco di macigno che è la città nemica sembra occupare, occludere tutto lo spazio testuale, sicché la conclusione del discorso («Fossi allora così dentro l’arca di sasso / D’una tua chiesa, in silenzio, / E non soffrire questa luce dura / Dove cammino con un pugnale nel cuore.») sembra il sigillo fatale di questo universo bloccato, iterativo, asfissiante.
Ma proseguiamo, e proseguiamo con le antitesi: perché di nuovo e proprio in netta opposizione al «quando» della Città, a quel reame della ripetizione ed al suo soffocante assedio si definisce il quando del terzo testo, dove l’avverbio fornisce addirittura il titolo della poesia, assumendosi una responsabilità orientativa e per nulla neutra bensì iper-significante. Se il tempo della Città nemica è il tempo dell’esilio e dell’estraneazione, un tempo opprimente e senza futuro, quale può affiorare nella «notte d’ansia», nel terzo tempo di Quando è invece figurato un tempo diametralmente opposto, integralmente diverso, tutto rivolto ad un futuro aperto e luminoso, un avvento che, di riflesso, proietta sul tempo dell’esilio una prospettiva di scampo e di conciliazione. L’esilio diventa attesa, la figurazione del futuro si trasforma in scioglimento dell’angoscia, ricominciamento:
Quando ci fiorirà nella luce del sole Quel passo che in sonno si sogna.
Si noterà qui, oltre all’incisiva struttura ellittica dei distici – che sembrano fermarsi intenzionalmente sull’orlo del dicibile, di qua da una soglia ineffabile per troppa densità semantica, per troppa attesa… – che la figurazione ormai scopertamente onirico-utopica si accompagna non più, sul piano grammaticale, al mondo dell’io, ma a quello di una collettività, non più ostile (itinerario caratteristico della raccolta nel suo insieme); e quel «passo» tutto nuovo, il passo del sogno, non è più, finalmente, un passo solitario e ansioso, bensì risponde ad un moto unanime, concorde, che si potrebbe anche dire “sociale” ed al tempo stesso confidente, tanto per sfruttare il termine leopardiano che affiorava, come un remoto residuo d’infanzia, all’inizio della Città nemica (affioramento subito cancellato, sepolto dalle pietre e dalla «morte seconda» che incombe sull’io, ricordo dantesco e apocalittico di un tempo senza redenzione, assolutamente infernale.)
Ricapitolando, quindi: nella sequenza iniziale di Foglio di via si danno tre tempi eterogenei, tre modalità di trasporre il vissuto e di calarlo all’interno del confronto io-mondo. Queste differenti modalità hanno un riscontro anche a livello stilistico, nell’uso della metrica e della retorica, che alternano ritmi armonici e cadenze percussive, stampi tradizionali e non, simmetrie e asimmetrie. Ed attenzione: questo incipit tutto costruito sul discontinuo e sulla differenza non è il frutto di un ordine casuale, quale può manifestarsi in un testo di tipo diaristico; è piuttosto un lavoro che avviene nell’io e di cui per l’autore (questo autore) è necessario dar conto. Il lavoro sul discontinuo, portato com’è su più livelli e dunque radicale, non mediabile con nessi dispiegati, è significante e necessario appunto per questo, in quanto nella vicenda che dal sonno dell’esergo e dall’incubo della Città nemica approda al sogno di Quando, in questo moto che procede per scosse come una terapia a base di shock, si esplica una dinamica intima, franta e contrastata, aspramente dialettica, quale a mio avviso informa l’intera compagine delle scritture fortiniane. La funzione del sogno, il suo manifestarsi va collocato entro questa cornice: è come, questo incipit in tre tempi, la cornice concentrata e scorciata che consente di allineare e sintetizzare ciò che nell’opera è diffuso e intermittente, modulato secondo inflessioni e in circostanze diverse ma ogni volta riemergente, proprio perché obbedisce a istanze profonde. Entriamo nell’opera, dunque, come si entra in un multiversum, per dirla con Bloch. Tali sono le coordinate a cui mi riferivo all’inizio; e in breve, dirò ora che questa dialettica – per insistere con un termine inviso ai postmoderni – prevede due poli opposti e complementari, in tensione: quello del Sonno e quello del Risveglio. Su questa polarità per così dire (si potesse dire) a tutto tondo, è costruito, per esempio, tutto il quadro di Le stagioni, un ampio componimento di Poesia e errore[10]; ma la stessa polarità viene declinata al negativo in Un’ora esiste… in Paesaggio con serpente[11], testo posteriore di diversi decenni (vv. 11-13):
Capovolto il capo nei sonni ostinati la generazione dei dormenti precipitando sente che mai potrà destarsi.
Sono passati i decenni, è mutato lo stile espressivo, ma il quadro figurale si mantiene identico nei suoi termini di fondo. Detto questo, siamo tornati all’inizio ovvero al sonno, ed è il momento di annotare un fatto macroscopico: la parola «sonno» ricorre ben trentacinque volte nell’opera in versi (tralasciando le traduzioni). Una notazione quantitativa di questo genere, certo, può non voler dir nulla, ma il fatto è che il sonno compare in alcuni tra i testi più importanti di tutto Fortini; non solo, come si è visto, il primo di Foglio che non per caso viene richiamato, circolarmente, in Composita solvantur; ma anche in Mi hanno spiegato[12], il testo davvero estremo (agosto 1994) della sua produzione. C’è dunque una sorta di invasività del sonno nell’opera fortiniana: il Lete e le sue creature sono sempre nei dintorni della coscienza, come se nella notte della Sentinella (in Paesaggio con serpente «l’ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua[13]») fosse sempre presente il potere magnetico, la fascinazione regressiva che – non senza qualche straniata gratificazione, un qualche appello sirenico (forse perché essa protegge, ripara dalla Città Nemica) – distoglie il soggetto dalla presa di coscienza, allontanando e vanificando il Risveglio. Per gli addetti ai lavori, a partire da Freud, il sogno è il guardiano del sonno[14]; ma è d’altra parte un guardiano con un suo linguaggio ed una sua grammatica, che si esprime principalmente per immagini. Sarà forse da quelle regioni infere, allora, che in Fortini provengono «la coorte / D’uomini scimmie, di femmine implumi» di Sonetto[15], i «cani maestri con grembiali di cuoio» di L’ora delle basse
opere[16] o i «neri scimmiotti astuti e vispi» di Distici per materie plastiche[17]; o ancora il «senato d’insetti» che «gesticola» delle rose[18] e magari la «Foca o medusa o sirena o serpente» che affiora in L’erba e l’animale[19]. E il «mormorio di demoni ciechi» di Della Sihltal[20], gli «onnipotenti fiumi […] neri di notte» che nel sonno scorrono in Dimmi, tu conoscevi[21], non avranno a che fare anch’essi con quella dimensione ignota ed abissale ma prossima, con una specie di memoria altra, sotterranea, come quella degli «esseri d’altra storia, che visitano il sonno» in A Boris Pasternak[22]? Siamo in una zona in cui inconscio e allegoria, individuale e collettivo rispondono a sollecitazioni del profondo: come se l’immaginario di stampo biblico, millenario, che agisce in tutto Fortini (anche il saggista) si facesse carico, nella notte che è già ed ancora la nostra notte, di tensioni diurne e attualissime nella loro minacciosa insistenza, nella loro sibillina cogenza. È come se la grammatica onirica che regola le apparizioni e le sparizioni dei versi cominciasse ora a dispiegarsi davanti ai nostri occhi, proprio perché siamo noi quei dormienti: ci riguardano molto da vicino le «catene […] solo in sogno spezzate» delle «anime sante» di Allora comincerò…[23] di cui parla, non senza amara ironia, il poeta di Paesaggio con serpente.
In A Cesano Maderno[24], una splendida composizione di Una volta per sempre, ritroviamo così lo stesso paesaggio arcaico-allegorico di sempre (quasi tematizzato nelle due lettere «da Babilonia[25]» di Una volta per sempre) nuovamente immerso nel sonno:
Non è perduto il mondo eterno, è ancora nel sonno dove non passano più i muli e dove sola la vipera vive.
Se è credibile e verificabile, alla luce di queste occorrenze – minima parte del repertorio – la dialettica che ho indicato, va precisato e ribadito che l’invadenza del sonno e il sovraccarico di inquietanti creature che abitano i versi non corrispondono esclusivamente ad una istanza negativa, poiché il lato in ombra, il versante del Lete contiene molte cose ignote, magari minacciose e ambigue o ambivalenti, ma non è il caso di esorcizzarle troppo sbrigativamente, all’ingrosso. Quelle presenze-assenze, infatti, possono riportarci ogni notte il sogno dei «carri di morti» (La realtà, nell’Ospite ingrato[26]), il «sogno spaventoso dello scuoiato» (Allora comincerò… in Paesaggio con serpente) o amici cari scomparsi che tornano «orrore lasciando e scompiglio», come il Vittorini di In memoria di E. V.[27]; ma possono anche serbare l’impronta di un tempo diverso (l’«alto e quieto / regno» di Di Maiano[28]) e di un passo pieno di speranza, come avviene nei Distici[29] di Poesia ed errore che portavano notizia di «Quando è nel sonno, per attimi, vera / una misura tranquilla dell’essere, / uno sguardo imperterrito sul poi, / una dolcezza complice, un sorriso, / e mari, piante, mani, popoli, ore, / con me pazienti, con me benedetti» (vv. 14-18.). Né – a proposito di inferi – possiamo dimenticare un testo assai tardo, L’incontro[30], in Composita solvantur, dove compare nientemeno che «Ecate cara scarmigliata e lenta»: è una specie di contrappunto alle Erinni del Sereni di Autostrada della Cisa[31], ma insieme è l’evocazione più che cosciente della divinità delle apparizioni notturne, la dea degli spettri aggirantesi tra i sepolcri e i trivii, insieme alle anime dei trapassati, qui convocata come per un misterioso e inesorabile appuntamento… Che poi il Risveglio, da un punto di vista statistico, conti molto minori presenze (sette) rispetto al sonno, non è neanche questo un caso, perché il polo positivo di questa dialettica tanto più risplende, in quanto nell’ordine della normalità, del vissuto quotidiano, esso viene spogliato delle sue risonanze utopiche ed è perciò soggetto a negazione ed a risuonare e contrario, nella dissonanza e nella parodia oppure nella protesta e nell’invettiva, cioè nel vecchio ed amaro stile di Giobbe. Direi, in questo senso, che il destino di quel moto concorde e di adempimento e cominciamento che viene anticipato in Quando, e che carsicamente riappare di tanto in tanto nei versi fortiniani, è un po’ come la Gerusalemme di Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto[32]: «lucente» nella sua «inesistenza» (v. 14).
In ogni caso è qui, entro questo paesaggio psichico e storico al tempo stesso, che si apre lo spazio del sogno, uno spazio che, ora allegando alcune testimonianze, mi sento di dire di stampo messianico. Si apre, quello spazio, lampeggia e si eclissa in una dialettica lacerata e lacerante, che non prevede compromessi o conciliazioni, ma semmai pause o stasi, intermezzi vissuti come tali nella loro stridente incompletezza e sospensione. Se c’è nel sonno una funzione avvolgente e regressiva, sprofondamento nella clausura soggettiva e nell’oblio, c’è anche, si è visto fin dall’inizio, «il passo che in sogno si sogna», l’anticipo utopico di un tempo rinnovato che nega il sempre-eguale, contesta l’esperienza dell’assoluto negativo che la città nemica s’incaricava di rappresentare. E finalmente all’interno di questo scenario ampio, non circoscritto a singoli affioramenti ma partecipe di un comune e coerente tessuto connettivo, possiamo leggere i testi che più direttamente chiamano in causa il sogno. Sono testimonianze rare ma proprio per questo preziose: A Mosca, all’hôtel Metropòl,[33] in Una volta per sempre e Quella che…[34] in Composita solvantur, due testi assai diversi e cronologicamente assai distanti tra loro (il che non è senza significato), ma non senza parentele e parallelismi.
Nella prima poesia, per una singolare ironia della storia – quella che «ha un modo di ridere che è ripugnante» (27 aprile 1935[35], v.12) – la location del sogno è oggi, nelle cronache (dopo esser stato incrocio di spie e sicari), il luogo di abietti trafficanti nostri contemporanei, come se le proliferazioni della notte in cui siamo precipitati, come se i bassifondi della storia in cui sguazzano quei trafficanti e lestofanti avessero scelto quel luogo proprio per cancellare ogni traccia dell’utopia, irridere ogni forma di sogno e affermare il loro osceno invito al ritorno del passato più infame e inumano. Ma questo nulla toglie alla qualità ed anzi alla verità del sogno, quale si declina qui nella sua astanza e che dobbiamo leggere senza i paraocchi ideologici del senno di poi, senza connivenze con agitatori di incubi e spin doctors dell’oblìo.
A Mosca, all’hôtel Metropòl
una mattina d’estate ho avuto un sogno. Ancora altera, voleva umiliarmi col suo riso di spettro e «presto sarai vecchio», mi diceva dalle pupille nemiche. «Tu presto
non avrai più speranza». Ma sorridevo in me stesso: «Non sa dove sono», pensavo, «la città dietro le tende ora è la mia città dove la vita morta non mi tocca, dove milioni d’uomini si levano con me, per me, ad esistere…» Ed ero sveglio. Cominciava un giorno vero, dietro le tende. Ed era come quando ragazzo tremavo al mattino sottile e santo e non sapevo ancora quanto male si può patire e vincere.
In questi versi, in cui forse aleggia l’ombra mattutina che appare «tra le chiuse imposte» del Sogno leopardiano, è facile individuare – restando entro il nostro repertorio iconografico e psichico – il rovescio simmetrico della Città nemica: non più sede dell’estraneazione e del rifiuto, dell’angoscia e della morte, la città nella replica a distanza di A Mosca diviene il luogo di una riappropriazione e di un risveglio, di un nuovo inizio e di un’affermazione della speranza. Tale (il sogno del risveglio) è il contenuto esplicito del sogno, e si potrebbe dire che la risposta dell’io onirico al fantasma del passato qui non è, in fondo, che la smentita letterale del perenne monito di disappartenenza («non sei / nostro, va’ via», in Canzone[36], vv. 10-11) che perseguita l’esule[37]; e del resto, la stessa città nemica in Il Forte del Belvedere[38] può mostrarsi «diversa come un volto» che «si desidera / mutato rivedere in sogno.» (vv. 10-12). Ma quel che colpisce il lettore è poi, subito dopo il dialogo-replica, l’affioramento memoriale dell’ultima parte, dopo lo stacco: «Ed era come…», con quel che segue. Il lettore di Fortini s’imbatte a questo punto in uno scenario già intravisto in Foglio di via, e che sarà poi rielaborato in Composita solvantur, così informando i due estremi dell’opera. L’affioramento memoriale infatti rimanda da una parte a Di Porto Civitanova[39] e dall’altra a Questo verso[40]: e non si tratta, neanche qui, di due testi secondari, bensì capitali. Sì, capitali: poiché delineano niente di meno di una vera e propria anamnesi-genealogia della speranza, o forse ed anche lo stemma dell’istanza utopica che permea tutta l’opera. Senza analizzare puntualmente i versi di queste poesie, basterà isolare il nucleo di vissuto che vi giunge alla superficie, in quanto ci conduce all’infanzia, ad uno strato memoriale remoto che per l’affiorare così sporadicamente all’interno dell’opera non per questo è meno significativo, collegato com’è al motivo del sogno/risveglio.
Nella chiusa di Di Porto Civitanova l’io poetico accennava, tramite un paragone, all’infanzia: «Come quando fanciullo oltre i miei colli / Aspettavo bramoso il primo raggio / Di sole, …»: scena di attesa e di desiderio, di proiezione nel futuro, la stessa del finale di A Mosca. E si confronti ora con il ricordo – più disteso, più narrato e articolato – di Questo verso, in Composita solvantur, di cui riporto inizio e fine (vv. 1-4 e 25-28):
Notte ancora e la casa nel suo sonno. Già sveglio, andavo alla finestra, aprivo le imposte del terrazzo, su quella ringhiera posavo la fronte. […] Poi quando i rami al raggio si avvivavano della meravigliosa alba serena l’Apparita lontana era speranza al primo vento già volando questo verso.
La storia della Sentinella e l’anamnesi della speranza, si può affermare con l’occhio a queste due poesie, fanno tutt’uno, ed è quindi giusto che emergano all’inizio ed alla fine dell’opera. La sostanza utopica della poesia a cui accennava il ragazzo di Foglio di via doveva essere ripresa ed anzi spiegata nel libro della fine: l’attesa dell’alba, la veglia del primo mattino, il tremore infantile e la proiezione verso il futuro, lo slancio oltre la città ed oltre il tempo morto, un ingresso nel mondo che appare meraviglioso e senza residui d’angoscia: bisogna saper riconoscere in questa luce, in questa qualità visionaria e irrevocabile, il lascito messianico dell’origine ardente e incancellabile della poesia e dell’utopia; ma anche prendere atto, proprio qui, della presenza aggressiva e inquietante della «bestia immane» (v. 21), minacciosa ed altrettanto incancellabile, debordante (il «patire interminato», v. 19).
Resta ora da dire di Quella che…, sesto componimento delle Elegie brevi di Composita. Questo potrebbe sembrare un episodio minore, collaterale, come se la breve poesia fosse slegata dal quadro fiammeggiante e a tinte forti (anche il chiaroscuro può esserlo) sin qui delineato.
Quella che. È ritornata questa notte in sogno. Uno dei miei compivo ultimi anni. «Sono, – le chiesi, – vicino a morire?» Sorrise come allora. «Di te so, – mi rispose, – tutto. Lascia quel brutto impermeabile scuro. Ritornerai com’eri».
Una certa critica si è deliziata a leggere questi versi, come se l’affioramento in Fortini della dimensione privata, di una prospettiva intimista, e il baluginare in extremis di Eros smentisse l’arcigno cipiglio dell’ideologo, e come se, più in generale, la fase senile della poesia fortiniana, coincidendo storicamente con la sconfitta di ogni ipotesi di cambiamento nella società, presupponesse una forma di conciliazione o di resa ai temi sempiterni della lirica, amore e morte e compagnia bella. Di quale e decisiva e tremenda sconfitta si trattasse in quei tornanti della nostra storia – non solo chiusura di un ciclo lungo più di un secolo ma rottura selvaggia del patto sociale a livello planetario – quei critici non l’han compreso allora e tantomeno oggi; come non han mai compreso il carattere irredento delle allegorie fortiniane ed il loro radicamento soggettivo, esistenziale; ed anzi, qualora volessero ammettere Fortini per una qualche soirée di beneficenza nei salotti buoni della poesia repubblicana, quei non pochi mis-lettori lo farebbero soltanto al prezzo di rimuovere la ferita di cui egli si è fatto interprete. Se poi in questi versi Fortini sembra arieggiare Sereni, non è per un omaggio al più caro e più grande dei suoi interlocutori, ma perché lo sfondo cupo in cui han luogo gli affioramenti memoriali e le visioni intermittenti di Composita solvantur presuppone il confronto a tutto campo con la propria storia individuale ed anche poetica, non meno che con la storia di tutti. Ed allora anche in questo scorcio soggettivo, in ogni sua parola e cadenza, dovremmo piuttosto avvertire una nota messianica, un riflesso di lunga durata di cui il sogno – anche questo sogno – si fa a suo modo interprete.
Non c’è risveglio, in questi versi; è vero. Non c’è neanche la città: né quella nemica né quella sede del «vero» che a volte balugina in sogno. L’apparizione di «quella che» sembra essere solo un flash che segnala la prossimità della morte, un ritorno di quelli che chiudono il cerchio e sigillano la vicenda esistenziale, premonizione e annuncio in chiave con l’insegna elegiaca della sezione, che privilegia la dimensione esistenziale. Poesia della vecchiaia, stile tardo? «Sei tu quella di prima?…», eccetera: ancora Leopardi, Petrarca[41]? Non è mancato chi, leggendo questi versi, ha ironizzato sull’«impermeabile scuro» del finale, attribuendogli chissà quali significati di ordine storico-sociologico. Ma lasciamo la chiacchiera dei salotti progressisti e disincantati fuori dal nostro discorso; e piuttosto: se davvero l’opera fortiniana è leggibile nei termini dialettici fin qui abbozzati, sarà tenendo sempre conto di un gioco di continuità e discontinuità che potremo avvicinarci alla formazione del senso, anche qui come altrove. Rammentiamo quindi che la vicinanza alla morte segnalata da Quella che non è un fatto isolato o che appare in extremis. In A Mosca, a cui Quella che sembra far eco per via di controcanto, alla vecchiaia ed alla morte alludeva il «riso di spettro»; ma qui subentra il sorriso di «allora», cioè della giovinezza. La domanda è se si tratta solo ed esclusivamente di questo, della memoria della donna amata nel tempo d’anteguerra, di cui Foglio di via e Poesia e errore conservano tante tracce; di un intenerimento senile, di una forma di autoindulgenza fino ad allora testardamente negata. Nella stessa sezione del libro compaiono una citazione da Saba[42] ed i versi di una «canzone dei primi del secolo[43]», altri richiami al tema amoroso ed alla giovinezza; ma non si tratta di ricordi e basta, di rinvii nostalgici ad un tempo conchiuso, all’aura del remoto che riemerge. Come dev’essere nel multiversum fortiniano, le schegge del tempo viaggiano su orbite ad amplissimo raggio, schiudono ellittiche e prospettive immerse nel discontinuo, ma anche nel tempo del “non più e non ancora” un centro, una direzione – una lontana eco del Quando – c’è e nel sonno riaffiora, balena, indica. Così qui il fantasma del passato parla del futuro. Ricordiamoci che in epigrafe a Questo verso, nella stessa raccolta, stava una citazione da Machado: « – Tu conmigo, rapaz? – Contigo, viejo.» Il vecchio e il giovane (per riecheggiare di nuovo Saba), dunque, sembrano presidiare lo spazio poetico della raccolta: uno spazio che, se abbiamo letto bene Di Porto Civitanova (e tanto altro), ha molto a che fare con la speranza. Tanto più questa era forte e inestirpabile, tanto più ora i frammenti del vissuto si propongono come allegorie incompiute, icone che serbano il riflesso della luce che prima ho definito messianica e che, per affiorare in un luogo appartato ed intimo, non è per questo meno limpida ed eloquente. Allora io credo che quel «di te […] so tutto» di Quella che sia un passaggio ellittico ma anche cruciale, sintetico: in quanto quel «tutto» include la poesia e l’errore, l’esilio e l’utopia, le cose ultime e le ferite del tempo, e soprattutto la speranza tremante, mai spenta, di cui parlavano Di Porto Civitanova, A Mosca, Questo verso. Ci penseranno le Canzonette del Golfo a dire in che modo la storia ride in faccia ai nostri giorni. Ma qui, è la speranza a dare l’accento a quest’ultima e breve incursione nelle regioni del Lete. La giovinezza che ritornerà, dismesse le vesti del tempo[44], è figura di un’antica promessa, annuncio già colmo di risveglio. Insomma: se per gli addetti ai lavori il sogno è il guardiano del sonno, per la poesia di Fortini il sogno è il guardiano della speranza.
[1] Franco Fortini, Canzone (in Poesia e errore), v. 33. Cito da F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2014 [d’ora in poi abbreviato in TP], p. 176.
[2] Id., «E questo è il sonno…» (in Composita solvantur), v. 35, TP p. 562.
[3] Id., Di Maiano (in Foglio di via), v. 26, TP p. 34.
[4] Id., Foglio di via e altri versi, Torino, Einaudi, 19461; ivi, 19652 (in TP pp. 1-68).
[5] Si veda al riguardo l’esemplare commento di F. Fortini, Foglio di via e altri versi, edizione critica e commentata a cura di Bernardo De Luca, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 87-104.
[6] «E questo è il sonno, edera nera, nostra /Corona: presto saremo beati / In una madre inesistente, schiuse / Nel buio le labbra sfinite, sepolti. // E quel che odi poi, non sai se ascolti Da vie di neve in fuga un canto o un vento, // O è in te e dilaga e parla la sorgente / Cupa tua, l’onda vaga tua del niente.»
[7] «Quando ripeto le strade / Che mi videro confidente, / Strade e mura della città nemica // E il sole si distrugge / Lungo le torri della città nemica / Verso la notte d’ansia // Quando nei volti vili della città nemica / Leggo la morte seconda, / E tutto, anche ricordare, è invano // E «Tu chi sei?», mi dicono, «Tutto è inutile sempre», / Tutte le pietre della città nemica, / Le pietre e il popolo della città nemica // Fossi allora così dentro l’arca di sasso / D’una tua chiesa, in silenzio, / E non soffrire questa luce dura / Dove cammino con un pugnale nel cuore.»
[8] Vedi Giulia Gigante, Dostoevskij onirico, Napoli, La città del Sole, 2001.
[9] «Quando dalla vergogna e dall’orgoglio / Avremo lavate queste nostre parole. // Quando ci fiorirà nella luce del sole / Quel passo che in sonno si sogna.»
[10] TP, pp. 80-81.
[11] TP, p. 444.
[12] TP, p. 818.
[13] Molto chiare…, v. 10; TP, p. 491.
[14] Cfr. James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Milano, Adelphi, 2003.
[15] Sonetto, v. 4; TP, p. 45.
[16] L’ora delle basse opere, v.7; TP, p. 223.
[17] Distici per materie plastiche, v. 1; TP, p. 230.
[18] La poesia delle rose, VI, v.8; TP, p. 288. Tutta la composizione in realtà è infestata da figurazioni infere.
[19] L’erba e l’animale, v. 28 (in Questo muro); TP, p. 304. Cfr. Emanuele Zinato, Il dente della storia. Figure animali nella poesia di Fortini, «Hortus», 16, 1994, pp. 20-27; Id., Su alcune costanti del “realismo figurale” fortiniano, «Il bianco e il nero», I, 1, 1997, pp. 207-216.
[20] Della Sihltal, v. 16; TP, p. 755.
[21] Dimmi, tu conoscevi, vv. 15-16 (Composita solvantur); TP, p. 505.
[22] A Boris Pasternak, vv. 27-28 (Poesia e errore); TP, p. 171.
[23] Allora comincerò…, v. 5-8; TP, p. 488.
[24] A Cesano Maderno, vv. 37-40; TP, p. 277.
[25] TP, pp. 239-240. Vedi Davide Dalmas, La protesta di Fortini, Aosta, Stylos, 2007, pp. 130-132.
[26] F. Fortini, L’ospite ingrato primo e secondo, in Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2004, p. 1121.
[27] Allora comincerò…, v. 14; TP, p. 488.
[28] TP, p. 33.
[29] TP, p. 188.
[30] TP, pp. 565-566.
[31] «Oggi a un chilometro dal passo / una capelluta scarmigliata Erinni…», Vittorio Sereni, Autostrada della Cisa, v. 5-6; in Id., Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 261.
[32] In Paesaggio con serpente; TP, p. 425.
[33] TP, p. 267.
[34] TP, p. 518.
[35] In Paesaggio con serpente; TP, p. 405.
[36] TP, p. 175.
[37] In Poesia e errore; TP, p. 211.
[38] TP, pp. 541.
[39] TP, p. 31.
[40] TP, p. 541.
[41] «Quella che» è nel Petrarca di Trumphus Mortis, II, vv. 62-63; per Leopardi (Il sogno, v. 20) vedi il commento di Luigi Blasucci in Giacomo Leopardi, Canti, a cura di L. Blasucci, Volume primo, Fondazione Bembo / Ugo Guanda editore, 2019, pp. 353-373.
[42] Saba, TP, p. 513.
[43] Da una canzone dei primi del secolo, TP, p. 519.
[44] Nell’imagery biblica che Rino Genovese ha sottolineato in questi versi (comunicazione personale), la veste è il corpo mortale; non mancano gli esempi ma importante è qui il riferimento al vissuto e la sua traslazione.
(pubblicato sul sito: leparoleele cose.it)
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