Albert Camus, combattente per l’umanità di Teresa Simeone

 

L’umanità di Albert Camus parla per bocca dei protagonisti cui diede voce, come il Raymond Rambert di La peste (1947) che, di fronte alla possibilità di tornare dalla moglie, finalmente lontano dall’orrore della peste, a Rieux, il medico che ha deciso di rimanere a Orano a curare i malati, risponde che no, non partirà. Resterà con loro, perché non si può essere felici da soli.

Nella guerra come nella pace, l’ultima parola spetta a coloro che non si arrendono mai

Georges Clemenceau

La frase del politico francese, che “Combat”, il quotidiano attivo durante l’occupazione tedesca della Francia, riporta in manchette dal primo numero e replicherà in tutte le sue edizioni clandestine[1], definisce in fondo anche la posizione che Albert Camus assunse nella lunga, mai protervamente ostentata, Resistenza come nella breve e tormentata esistenza, terminata troppo presto, in un drammatico incidente a Villeblevin, il 4 gennaio 1960.

Nato nel 1941 dal movimento resistenziale di Henri Frenay, “Combat” chiama i francesi alla lotta, vuole scuoterli dall’anestesia delle coscienze, spingerli a ribellarsi alla menzogna e alla sottomissione. Uscirà dalla clandestinità nell’agosto del 1944: del comitato direttivo, come si specifica in novembre, faranno parte Pascal Pia, direttore, Camus, redattore capo, Marcel Gimont e Albert Ollivier,[2] il nocciolo duro di “Combat”.

Camus avrà sempre un pudore estremo a parlare del suo status di combattente: quando muore l’amico René Leynaud, arrestato dai tedeschi nel maggio 1944 e fucilato il 13 giugno, gli dedica un intenso articolo. Era un poeta, scriverà, ma aveva rinunciato alle sue poesie per impegnarsi nella lotta. Ed è morto, conquistando il diritto di parlare proprio mentre non potrà più farlo, come tanti, tutti quelli che sono caduti, i migliori. “E lo diciamo perché lo pensiamo intimamente: se noi siamo ancora qui, è perché non abbiamo fatto abbastanza. Lui, invece, ha fatto abbastanza”[3]. La reticenza dello scrittore a raccontare dell’esperienza nella Resistenza è una cifra della sua personale etica che lo porta quasi a sentirsi in colpa nei confronti di chi aveva pagato con la vita, di chi aveva subito arresti, deportazioni, come accaduto a molti tra i redattori di “Combat”.

È un militante, ma la sua è la militanza di un uomo che detesta la violenza; che combatte, attraverso le pagine di un giornale, perché lo ritiene un dovere civico e morale, senza perdere, però, l’amore per la vita e il senso della felicità. Senza dimenticare la bellezza del mare come il sorriso di un volto amato. Ma la lotta è necessaria e riguarda tutti, tutti i Francesi, nessuno dei quali può ritenersi immune né credere, in cuor proprio, alla propaganda ispirata dai nazisti e organizzata dalla stampa collaborazionista, che mira a confonderli, a dividerli. Nessuno può tirarsene fuori e dire: “La cosa non mi riguarda. La cosa vi riguarda eccome”[4].

D’altronde ciò che i tedeschi e i collaborazionisti vogliono far emergere è proprio l’ignavia, la rassegnazione, la viltà: il modo con cui trattano i prigionieri, le torture che infliggono loro, gli insulti sono finalizzati a spogliarli della dignità, a strappare un’abiura, per poter eliminare la distanza che separa loro, servi del potere, dai ribelli, dagli uomini. Per poter pensare e dire: “Siamo tutti uguali, quelli lì non faranno più gli spavaldi…”[5], per poter dimostrare che anche chi insorge è costretto a inginocchiarsi.

E allora anche il giornalismo diventa impegno civile, coraggio, voce libera contro il demonio nazifascista che ha occupato per metà la Francia e contro l’imbarazzo che ne copre l’altra metà, quella collaborazionista.

Fortunatamente, però, il tempo della vergogna sta per finire. Il popolo incomincia a reagire, innalza barricate, rivendica un orgoglio: “Non passeranno”, titola “Combat” a due giorni dalla liberazione, con la chiara allusione al No pasaràn dei repubblicani spagnoli.

E, finalmente, il 25 agosto 1944 Parigi è liberata: “Combat” esce dalla clandestinità ma la lotta continua.

Continua e si scontra con problemi nuovi, come quello di decidere sulla sorte di chi ha acconsentito all’infamia. Quando si apre il dibattito sulle condanne per i collaborazionisti, Camus assume una posizione netta, che in seguito rivedrà, ma che in questo momento lo spinge a polemizzare con François Mauriac che, in nome della carità, propone per loro il perdono. Camus reagisce vigorosamente: “Ogni volta – scrive l’11 gennaio del 1945 – che in materia di epurazione ho parlato di giustizia, Mauriac ha parlato di carità”[6]. Come se si dovesse scegliere tra l’amore di Cristo e l’odio degli uomini. Ma qui non c’entra la carità; c’entra piuttosto il rapporto con la menzogna e la necessità di fare chiarezza. Tra il perdono e l’odio, c’è la necessità di rendere giustizia ai morti, a coloro che hanno scelto la libertà piuttosto che rimanere nella viltà. Che hanno pagato per questo. Ma dell’uomo non si può disperare. “Se ci permettiamo di fare a meno di Dio e della speranza, non per questo possiamo permetterci a cuor leggero di fare a meno dell’uomo. Su questo punto posso tranquillamente dire a Mauriac che noi non ci avviliremo e che rifiuteremo fino all’ultimo istante di vita una carità divina che defrauderebbe gli uomini della loro giustizia”[7].

Non vendetta, dunque, né mancanza di carità e men che meno rancore; piuttosto riconoscimento alle vittime per quello che hanno patito, perché nel tempo del silenzio, tra l’accettazione passiva dell’occupazione e l’ambigua e infamante collaborazione con il nemico, non si sono schierate con i forti, ma hanno rivendicato una dignità che si è concretizzata nell’assunzione di una responsabilità che era responsabilità collettiva. E quanto Camus tenga a esaltare il ruolo del Noi su quello dell’Io lo dimostrerà in tutti i suoi riferimenti a un’avventura che non è solitaria ma vissuta insieme agli altri. Quando, nel febbraio del ’45 ritorna, dopo una breve pausa, al suo giornale, rimarca: “Il nostro gruppo, in fatto di unità interna, è rimasto solidale nel mezzo dell’insurrezione, e rimane coeso adesso nel mezzo di una gran confusione. Gli editorialisti del nostro giornale rispondono gli uni degli altri”[8] e, a dimostrazione dell’autenticità della posizione, dopo aver firmato quell’editoriale, ritornerà all’anonimato.

Quel richiamo alla solidarietà riecheggerà ancora, più tardi, nel 1951, sulle pagine dell’irriverente, coraggioso e divisivo Homme rèvoltè, che lo catapulterà nell’inferno dell’apostasia politica e lo brucerà sul rogo dottrinale degli eretici, quando, per definire come la ribellione del singolo sia in realtà il moto di tanti, sofferenza individuale che diventa coscienza collettiva, scriverà: “Io mi rivolto, dunque siamo!”[9].

Nessuna gabbia ideologica, nessun dogmatismo, nessuna fedeltà acritica a qualcosa che, per fini diversi ma con medesimi mezzi, ha distrutto vite e silenziato voci.

La necessità civile di preservare l’umanità di Camus attraversa, allo stesso modo, il romanzo “La peste”, pubblicato nel ‘47. Quando termina l’epidemia, tutti esplodono in una gioia irrefrenabile: “coppie che affermavano in mezzo al tumulto, col trionfo e con l’ingiustizia della felicità, che la peste era finita e che il terrore aveva fatto il suo tempo”[10]. Di fronte al trionfo e all’ingiustizia della felicità di persone vive, mentre altri “restano morti”, c’è, però, chi sente di dover testimoniare a favore degli appestati che rischiano di essere lasciati nell’oblio.

Si comprende, perciò, quanto possa ferirlo la superficialità dei giudizi che danno della Resistenza coloro che non l’hanno fatta, che l’hanno criticata, che ne hanno sminuito il valore. Una Resistenza cui si fa, una volta liberata la Francia, un vero e proprio processo.

Camus difende chi si è esposto, s’indigna per chi ha taciuto negli anni della vergogna. In tutti i suoi articoli, in ogni suo scritto, insiste sul coraggio dei combattenti in un momento in cui era facile disinteressarsi, rinchiudersi nel proprio privato, cercare di sopravvivere. Senza rischiare. Chi, nella propria solitudine, ha scelto un’altra direzione, si è trovato anche a dover fare i conti con le proprie fragilità, a cedere alla tortura. In un editoriale del dicembre ’44, Camus ricorda un compagno, René Hardy, ingegnere delle ferrovie, che aveva rischiato tante volte la vita e che poi, fermato dalla Gestapo, era stato stranamente rimesso in libertà. Molti avevano sospettato che avesse parlato, portando, con la sua delazione, all’arresto e alla morte di Jean Moulin. “Chi – si chiede, però, Camus – avrà il coraggio di giudicare?”[11].

Non certo chi la Resistenza non l’ha fatta. No, costoro non possono.

I combattenti potrebbero, loro sì. Ciascuno dei resistenti, infatti, nonostante assuma l’impegno di non parlare neppure sotto tortura, sa che è difficile mantenerlo, sa che solo nel momento in cui si troverà nella situazione potrà realmente conoscere la forza della propria capacità di sopportazione. “La maggioranza l’ha onorato [l’impegno], e i carnefici sono stati sconfitti. Altri si sono mostrati meno forti, e so che sarebbe facile fargliene una colpa. Ma voglio dire forte e chiaro che nessun uomo della Resistenza accetterebbe di condannarli. Se infatti, come tanti altri, fossero rimasti a casa loro, se non avessero scelto la strada più difficile, oggi sarebbero vivi e rispettati”[12].

Nessuno può sapere come si comporterà quando verrà quel momento, quell’ora buia in cui ci scegliamo, in cui finalmente sapremo se saremo stati fedeli al nostro giuramento o il dolore inflittoci ci avrà piegato. Anche questo dobbiamo a chi ha combattuto per noi: la libertà di non dover metterci alla prova, la possibilità di pensare di noi stessi che saremmo potuti essere degli eroi o dei santi. Dobbiamo loro di non aver dovuto verificare se anche in noi c’era sempre, come rifletterà Tarrou, “un’ora del giorno e della notte in cui un uomo era vile”[13], quell’ora di cui aver paura nella propria solitudine.

Il valore dell’impegno è per Camus il valore dell’umanità, un’umanità verso la quale ebbe sempre fiducia, attenzione, rispetto, nonostante le vicende biografiche – lo status di orfano, la condizione di pied-noir, la povertà, la tubercolosi – che inevitabilmente lo segnarono. Lui che era un solitario non mancò mai di essere solidale, di credere nell’uomo in nome della cui unicità non esitò ad assumere posizioni difficili che lo portarono a rompere col partito di cui inizialmente fece parte, il partito comunista; con una tradizione che aveva nella liberazione degli oppressi, i suoi oppressi, la propria ragion d’essere; con gli amici coi quali aveva condiviso ideali e battaglie, due per tutti Sartre e Merleau-Ponty.

La sua umanità parla per bocca dei protagonisti cui diede voce, come fa Raymond Rambert che, di fronte alla possibilità di tornare dalla moglie, finalmente lontano dall’orrore della peste, dall’odore della morte, a Rieux, il dottore che ha deciso di rimanere a Orano a curare i malati, risponde che no, non partirà. Resterà con loro, perché non si può essere felici da soli[14].

Ci sono “sulla terra flagelli e vittime e bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello”[15].

E allora a chi continua a chiedere perché lo scrittore, giornalista, combattente, filosofo, francese d’Algeria è così attuale, la risposta più semplice è ancora quella che ha dato la figlia Catherine: “Finché restiamo umani, Camus sarà sempre contemporaneo”[16].

NOTE

[1] Albert Camus, Questa lotta vi riguarda, Corrispondenze per Combat 1944-47, a cura di Jacqueline Lévi-Valensi, con un saggio di Paolo Flores d’Arcais, Bompiani, 2018, pag. 16.

[2] Ibidem, pag. 34.

[3] Ibidem, pag. 228.

[4] Ibidem, pag. 88.

[5] Ibidem, pag. 96.

[6] Ibidem, pag. 345.

[7] Ibidem, pagg. 347-348.

[8] Ibidem, pag. 348.

[9] Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, 2012, pag. 27.

[10] Albert Camus, La peste, Bompiani, 2017, pag. 227.

[11] Albert Camus, Questa lotta vi riguarda, Corrispondenze per Combat 1944-47, cit., pag. 328.

[12] Ibidem.

[13] Albert Camus, La peste, cit., pag. 214.

[14] Ibidem, pagg. 160-161.

[15] Ibidem, pag. 196.

[16] L’intervista a Catherine Camus è all’interno del saggio di Alessandro Bresoli, Camus. L’unione delle diversità, Spartaco, pag. 216.

(pubblicato su MicroMega. 18/11/2019)

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