La discussione sul ’69 operaio comincia adesso di Diego Giachetti

 

Il libro di Paolo Ferrero, 1969: quando gli operai hanno rovesciato il mondo. Sull’attualità dell’autunno caldo (Derive Approdi, 2019), pubblicato sul finire dell’anno del cinquantesimo anniversario delle lotte operaie e non solo, non chiude il dibattito, che qua è là s’è fatto nei mesi precedenti, lo apre con interrogativi, domande e interpretazioni che strappano la ricerca dal puro esercizio di accumulazione di un sapere senz’anima, incapace di essere utile al presente.

 Ridare fiato alla storia

Fin dalle prime pagine l’autore mette le mani in avanti con una serie di premesse necessarie. Diversamente dal mantra ripetuto e diffuso, il ’69 delle lotte operaie non è stato un fenomeno solo italiano, s’accompagnò con altrettanti episodi di lotta di classe operaia nei paesi europei, negli Stati Uniti, in Argentina e altri ancora. Altrettanto sbagliato è separare il ’69 dal ’68, come fanno i grandi narratori da rotocalco. Questa operazione editoriale, non storica, serve a nascondere il conflitto di classe, a stravolgere e deformare il ’68 presentandolo come un fattore di modernizzazione della società. Letto assieme al ’69 invece diventa una pagina – tra le migliori – della possibilità di cambiare il Paese. Avendo osato sfidare il sistema per cambiarlo, quel movimento di massa segnò la sua condanna postuma odierna. Infatti è stato rimosso perché non addomesticabile, non integrabile, è un’opposizione reale che non sta nella narrazione leggera postmoderna del passato. Nella storia italiana, attraversata da cambiamenti, più subiti che partecipati dal popolo, il biennio ’68-69 si distinse per una grande partecipazione di massa che trova riscontro, in dimensione minore ma significativa, nell’esperienza della lotta partigiana del 1943-45. Quelle lotte aprirono un periodo di effervescenza democratica che animò la società civile, attraversata da movimenti e conflitti, dal protagonismo di strati sociali, precedentemente esclusi o malamente rappresentati.

Per cosa e come si rivoltarono i lavoratori

Le ragioni della protesta e della rivolta furono molteplici, fuori e dentro la fabbrica. Il processo di inurbamento massiccio di centinaia di migliaia di persone, prodotto dalle migrazioni interne, comportò problemi di integrazione sociale per i nuovi arrivati nelle città, nei luoghi di lavoro, nelle strutture politiche e sindacali del movimento operaio. Le condizioni di lavoro erano pesanti e faticose, il cottimo mordeva il tempo e le braccia, il lavoro a catena usurava fisicamente e psichicamente ed era svolto in ambienti malsani I salari erano bassi, il costo della vita era aumentato. Occorreva più salario e anche ridurre l’orario di lavoro a 40 ore settimanali. Aumenti eguali per tutti però fu la novità dirompente contro la meritocrazia fittizia e divisoria voluta dalla classe padronale di fabbrica e sovente oggetto di contrattazione categoriale da parte dei sindacati. Inoltre, non era più sopportabile il clima di caserma vigente nelle fabbriche, ne andava della dignità del lavoratore, del suo essere persona e cittadino titolare di diritti. Quando gli elementi della miscela sociale si combinarono tra loro, assunsero la forma della rivolta dentro e fuori dalla fabbrica. Laddove la lotta si fece dura, come si diceva, era perché bisognava vincere la paura della repressione, prima necessità per potersi organizzare e rivendicare dignità e diritti.

Costruzione di coscienza di classe

Quelle rivendicazioni consentirono ai lavoratori di riconoscersi come parte di una comunità di destino, luogo di relazioni e di aggregazioni intense che produssero le «istituzioni» politiche di quel movimento: delegati, consigli, assemblee, le quali operano in uno spirito del tempo caratterizzato dalla possibilità di cambiamento (“il mondo sta cambiando e cambierà di più”, diceva una canzonetta dell’epoca), dalla disponibilità alla lotta della giovane forza lavoro, dalla “maleducazione” dei meridionali, come ricordava l’operaio Luciano Parlanti, che rompeva con la forza del linguaggio la disciplina di fabbrica e sindacale. Questo soggetto in costruzione si avvalse del contributo derivante dall’incontro con militanti politici e sindacali, con gruppi e collettivi che ebbero la loro importanza nel favorire il collegamento tra lavoratori in lotta.

Si poteva fare di più

Il movimento operaio del ’69 diede corso a tutte le sue potenzialità? No, risponde l’autore. Esso conseguì importati obiettivi sul piano sindacale, cambiò il volto del paese, produsse una militanza operaia numerosa e diffusa sul territorio, ma si fermò un passo prima dal costituirsi in “soggetto rivoluzionario in grado di guidare una trasformazione sociale complessiva”. Rimase forte in fabbrica, ma timido nella società e nella politica, pizzicato nel mezzo delle politiche governative, dei compromessi storici, dei sacrifici, dei terrorismi. Eppure, esso aveva tutte le potenzialità per incamminarsi sul terreno della politica, come dimostra la sua reazione alla strategia della tensione – messa in atto con una serie di attentati bombaroli, culminati con la strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969 – che riuscì a ribaltare quel clima di paura che doveva costruire il consenso per una svolta autoritaria. L’incapacità di costruire uno sbocco politico coerente alla forza e alla radicalità di quelle lotte fu una delle più importanti cause della sua sconfitta, prima ancora della globalizzazione, della ristrutturazione e del decentramento produttivo.

La storia non è finita

La sconfitta di quel movimento operaio non ha segnato, come insistono per farci credere, la fine della lotta di classe, della borghesia e dei lavoratori. La lotta di classe ha semplicemente invertito il giro, l’hanno fatta e la fanno le classi dominanti – e la stanno vincendo- contro i diritti conquistati in quel ciclo di lotte. Se la storia non sta ferma, da dove ricominciamo? Il ’69 insegna che gli operai si ribellarono a partire da elementi concreti della loro condizione percepita come insopportabile e allo stesso tempo modificabile. Certo, oggi il luogo di lavoro non è paragonabile a quello di cinquant’anni fa, e allora? Oggi il capitalismo si presenta con il volto distruttivo nel mondo del lavoro e fuori di esso verso l’ambiente e le comunità territoriali. Esistono quindi più terreni possibili di aggregazione costitutivi di “comunità” di coscienza di classe che si formano attorno a temi quali la difesa della natura, il diritto alla salute, all’istruzione, al lavoro, contro la violenza di genere.

Ci sono movimenti a respiro mondiale, come quello giovanile che pone l’urgenza del problema climatico e quello delle donne contro patriarcato e violenza maschile, c’è una sensibilità diffusa sui temi della giustizia e della pace. Il punto di difficoltà è che questi elementi, scrive Ferrero, non dialogano tra di loro e hanno poche connessioni con la concreta situazione di sofferenza in cui vive la maggioranza delle persone. Qui si colloca il compito che spetta alla politica: mettere in relazioni segmenti sociali con linguaggi e percorsi assai diversificati, collegare il particolare al generale. È un modo efficace per contrastare la dittatura delle opinioni, diretta da chi possiede i mezzi di comunicazione e di formazione dell’ideologia dominante, che vuole “rieducare” il passato, convincerci che ogni altro modo di pensare un’altra società è un esercizio inutile.

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