Il risultato elettorale del partito socialista spagnolo è stato attribuito alla maggiore affluenza alle urne rispetto alla consultazione precedente. In Italia, qualche decennio fa i dirigenti democristiani si preoccupavano se il giorno del voto le condizioni metereologiche erano avverse, perché avrebbero ridotto il numero dei loro elettori disposti a recarsi alle urne; circostanza che non avrebbe invece intaccato la partecipazione di quelli decisi a votare comunista.
Fino agli anni ’80 il PCI veniva criticato per avere importato dall’Unione Sovietica, se pur in forme meno clamorose, il culto della personalità nei confronti del leader del partito. Oggi la maggior parte delle forze politiche che contano si presentano addirittura col nome del loro capo nel simbolo elettorale, da Berlusconi a Salvini alla Meloni. Nel breve lasso di tempo in cui ne ha avuto uno, nelle scorse elezioni europee il PD ha riscosso il maggior successo elettorale dopo la percentuale del 48% raggiunta dalla DC nel 1948. Perfino il M5S è passato dall’uno vale uno alla scelta di un capo politico.
Si moltiplicano i casi di vittorie clamorose di candidati esterni alla nomenclatura politica o che riescono a sembrare tali, comunque di rottura con le consuetudini del paese. Trump, Bolsonaro, Macron, e, di segno opposto, in Slovacchia Zuzana Caputova, l’europeista liberal che rompe il fronte di Visegrad. Analizzata col senno di poi, anche l’elezione di Obama, non a caso giunta a ridosso della più grave crisi economico-finanziaria dopo quella 1929, può essere considerata il primo segnale del nuovo trend.
La recessione provocata dalla crisi dei subprime ha provocato il crollo nella fiducia data per decenni alle forze politiche tradizionali per il sostegno dato all’affermazione senza remore della globalizzazione neoliberista, ma il prezzo più alto è stato pagato da quelle che, con tale scelta, hanno tradito il proprio DNA. La risposta elettorale ha infatti prevalentemente premiato candidati e schieramenti politici più reazionari e illiberali dei tradizionali partiti di destra, anche perché non hanno avuto remore nel proporsi come oppositori senza se e senza ma sia delle ondate migratorie provocate dall’effetto congiunto delle crisi economica e climatica, sia della globalizzazione. In più, con un’indubbia capacità nel trasformare problemi e preoccupazioni reali in paure irrazionali, sensi di insicurezza, chiusure verso ciò che è sconosciuto o semplicemente diverso. La sostituzione dei tradizionali leader con capi assoluti di partiti sostanzialmente privi di dialettica interna ne è la coerente conseguenza.
Il calo dei votanti tende quindi a essere maggiore tra gli elettori che storicamente tendevano a sostenere partiti più progressisti, in cui non si riconoscono più, e tra le nuove leve, cresciute in un contesto di sfiducia verso la politica. Poiché il tasso di democrazia cresce con la partecipazione non solo al voto, ma ancora più a forme di impegno che vanno al di là dell’ottusa difesa del proprio particolare, l’esito migliore delle imminenti elezioni europee difficilmente andrà oltre una modesta riduzione, rispetto alle previsioni, dei suffragi ai partiti sovranisti.
D’altronde, chi intende manifestare la propria opposizione a costoro con un voto che deve tenere conto del quorum introdotto per penalizzare le liste minori, sarà di fatto costretto a scegliere per sottrazione, e alla fine le opzioni disponibili saranno limitatissime.
Una situazione data, infatti, non si modifica con il voto, che sanziona i cambiamenti avvenuti prima della consultazione elettorale. E di proposte capaci di contrapporsi con efficacia alla deriva in corso non si sono viste tracce significative.
(Pubblicato su alfabeta2, il 12 Maggio 2019)
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