Dietro le pagine e tra le righe di questo libro (Giuseppe Muraca, Passato prossimo. Letteratura, storia e politica, Verona, Ombre corte, 2019) scorre la vita e la formazione culturale dell’autore, un’autobiografia che si evince dalla rassegna di temi, autori e “maestri” che compongono l’opera. La storia inizia nei primi anni Settanta, rivissuti come momento di grande fervore e di profondi e continui cambiamenti, nella città di Napoli, dove un giovane studente universitario scopre la critica letteraria e politica attraverso lo studio e il confronto nei gruppi seminariali con autori all’epoca di estrema attualità: Dieci inverni e Verifica dei poteri di Franco Fortini, Scrittori e popolo, Intellettuali e classe operaia e La cultura di Asor Rosa, Empirismo eretico e Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, Corporale di Volponi, Ideologia e linguaggio di Edoardo Sanguineti e altri ancora.
Di Fortini apprezza l’attraversamento delle tendenze politiche, culturali e letterarie senza rimanerne ingabbiato, restando fedele al suo sentirsi “ospite ingrato” del marxismo, dell’esistenzialismo, della critica letteraria, come fosse un corpo estraneo che infrange regole e valori costituiti. Un intellettuale che non ha mai ceduto al compromesso e alla conciliazione. Fortini apre la ritrattistica dei suoi maestri e compagni, seguono Carlo Muscetta, Norberto Bobbio, Luciano Della Mea, Luciano Bianciardi, Alberto Asor Rosa, Romano Luperini, Attilio Mangano. Tutti esempi di impegno culturale e letterario unito a quello politico, non senza scarti e contraddizioni.
Contro l’intellettuale “massa”
La loro è stata una lotta contro quella massificazione del lavoro intellettuale che avanza imperiosa sostituendo all’egemonia marxista nell’ambito della cultura e della ricerca storico-sociale, quella del pensiero unico che trasforma scrittori e intellettuali in salariati. La loro intelligenza creativa diventa merce da commerciare con profitto. Chi cerca di rimanere autonomo, indipendente dai gruppi editoriali e dal gusto del pubblico, finisce coll’appartarsi ripiegando nelle lamentazioni personali. Percepiscono l’alienazione, il disagio e la sofferenza e assumono un atteggiamento malinconico e triste, che è un modo come un altro per rifugiarsi nelle proprie debolezze: una maniera elegante di sentirsi oppressi, diceva il sociologo statunitense Wright Mills. Così, smarriti si ritraggono dal conformismo corrente e dominante senza però opporvi una critica e una presa di posizione.
Contro la rassegnazione impotente o l’assunzione come dipendente dell’impresa editoriale e culturale, occorre reagire, come fecero i “maestri” ricordati da Muraca, senza ricadere, per dirla con Scrittori e popolo di Asor Rosa, in quell’atteggiamento pietoso e umanitario che la maggior parte degli scrittori italiani aveva mantenuto nei confronti delle classi subalterne, sintomo di asfittico provincialismo, che le rappresentava in maniera mitologica e mistificata, tanto che l’andare verso il popolo di molti di loro si traduceva in un impegno generico, che smarriva qualsiasi impronta classista e rivoluzionaria. Interessante in merito è la lettura critica che fa Muraca dell’opera di due scrittori calabresi evidenziando la relazione tra tradizione regionale e letteratura nazionale.
È in quest’ambito e in quel tempo che matura la vocazione culturale e politica dell’autore, accompagnata dalla scoperta delle riviste del dissenso marxista e non solo degli anni Cinquanta e Sessanta, prima fra tutte “Quaderni Piacentini”. Nel libro particolare attenzione è dedicata alla controcultura giovanile degli anni Sessanta e Settanta attraverso l’esame di due riviste specifiche: “Mondo Beat” e “Re Nudo”. Gli anni Settanta, quelli del prevalere dell’impegno politico diretto e militante, sono considerati attraverso la disamina del romanzo Vogliamo tutto di Nanni Balestrini e del saggio storico-narrativo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, di Aldo Cazzullo.
Il dovere dell’intellettuale
Tema sempre presente, fin dal primo capitolo, è quello della funzione dell’intellettuale. La Scuola di Francoforte riduceva la prassi dell’intellettuale al lavoro di analisi e di critica teorica della società presente e osservava con diffidenza l’impegno politico diretto perché temeva il rischio di cadere nel volontarismo e nella prosaicità dell’immediato. Brecht e Lukàcs criticarono questa presa di posizione considerata titubante e poco ardita; tutti però concordavano nell’affermare il principio di non cedere alla collaborazione col potere dominante e mantenere fede all’integrità dell’intellettuale.
Muraca confessa candidamente la convinzione che “certe volte c’è da imparare di più da un bel romanzo o da un bel libro di poesie, che da dieci libri di saggistica”. Con questo spirito propone una interessante lettura del rapporto tra Aldo Palazzeschi e il movimento futurista del primissimo Novecento, al fine di cogliere lo spirito del tempo dell’età giolittiana e lo sprofondamento patriottico e nazionalista che travolse le nazioni europee nella Prima guerra mondiale. A differenza della stragrande maggioranza dei futuristi, ardentemente favorevoli alla guerra, Palazzeschi difende una posizione neutralista e pacifista che nasce da motivazioni di carattere etico, umano e letterario più che da una dottrina politica. A proposito denuncia il “tradimento” degli intellettuali che, invece di contrastare con la forza delle parole e degli atti la corsa verso il massacro, hanno osannato la guerra condividendo la retorica dannunziana. Scriveva Palazzeschi: “tutto ciò che c’è di deleterio in Italia è del D’Annunzio. Raccoglie egli la fiaccola lasciata a terra da quella vecchia chitarra del Carducci, che a sua volta la raccoglie da quell’altro trombone sfiancato dell’Alfieri” (Due imperi… mancati, Mondadori, Milano, 2001, p. 167).
Lontani dal passato prossimo
L’oggi ci consegna un mondo opaco e allo stesso tempo ferocemente indifferente. Il crollo dei paesi del socialismo reale, ha trascinato con sé la crisi del marxismo e del movimento operaio coi suoi partiti e le sue istituzioni. Ciò comporta la necessità di liberarsi dei vecchi schemi di pensiero in un contesto di crisi che interessa non soltanto quello marxista ma un’intera tradizione culturale. Bisogna ripartire, scrive l’autore, riaprendo la catena dei perché, avviare un ripensamento teorico e politico per rifondare un punto di vista alternativo, inventando nuovi strumenti di conoscenza e di trasformazione della realtà.
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