Ecco un libro (Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Molteni editore, 2019) di cui avremmo potuto facilmente sbarazzarci inserendolo tra quelli sconsigliati, “da non leggere”, come abbiamo fatto con Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (che tuttavia abbiamo letto). Ne parliamo invece per due ragioni: la prima è data dal suo bel titolo (sebbene sia peggiorato dal sottotitolo, che suona “Dalla disfatta della sinistra al momento populista”), e la seconda è che questo libro offre – in una forma diretta, che utilizza anche il registro stilistico delle tesi – un compendio di tutti gli errori che funestano oggi quella parte della sinistra cosiddetta radicale ascrivibile al “populismo di sinistra”.
Sono esposte in modo così chiaro le idee di questo libro che ci sentiremmo di consigliarlo, ammesso che leggano ancora qualcosa, anzitutto ai nostri ex amici del Ponte (da cui la Fondazione per la critica sociale si è separata l’anno scorso), affinché ci dicano se è questo che essi pensano, se cioè condividono, e fino a che punto, le posizioni di Formenti. Che sono in sintesi le seguenti: 1) sono dei “cretini” quelli che non vogliono accorgersi che il cosmopolitismo “borghese” illuministico, basato sul mercato, ha cancellato un internazionalismo che potrebbe poggiare solo su una parità delle differenti comunità e dei diversi Stati nei loro rapporti reciproci; 2) di conseguenza un sovranismo statale neogiacobino (non etnico!) è l’unica risposta al capitalismo progressista liberal-liberista, cui non solo le socialdemocrazie si sono adeguate ma anche il pensiero post-operaista è subalterno; 3) non può più esserci un soggetto rivoluzionario all’interno del processo capitalistico (“dentro e contro”, secondo un vecchio slogan), però può esserci la costruzione di un “popolo”, a partire da varie forme di resilienza o resistenza esterne, capace di servirsi dello Stato in una prospettiva inizialmente democratica nazional-popolare e successivamente orientabile, almeno in linea di principio, verso il socialismo; 4) l’Europa non è stata altro che un esempio di “lotta di classe dall’alto” contro i ceti subalterni, e per questo la scelta politica, per i paesi del Sud del continente ridotti a subire una sorta di dominazione neocoloniale da parte della Germania, sarebbe quella di riprendersi la loro indipendenza uscendo dalla moneta unica e, più in generale, dalla Unione europea. Di qui l’attenzione, e anche qualcosa di più, che l’autore riserva al Movimento 5 Stelle e al suo esperimento di governo con la Lega – per non dire di tutto quanto, da Sanders a Corbyn e a Mélenchon, passando per Podemos, egli include, senza preoccuparsi troppo di distinguere, nel “populismo di sinistra”.
La prima domanda che andrebbe posta a Formenti è se ricorda che l’internazionalismo di matrice socialista riguardava non gli Stati nazionali ma gli oppressi e gli sfruttati. Essi erano per definizione i senza patria che avrebbero dovuto unirsi, al di là delle diverse appartenenze di origine, per affermare un universalismo più sostanziale rispetto a quello illuministico borghese. Certo, poi la liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo spinse a prendere in considerazione come articolazioni della lotta per il socialismo anche gli Stati nazionali dei “popoli oppressi”. C’è stata sì storicamente una differenza tra un’aspirazione cosmopolitica insofferente dei confini tra gli Stati e questo internazionalismo fondato sulle lotte di quello che era il “terzo mondo”: ma ciò valeva appunto per quella parte di mondo; nessuno si sarebbe sognato, nel Novecento, di considerare qualcuno degli Stati industrialmente avanzati alla stregua di un paese del Sudamerica o dell’Africa. Uno degli aspetti che hanno obiettivamente avvicinato una prospettiva cosmopolitica (per esempio quella di una confederazione di Stati alla maniera kantiana) e quella internazionalista è il fallimento delle costruzioni statali nate dal processo di decolonizzazione. Un fallimento non dovuto soltanto a cause esogene come il neocolonialismo, ma anche a cause endogene, cioè al disastro indotto dalle cosiddette borghesie nazionali e dalle élite, per lo più militari, che hanno guidato il cambiamento in paesi come l’Algeria o, mutatis mutandis, in quell’Argentina che, pur senza essere mai stata formalmente una colonia, dal punto di vista economico era un satellite dell’imperialismo britannico e di quello statunitense, prima di diventare con il peronismo la culla dei populismi contemporanei (compreso quello teorico di Laclau).
Un protezionismo statale da parte dei paesi ricchi sarebbe oggi per lo più ai danni di quelli poveri o in via di sviluppo, come si dice con espressione pudica; e un concetto come quello di delinking introdotto da Samir Amin, applicato non ai paesi postcoloniali ma a quelli dell’Europa meridionale, che sono parte dell’insieme delle potenze occidentali, avrebbe lo stesso significato di una restaurazione borbonica con il pretesto che l’unità italiana – cosa peraltro vera – fu fatta ai danni del Mezzogiorno. Significherebbe riportare indietro l’orologio della storia, sia pure con le migliori intenzioni.
Ciò di cui non si rendono conto i sovranisti “di sinistra” è che su quel piano sarebbe poi praticamente impossibile distinguersi da quelli di destra. Qualsiasi tentativo di ritorno indietro rispetto alla pur difettosa costruzione europea assumerebbe inevitabilmente una connotazione etnico-nazionalista – cioè xenofoba, come sta accadendo in Italia e negli altri paesi governati dai populisti – e nient’affatto neogiacobina. Del resto la stessa riflessione di Gramsci, cui Formenti in parte si rifà, già ai suoi tempi non intendeva affatto riaffermare l’impostazione giacobina quanto piuttosto criticarla come incapace di costruire un autentico “blocco storico” in grado di battersi per l’egemonia. Se si stacca la riflessione gramsciana dalla sua idea di democrazia consiliare, di lotta contro la separazione tra governanti e governati, se si è disposti a venire a patti – sia pure in via transitoria, come Formenti – con il leaderismo carismatico, con il “significante vuoto” alla Perón in cui si raccoglierebbero istanze diverse di liberazione, non si prospetta in nessun modo una rivoluzione nazional-popolare, basata sull’alleanza tra diversi soggetti, ma uno strano cocktail tra destra e sinistra (considerate categorie ormai superate) in cui è la destra a prevalere. È quello cui stiamo assistendo in Italia: nemmeno il pur vago “populismo di centro” grillino riesce a condurre il gioco dell’attuale governo ma la più lineare impostazione di estrema destra della Lega.
Il libro di Formenti infine dimentica che lo statalismo socialista, sia nella versione socialdemocratica sia in quella comunista autoritaria, ha fatto il suo tempo. Non si tratta evidentemente di riproporre la tematica dell’estinzione dello Stato: piuttosto si tratterebbe di rifondare la democrazia in senso sociale, a partire non dall’idea di nazione ma da quella di un legame federativo transnazionale che dia vita a entità statali sovranazionali – le uniche che potrebbero, se guidate da forze di sinistra, dare di nuovo linfa a politiche ridistributive di tipo keynesiano. Ciò per quanto riguarda il processo federativo “dall’alto”, a cui, “dal basso”, farebbe da controcanto la tendenza di tutti gli oppressi a unirsi secondo il principio che non possono esserci confini tra chi si trova in difficoltà a casa propria e chi fugge dalle guerre e dalla miseria.
(pubblicato da Fondazione per la critica sociale, 18 marzo 2019)
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