Alberto Pantaloni in questo libro (La dissoluzione di Lotta continua e il movimento del ’77, Roma, Derive approdi, 2019) tratta del finale della partita politica aperta da Lotta Continua a Torino, città nella quale l’organizzazione aveva trovato la sua – non unica – ragione costitutiva. Nata come espressione organizzata dell’incontro tra settori del movimento studentesco e operaio nel biennio 1968-‘69, nuovamente nel movimento detto del ’77 trovò l’ambiente per una lenta dissoluzione. Un’organizzazione nata extraparlamentare convinta che fosse la lotta e non il voto a decidere delle sorti rivoluzionarie, s’inceppò sull’esito del risultato elettorale del cartello di Democrazia Proletaria (1,5%) nel 1976, dopo avervi aderito all’ultimo momento, rivedendo la posizione assunta l’anno prima di votare per il Pci.
Fu una delusione dovuta a previsioni sbagliate, del tutto ottimistiche, già all’epoca considerate da altre forze politiche esagerate: buona affermazione di Dp, maggioranza alle forze di sinistra, che invece ottennero complessivamente il 47% dei consensi, Pci al governo incalzato dai movimenti sociali e politici. Il risultato elettorale pose fine a quelle speranze, e trascinò, per deduzione, la disillusione circa la possibilità di cambiare le cose attraverso gli strumenti e i metodi classici della lotta politica. Non era però il momento di tornare “tutti a casa”, la spinta ricevuta dalla partecipazione alle lotte degli anni precedenti era stata forte, non poteva arrestarsi all’improvviso.
Nel 1976, l’ultimo congresso di Lotta continua evidenziò l’avvenuta incapacità, in parte dovuta anche il ritrarsi della volontà di direzione da parte del gruppo dirigente, di tener vivo un progetto di sintesi politica tra le varie componenti dell’organizzazione: i giovani in senso lato, gli studenti, le donne, gli operai, il servizio d’ordine. In un’organizzazione sempre più policentrica, il dialogo prima s’arrestò, poi si bloccò in una logica di schieramenti che divenne un confronto fra sordi e favorì la segmentazione in parti sociali non più contenibili in programmi, tattiche, mediazioni politiche condivise.
L’esito fu una lunga agonia, non scioglimento immediato, con speranze di possibili resurrezioni. Le donne i giovani studenti e operai si inserirono nel movimento femminista e nell’esplodente movimento del ’77, coltivando la speranza rigenerativa del bagno salvifico in esso. Il quotidiano rimase punto di riferimento dell’aerea scomposta e si candidò a diventare il giornale del movimento. Una parte dell’organizzazione provò a resistere, riannodare i fili di un ragionamento organizzativo e nel 1978 costituì Lotta continua per il comunismo. Tutto ciò mentre il quadro economico e politico stava cambiando repentinamente. Il Pci realizzava il compromesso storico inserendosi nell’area governativa, assieme tutti i partiti di quello che allora si chiamava l’arco costituzionale, e la crisi economica mordeva il Paese dopo gli anni dello sviluppo e del “boom”.
Il movimento del ‘77 a Torino
Nella seconda parte del libro l’autore ricostruisce, con un’analisi precisa e dettagliata, il contesto nel quale si sviluppò il movimento del ‘77 a Torino e le sue componenti. Inizia con un’analisi delle mobilitazioni sindacali e dei lavoratori, dello stato di salute del movimento operaio e dei momenti di incontro e contaminazione con la contestazione giovanile, che fu uno degli aspetti peculiari dell’esperienza torinese mediante la costruzione di coordinamenti operai-studenti, la collaborazione di alcuni Circoli con le mobilitazioni operaie, l’Intercategoriale donne attraverso il quale il femminismo tentò influenzare l’agenda politica tanto del movimento, quanto delle organizzazioni sindacali. Esaurientemente trattate sono le varie componenti del movimento: le donne, quello che si definì proletariato giovanile, il movimento studentesco, le loro mobilitazioni, i loro obiettivi e i luoghi di aggregazione, che sorgevano come risposta alla critica della militanza tradizionale, dalla ricerca di “un nuovo modo di fare politica” e, infine, lo scivolamento di una parte minoritaria del movimento verso forme di lotta illegali e poi la scelta della lotta armata.
Scelta sulla quale influirono diversi fattori contingenti. La dissoluzione di Lotta continua, la crisi degli altri gruppi della sinistra rivoluzionaria, l’atteggiamento di chiusura del Pci, la crescente insofferenza e frustrazione giovanile, la politica governativa intesa a gestire le rivendicazioni sociali esclusivamente come problemi di ordine pubblico, spinsero alla convinzione che non esistevano spazi di gestione o di mediazione politica dei conflitti. Per una parte minoritaria quel contesto fu la molla che fece scattare la decisione di indirizzarsi verso la lotta armata. A Torino questo ruolo fu assunto dal gruppo che pubblicava il periodico Senza tregua e successivamente da Prima linea, formazioni che raccolsero l’adesione di una parte del servizio d’ordine di Lotta continua, scioltosi nell’estate del ’76.
Tante militanze
La pluralità dei soggetti protagonisti di un movimento “raccoglitore” di elementi segmentati produsse per i partecipanti una quotidiana dissipazione di energie in riunioni e incontri di vario genere, col rischio di incorrere nei processi dissociativi dovuti ai processi associativi. La vita quotidiana di un aderente al movimento del ’77 poteva comportare la partecipazione alla riunione d’istituto o di facoltà, del circolo del proletariato giovanile, dove incontrava anche operai che avevano appena partecipato al collettivo operai e studenti oppure al consiglio di fabbrica, poi ritrovarsi tutti nell’assemblea generale del movimento presso l’università e infine, per chi lo aveva mantenuto, recarsi alla riunione del proprio gruppo politico. Per le giovani donne a tutte queste riunioni si aggiungeva la partecipazione al movimento femminista nelle sue varie articolazioni tematiche. Esemplare in proposito l’esperienza dei Circoli del proletariato giovanile che presero vita a Torino fra l’estate e l’autunno del ’76. Si trattò di un processo che aggregò giovani provenienti da esperienze militanti nei gruppi della sinistra extraparlamentare, giovani delegati di fabbrica, disoccupati, studenti e studentesse. Essi furono luoghi d’incontro di due motivazioni non sempre conciliabili: continuare in forme nuove l’azione politica collettiva e organizzata; dare spazio al soddisfacimento di desideri e bisogni di tipo individuale. Una duplicità che spesso attraversava il comportamento e la volontà di uno stesso individuo, una specie di militanza “plurima” interna al soggetto.
Cronologicamente il movimento del ’77 ebbe vita breve, già dopo l’estate era in via di esaurimento. Fatti drammatici accaduti a Torino accelerarono la crisi. Ai primi di ottobre, la morte del giovane studente-lavoratore Roberto Crescenzio provocò lo sbandamento del movimento, che contemporaneamente veniva fatto oggetto di attacchi repressivi. Circa un mese e mezzo dopo, il 16 novembre del 1977, l’omicidio di Carlo Casalegno, ad opera delle Brigate Rosse, diede il colpo definitivo a un movimento già in crisi. Una crisi che aveva anche radici politiche, conclude l’autore, dovute all’incapacità di sciogliere il nodo di come architettare una strategia per la rivoluzione sociale sui tempi lunghi, la stessa che aveva fatto implodere Lotta continua. Il ’77 aveva contenuto la diaspora e la disillusione dei militanti lottacontinuisti, il suo esaurimento lasciò il campo al riflusso nelle dimensioni del privato o la decisione di aderire all’insurrezionalismo armato minoritario. L’esperienza si esaurì senza essere stata capace di trovare uno strumento sostitutivo alla forma organizzata del partito, che il movimento aveva criticato e promesso di superarla con la costituzione dei circoli del proletariato giovanile, dei collettivi e delle assemblee, intese come articolazione di un perenne agire del movimento.
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