Il movimento delle donne: «Si parte dal quotidiano per investire l’intero ordine esistente». Intervista a Lea Melandri (a cura di Marco Deriu)

 

Negli ultimi anni i movimenti delle donne in tutto il mondo stanno rovesciando costumi, mentalità e comportamenti vecchi di secoli o millenni. Come leggi questo movimento? Dal tuo punto di vista, si tratta di un movimento che sta riuscendo ad andare in profondità e a radicarsi nelle mentalità e determinare un vero rivolgimento? CI sono a tuo avviso terreni o questioni sulle quali occorre insistere con maggiore radicalità?

 

Prima di tutto è importante dire che il movimento delle donne è l’unico sopravvissuto agli anni ’70, benché da più parti sia stato spesso dato per morto o silenzioso. Se ha avuto un andamento carsico è perché le grandi manifestazioni a cui ha dato vita nell’arco di mezzo secolo sono passate quasi sempre nel silenzio dei media, soprattutto nel nostro Paese. Penso in particolare a quella più vicina nel tempo, che ha visto “collettivi femministi e lesbici” a Roma il 25 novembre del 2007 portare per la prima volta allo scoperto la violenza maschile contro le donne in ambito domestico. Da allora, un fenomeno che era rimasto nell’ombra, confinato nella cronaca nera, o attribuito alla patologia del singolo, è entrato nel dibattito pubblico, riconosciuto come dato strutturale di un dominio che dura da secoli e che, sia pure in forme diverse, attraversa tutte le civiltà. Si può dire che paradossalmente la violenza sessista nelle sue forme manifeste –stupri, maltrattamenti, persecuzione, femminicidi- viene a tema per ultima, trovando conferme in allarmanti Rapporti internazionali e nelle battaglie femministe di varie parti del mondo. La violenza maschile diventa “emergenza”, nel senso letterale della parola, quando a essere toccata dalla libertà delle donne è la “normalità” del rapporto di potere tra i sessi: i ruoli famigliari, la certezza della sottomissione femminile, la messa in discussione dei generi, la diffusione della cultura femminista nelle scuole e nelle istituzioni della vita pubblica. Se non ci si ferma all’immagine della donna “vittima”, il cambiamento che più inquieta e spinge a reazioni aggressive, ripiegamento su valori tradizionali di patria e famiglia, è proprio il protagonismo che in forme differenti vede oggi le donne battersi in tutto il mondo, non solo per i per i loro diritti ma per un modello diverso di cultura e di civiltà. La forza e la durata di una rete come Non Una Di meno deve sicuramente molto alla sua diffusione internazionale e al fatto che si tratta di una generazione giovanissima, più libera da pregiudizi di quanto non fossero le loro nonne e madri, e allenata alle nuove tecnologie comunicative, che rendono più facile e rapida l’azione l’organizzazione collettiva su larga scala. Ma la sua radicalità e possibilità di radicamento sta soprattutto nel fatto di aver portato attenzione nuove consapevolezze sui “nessi” che legano da sempre sessismo, razzismo, classismo, omofobia, lesbo e trans fobia, regimi autoritari. Torna in sostanza la sfida ambiziosa del femminismo degli anni Settanta: “modificazione di sé e modificazione del mondo”. Si parte dal quotidiano per investire l’intero ordine esistente.

 

In questo periodo stiamo vedendo uno spostamento a destra dell’elettorato politico in molti paesi. In alcuni casi i nuovi leader, capi di stato o di governo, sono apertamente maschilisti e sessisti e ripropongono linguaggi e schemi di lettura reazionari anche sul piano delle relazioni tra i sessi. Come mai a tuo avviso mentre le donne sono al centro di manifestazioni e di movimenti politici e culturali in tutto il mondo, contemporaneamente vediamo prendere piede movimenti e partiti politici tradizionalisti? Ci sono relazioni o premesse di fondo tra queste due cose o è semplicemente frutto di una polarizzazione sociale nelle società contemporanee?

 

Il ritorno, a cui assistiamo in vari paesi del mondo, a forme di autoritarismo, chiusure identitarie, nazionalismi, leggi di stampo razzista, ideologie populiste che cercano consenso alimentando odi e paure, è mosso da fattori diversi. Ha molto a che fare con una politica sempre più “separata” dalla vita, dalla quotidianità e dalle condizioni materiali di sopravvivenza sempre più precarie della maggioranza dei cittadini. E’la crisi della politica che già si avvertiva negli anni Settanta, quando hanno cominciato a modificarsi i confini tra privato e pubblico, con la conseguente scoperta della politicità di esperienza essenziali dell’umano –come la sessualità, la maternità, la cura, la salute, la morte- consegnate per secoli al vissuto personale e naturalizzate, cioè “non politiche. Di questo profondo cambiamento il movimento antiautoritario nella scuola e il femminismo sono stati al medesimo tempo il sintomo e la prefigurazione di un’idea diversa della politica, interrogata a partire dal suo atto fondativo: l’esclusione di metà del genere umano, il confinamento della donna nel ruolo di moglie e madre, identificata col corpo – erotico e generativo-, ma anche di tutte le esperienze che hanno il corpo come parte in causa. La crisi della rappresentanza e più in generale delle istituzioni pubbliche, famiglia compresa, se da un lato vedeva la comparsa di “soggetti imprevisti”, come i giovani e le donne, che avrebbero potuto aprire prospettive di civiltà inedite –una politica “portata alle radici dell’umano”-, per l’altro portava allo scoperto le “viscere della storia”, formazioni arcaiche e pregiudizi mai tramontati nel lungo corso della storia e pericolosi se non indagati, tenuti sotto controllo. Fuori dai dualismi, che hanno contrapposto il corpo e la polis, si trattava di trovare i nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, tra il “cittadino” e la persona nella sua interezza. Per il femminismo, allora come oggi, l’ipoteca era più alta: non si trattava di allargare le maglie della cittadinanza, ma di produrre una cultura totalmente altra, antagonista, che non integrava ma metteva in discussione quella maschile fino allora dominante. Avveniristica e impossibile allora, questa “rivoluzione “ che parte dal “sé” per scardinare saperi e poteri dell’ordine esistente, patriarcale e capitalista, oggi si può dire che è in atto nelle scelte libere delle donne, nel rifiuto di ruoli di sottomissione, e soprattutto nel lavoro culturale e politico delle loro associazioni , dei loro movimenti. Questo terremoto che torna a interrogare la “virilità” , dai rapporti intimi alle sue ricadute sociali e politiche, inquieta una comunità maschile sempre più incerta nei suoi privilegi “naturali” e, se anche non è la prima causa dello spostamento a destra di tanti governi del mondo, sicuramente ne è uno dei fattori determinanti.

 

Vorremmo chiederti anche dell’«L’erba voglio», la rivista che hai creato insieme a Elvio Fachinelli e di cui hai recentemente curato un’antologia . Si trattava di un’esperienza complessa che ha seminato e intrecciato diversi temi e contesti di esperienza (educazione non autoritaria, psicoanalisi, antipsichiatria, femminismo, operaismo, antimilitarismo ecc…). A tuo parere quali sono i luoghi o le esperienze che più si sono giovati di quella lezione?

 

Ho detto spesso che la “lezione” della rivista “L’erba voglio”, e in particolare del pensiero di Elvio Fachinelli, nell’intreccio tra psicanalisi e politica, è più attuale oggi di allora, paradossalmente proprio per la sua “inattualità”: l’uscita dal dualismo tra biologia e storia, individuo e società, sentimenti e ragione, la scandalosa inversione tra vita e politica, tra sogno e realtà, la ricerca di nessi tra la “preistoria” che ci portiamo dentro e i cambiamenti veloci della storia. La radicalità delle esigenze che ponevano il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo erano, si potrebbe dire, il “possibile” in quel momento “impossibile”, ma proprio per questo destinate a ripresentarsi. Mi è difficile dire quale seguito abbia avuto nella scuola nei decenni successivi una pratica che voleva essere “distruttrice” di tutte le forme di potere e di controllo che passano attraverso l’educazione, e “liberatrice” di presa di parola, creatività, dissenso, esercizio collettivo del potere, egualitarismo, messa in discussione dei saperi e linguaggi tradizionali. So soltanto che, con mia meraviglia, da due anni a questa parte, sono stati gruppi e collettivi di giovani maestre –in particolare le “Cattive Maestre” di Roma- a chiedermi incontri sulla rivista, che avevano letto online, e sul pensiero di Elvio Fachinelli. L’interesse crescente per quella che oggi si chiama l’“educazione di genere” mi piace pensare che abbia una sia pure lontana parentela con il tentativo, presente in tanti scritti della rivista, di “portare il corpo a scuola”. Attraverso di me e altre redattrici, come Luisa Muraro, il femminismo fu allora molto presente nella rivista, con documenti importanti, come “Pratica dell’inconscio e movimento delle donne”. Racconto di esperienze, convegni, ecc. L’originalità del gruppo Erba voglio fu quello di interrogare l’agire politico partendo dalle singolarità incarnate di donne uomini, e da questo punto di vista, mi sembra di ritrovarla in tutti i movimenti che nel corso di mezzo secolo si sono ripresentati sulla scena pubblica nel tentativo di indirizzare il cambiamento in atto tra privato e pubblico verso la ricerca di nessi tra corpo, individuo e legame sociale, fuori sia dall’individualismo e dall’atomizzazione neoliberista che da nostalgici ripiegamenti comunitaristi.

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