Nel settembre scorso Pordenonelegge ha pensato di ricordare il cinquantesimo anniversario del Sessantotto chiedendo ad alcuni poeti di tenere delle conferenze sulle parole decisive del movimento. A me è stata assegnata la parola “Rivoluzione”. Questa è la versione scritta del mio intervento. Presto uscirà insieme agli altri in un volume complessivo curato dagli organizzatori del festival. Ringrazio Pordenonelegge per l’invito e per aver autorizzato questa anticipazione].
Il Sessantotto è stato due cose diverse, due cose che per circa un decennio sono apparse indistinguibili, ma che in seguito si sono progressivamente separate.
- È stato l’ultimo episodio dell’età delle rivoluzioni sociali moderne, quelle fondate sull’idea di giustizia distributiva e sulla secolarizzazione della teodicea, cioè sull’idea che il male abbia una causa storica e umana sulla quale la politica può intervenire costruendo una società nuova. È un’epoca scandita da una sequenza di date allegoriche: 1789, 1848, 1871, 1917. Il 1968 rappresenta l’ultima cifra della serie; chi è sceso in piazza e ha occupato le università dell’Europa occidentale lo ha fatto con bandiere, striscioni e slogan che rimandavano a quella sequenza. L’utopia di fondo cui questo Sessantotto si richiama è il comunismo. Contro il modello fallito del socialismo reale il movimento recupera il mito della Comune, dei Soviet, dei consigli operai. A queste forme alternative di gestione della cosa pubblica, a queste scene deliberative del passato si ispira la più importante scena deliberativa del Sessantotto: l’assemblea. Benché il movimento sia nato come mobilitazione di studenti di origine borghese, il soggetto politico cui questa parte del Sessantotto guarda rimane lo stesso del comunismo storico: il proletariato, e in particolare l’operaio maschio. Nel corso degli anni Settanta la concezione del proletariato cambia; alla classe operaia di fabbrica si affianca il proletariato sociale, diffuso, ma il significante-guida non muta. Il proletariato è la classe universale, come dice Marx, quella che, difendendo i propri interessi particolari, lavora per abolire lo sfruttamento di tutti, la divisione in classi, l’alienazione, e per consentire a ognuno di esprimere pienamente la natura umana nella sua interezza. Scopo ultimo è l’uscita della specie dalla preistoria, dall’epoca millenaria nella quale gli individui hanno agito come automi mossi da un potere estraneo, e non come soggetti liberi. Gli elementi preistorici che il Sessantotto vuole abbattere sono la gerarchia (l’idea che ogni sistema sociale comporti necessariamente dei rapporti di subalternità), l’alienazione del lavoro (il lavoro salariato moderno come equivalente capitalistico del lavoro degli schiavi) e l’isolamento (l’idea che il capitalismo spezzi ogni forma di solidarietà separando le persone e mettendole le une contro le altre). Le più importanti parole d’ordine del Sessantotto – il rifiuto dell’autorità, il rifiuto del lavoro alienato, il rifiuto dell’individualismo borghese – provengono da questo nucleo.
- Il Sessantotto è stata una rivoluzione interna alle società capitalistico-liberali. Ha ridefinito i rapporti fra le età della vita, il rapporto con l’autorità genitoriale e pastorale, il rapporto fra i sessi, il rapporto col sesso e col corpo, l’ethos, l’habitus, i costumi, la relazione fra Super-io e Es. Lo spirito di questa rivoluzione è libertario, privato, individualistico e anarchico: anarchico nel senso lato e etimologico di an archè: assenza di governo, di autorità originaria. Il Sessantotto segna il passaggio da una società borghese superegotica, ancora legata a un ethos religioso palese o secolarizzato, fondata sull’ascesi intramondana, sul controllo di sé e degli altri, sull’etica del sacrificio, su un a priori in cui le norme collettive di comportamento contano molto e l’individuo vive sotto lo sguardo degli altri, a una società che funziona bene, anzi meglio, senza questa corazza – una società che ha ancora una struttura di fondo di tipo borghese, ma che ha reso autonomi alcuni comportamenti privati. Se il tempo di lavoro resta organizzato secondo i principî severi della razionalità strumentale, gli stessi che dominano il capitalismo, l’esercito o la burocrazia, il tempo libero sfugge a un occhio collettivo regolatore e diventa sempre meno disciplinato nelle scelte personali e nei costumi. Questa rivoluzione è stata per lo più vissuta come un’emancipazione: pochi vorrebbero tornare indietro, sicuramente non io. Per alcuni aspetti tutto questo coincide con l’immagine dell’emancipazione presente nei testi fondamentali del marxismo, e tuttavia è molto diversa dall’idea marxista classica di giustizia sociale: si articola in modo diverso, parla a soggetti sociali diversi, ma soprattutto è compatibile col capitalismo, ne è anzi un portato, una conseguenza. Se si definiscono la destra e la sinistra sulla base dei parametri che valgono per l’età delle rivoluzioni sociali, la rivoluzione libertaria non è, in linea di principio, né di destra né di sinistra – e infatti, a partire dagli anni Ottanta, circola in versioni di sinistra e in versioni di destra. La tesi che Berlusconi sia il compimento del Sessantotto (Perniola, Magrelli, e prima di loro Žižek), provocatoria quanto si vuole, coglie un dato reale. Il Sessantotto annuncia una metamorfosi interna alle società capitalistiche, la sostituzione della vecchia borghesia perbenista con una nuova middle class obbediente sul lavoro ma anarcoide nel privato. Aron, Lasch e Pasolini in tempo reale, Houellebecq e Boltanski-Chiapello trent’anni dopo l’hanno detto molto chiaramente. Lo spirito del Sessantotto è diventato parte della nuova società di massa nata dalla mutazione antropologica e parte del nuovo spirito del capitalismo, che concede, in forma privata e diluita, alcune di quelle conquiste che il comunismo prometteva come risultato di una rivoluzione sociale collettiva. Le concede a patto che non si tocchino il funzionamento del sistema, che non si immagini una società diversa. In questo senso lo spirito del Sessantotto libertario è diventato parte fondamentale del sistema di governo contemporaneo. Ciò non significa che le sue conquiste non siano tali: lo sono. Lo sono all’ombra di una struttura di potere che, nelle sue grandi architetture, rimane intonsa. Sono conquiste, ma non portano là dove il primo lato del Sessantotto pensava che portassero. E tuttavia hanno cambiato la vita di miliardi di persone, hanno permesso alle donne e alle persone omosessuali di acquisire libertà e diritti, hanno prodotto la più grande ridefinizione dei rapporti fra i sessi e fra le generazioni che la storia umana abbia conosciuto. Sono oggettivamente rivoluzionarie, producono forme di giustizia, ma rimangono estranee al progetto di una rivoluzione fondata sull’idea di giustizia sociale che era alla base del primo Sessantotto, sia perché frantumano le solidarietà universali valorizzando le differenze, sia perché esaltano gli individui e rendono difficile accettare quella componente di alienazione che è necessaria per agire collettivamente, sia soprattutto perché accettano il capitalismo, danno ragione alla sua capacità di creare spazi di libertà privata, di emancipazione individuale. La versione liberal di questo secondo Sessantotto ha rinunciato a un’idea che per il primo Sessantotto era ovvia e decisiva: che la rivoluzione vera è quella che abolisce lo stato di cose presente, non quella che si limita a creare spazi di autonomia al suo interno.
La prima rivoluzione ha perso. O meglio: è stata usata, in Francia, in Italia e in Germania, da forze che il movimento del Sessantotto non amava, i sindacati e i partiti della sinistra tradizionale, per ottenere alcune classiche conquiste socialdemocratiche, per raggiungere risultati straordinari che col tempo si sono rivelati insostenibili nel nuovo assetto neoliberale generato dal capitalismo negli stessi anni del lungo Sessantotto. La verità è che il primo Sessantotto doveva fallire, era necessario che fallisse o che diventasse altro. La sua utopia, che poi è l’utopia comunista, contrasta con i meccanismi di funzionamento delle società moderne, estese nei numeri e nello spazio, differenziate, culturalmente plurali, fondate su una divisione del lavoro capillare e su una costitutiva alienazione. Gli unici meccanismi di gestione degli aggregati umani che società simili ammettono sono lo Stato e il mercato. Questi ultimi sono forme della tecnica, dispositivi della razionalità strumentale consustanziali alla modernità. Il sogno delle comuni, dei soviet, delle assemblee è illusorio. Il campo delle possibilità politiche reali, durevoli, oscilla fra gli estremi del liberismo puro e del socialismo reale, con in mezzo svariate forme di Welfare State, di socialdemocrazia o di cristiano-democrazia. Tutto il resto non può durare. Nessuno potrà mai eliminare la gerarchia implicita nei meccanismi statuali e mercantili, o la divisione del lavoro, o la separazione del mondo comune in mondi particolari, o l’antitesi fra interesse pubblico e interesse privato, o la necessità del lavoro obbligato, il ponos, il labor, il lavoro che, potendo scegliere, non si vorrebbe fare. Nessuno potrà governare uno Stato (o un comune, o un quartiere) in modo assembleare o pianificare l’economia in ogni suo aspetto, o abolire le mille forme di comando, di soggezione, che sono necessarie perché ci sia ordine e le forze produttive si sviluppino.
Invece la seconda di queste rivoluzioni ha vinto. Ha cambiato la vita delle masse, ha portato con sé delle conquiste cui oggi non vorremmo rinunciare. Ha anche comportato la crisi della politica come utopia, la fine dell’illusione che si potesse uscire dalla preistoria. La prima rivoluzione andava contro lo Zeitgeist, che è poi il nome con cui indichiamo la connessione impersonale delle cose; l’altra lo assecondava. Tutta la mia simpatia va alla prima. La gerarchia, l’alienazione, l’isolamento che abbiamo accettato dopo la fine dell’età delle rivoluzioni, in cambio di una sfera preziosa di benessere e autonomia privata, frustrano alcuni desideri umani profondi e non meno reali del principio di realtà che ce li fa considerare delle illusioni. Una volta fallita l’utopia, la scissione fra desiderio e realtà rimane aperta e lascia spazio a tonalità emotive cariche di realismo, disincanto, rinuncia e impliciti segni-meno: la felicità o più spesso la tranquillità privata, l’ironia, il fatalismo, il cinismo, il disagio, il risentimento, la malinconia, la nostalgia, la tragedia o una disperata vitalità. Oggi siamo attraversati da queste Stimmungen, ne adottiamo una o un’altra a seconda di come siamo collocati nello spazio sociale o a seconda del temperamento, le sovrapponiamo e le cambiamo nel corso degli anni o della giornata. Possiamo immaginare che lo stato di cose presente crolli nel disordine, come nei racconti della nostra fantascienza distopica, ma non abbiamo più alcuna utopia paragonabile a quella che animava l’età delle rivoluzioni. Nessuno pensa che un altro mondo sia possibile. Nessuno ci crede più veramente.
(pubblicato nel sito Le parole e le cose.it, il 26 novembre 2018)
[Immagine: Andy Warhol, Hammer and Sickle].
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