Che si tratti di un conflitto sociale vero e proprio è fuori discussione. Nella Francia delle scorse settimane nulla di ciò che contrassegna una rivolta è mancato: l’autoconvocazione attraverso i nuovi media, poi i blocchi stradali, i più tradizionali scontri con la polizia, gli incendi, i danneggiamenti, i saccheggi. Il conflitto dei “gilet gialli” (inizialmente provocato da un aumento della fiscalità sui carburanti per finanziare la “transizione ecologica”) è senz’altro di ampia portata, qualcosa che – aspetto nient’affatto secondario – mette la provincia francese contro la capitale. Parigi è oggi una metropoli abitata da una specie di neo-aristocrazia, da una élite del denaro, delle professioni e del commercio, con il suo centro di potere definito da quella “monarchia repubblicana” tipica del presidenzialismo di matrice gollista.
Ma un’esplosione di collera, sia pure prolungata, non è ancora un movimento sociale propriamente detto. Un movimento si definisce nel confronto con la politica: con una politica di cui costituisce al tempo stesso una critica e un rinnovamento, come accadde in Spagna qualche anno fa con gli indignados. Ciò significa che non può sfuggire a una presa di posizione secondo la distinzione destra/sinistra caratteristica della politica democratica. Se invece – come intendono gli odierni teorici populisti – si contrappone un “basso” a un “alto”, non si ha ancora un blocco sociale capace di determinare di volta in volta l’avversario e soprattutto le alleanze intorno a degli obiettivi, ma soltanto una congerie di rivendicazioni che non riescono a fare massa critica. In Francia il conflitto sociale può trovare facilmente il suo terminus ad quem nella forma istituzionale del presidenzialismo. Ma “tutti contro il sovrano” (nel caso specifico il pur antipatico Macron) non è nemmeno ancora un movimento sociale secondo la vulgata populista contemporanea: manca infatti il Perón in grado di convogliare su di sé rivendicazioni tra loro eterogenee per ricondurle a una sintesi sia pure provvisoria. Chi potrebbe essere la figura del leader peronista nell’attuale situazione francese? Mélenchon o Marine Le Pen, entrambi schierati dalla parte dei “gilet gialli”? Come si vede, malgrado gli Ernesto Laclau e le Chantal Mouffe, l’asse destra/sinistra si ripropone. E si ripropone nella stessa scelta delle rivendicazioni: l’obiettivo principale raggiunto dai “gilet gialli” – cioè l’eliminazione dell’aumento della tassa sui carburanti in un paese come la Francia, segnato da una massiccia presenza inquinante del diesel – è di destra o di sinistra? Se non v’è dubbio che il ripristino della “tassa di solidarietà sulla fortuna” (noi diremmo la patrimoniale), abolita da Macron, sia una richiesta di sinistra, bisogna anche sottolineare che però essa non è stata soddisfatta.
Che cosa faranno adesso i “gilet gialli”? Si accontenteranno di un aumento di cento euro del salario minimo garantito e di una detassazione delle pensioni più basse – le ulteriori misure annunciate da Macron per disinnescare la crisi – oppure rilanceranno? Il prosieguo della vicenda dirà se si può parlare, e fino a che punto, di una semplice jacquerie, di un’esplosione di collera popolare, o di un movimento sociale strutturato che, in quanto tale, sarà inevitabilmente messo dinanzi a scelte di carattere politico.
(tratto dal sito della Fondazione per la critica sociale, 14 Dicembre 2018)
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