“[…] perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, ad eccezione dell’ulivo, della vite e del grano – autoctoni di precocissimo insediamento – sono quasi tutte nate lontane dal mare. Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l’altra. ‘Lo immagino’, ha scritto Lucien Febvre, ‘rifare oggi il suo periplo nel Mediterraneo orientale. Quanti motivi di stupore! Quei frutti d’oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti – arance, mandarini, limoni – non ricorda di averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi – agavi, aloè, fichi d’India –, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall’America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, eucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall’Australia. E i cipressi a loro volta sono persiani. Questo per quanto concerne lo scenario. Ma quante sorprese ancora al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guayana; il mais, messicano; il riso dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco’ ”1.
Con buona pace delle tanti vestali della purezza dell’identità italiota, sappiamo da Braudel che essa “fa tutt’uno con la sua multiforme varietà e, in un certo senso, con la sua stessa mancanza di identità unitaria […] È un paradosso davvero curioso che dice molto del carattere originario profondo e della singolare storia del nostro Paese”2. L’identità italiana non esiste, anzi, in ultima analisi, si fonda proprio sulle differenze, di cibo, di cultura, di storie e perfino di musica. E Braudel ci ricorda come il Mediterraneo, oggi tomba di migranti in fuga, sia stato per secoli un miscuglio di cose e persone, di conflitti e di culture che sono alla base della civiltà europea.
A Mimmo Lucano queste letture comunque non servivano, lui sapeva – perché era un abitatore e un profondo conoscitore della sua terra e gli erano ben note le sofferenze e le privazioni dei migranti simili a quelle delle sue genti che muovevano dai paesi abbandonati dell’Appennino verso le coste – quando il primo luglio 1998, da libero cittadino, insieme con altri riacesi, accoglieva alcuni curdi che sbarcavano sulle coste di Riace e iniziava a interessarsi alle modalità di accoglienza già adottate a Badolato un anno prima.
Nasce un po’ alla volta quello che è stato chiamato il “modello Riace”, un sistema di accoglienza che fa di quel comune, in precedenza abbandonato come molti altri della Calabria, un luogo ospitale, aperto ai migranti che fuggono da territori devastati da guerre ed esiti di cambiamenti climatici (pretestuoso distinguere tra profughi di guerra e migranti economici). Quel modello che Lucano ha messo in piedi, nel corso di tanti anni, è basato su diverse azioni: adesione al sistema SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo che potranno lavorare nel comune attraverso laboratori artigiani di tessitura, lavorazione del vetro. E, in attesa dell’erogazione, in ritardo, dei fondi, crea una moneta locale, l’euro di Riace, una sorta di bonus di spesa utilizzabile anche dai turisti. Il modello coinvolge 550 migranti ospitati a Riace, ma dalla cittadina ne sono passati almeno 6000. Come ha detto Guido Viale, Riace diventa ben presto non un simbolo dell’accoglienza ma l’accoglienza realizzata “a beneficio tanto dei nuovi arrivati che dei cittadini italiani di paesi che prima del loro arrivo erano stati costretti ad abbandonare, per emigrare anche loro. Riace è la dimostrazione che italiani e migranti, se ben governati, possono non solo vivere bene insieme ma anche prosperare: far rinascere i borghi e le terre abbandonate, ricostruire una vita di comunità nei loro abitati, imparare gli uni dagli altri a conoscere, rispettare e valorizzare la cultura, le tradizioni, le usanze, ma anche le sofferenze di cui ciascuno di noi è portatore”3.
È un modello che mette paura alla ’ndrangheta, ai politici, al mondo del business della speculazione sui migranti, ai potentati locali che gestiscono il lavoro nero, a chi predica il mantra della sicurezza su cui è basato il decreto Salvini, del lavoro rubato dai migranti, del “prima gli italiani”. Un modello in grado di terremotare la narrazione della politica basata sull’odio e l’individualismo identitario. Può un piccolo comune della Calabria ribellarsi al suo destino di abbandono, al suo destino di veder partire le sue migliori risorse in termini di giovani, laureati, verso i ben più ricchi paesi del nord? E come possono migranti condannati all’accattonaggio, alla piccola e grande delinquenza, alla prostituzione o, nel migliore dei casi, a un lavoro in nero sottopagato, progettare insieme con gli abitanti la rinascita di questo sconosciuto centro?
Il modello Riace non è esente da critiche, innanzi tutto è stato rivestito di una retorica eccessiva, poi forse ha mancato l’obiettivo di generare sviluppo economico duraturo, è rimasto limitato entro i confini del piccolo borgo, ma certo esso è riuscito a parlare al mondo della possibilità di salvare gli ultimi, di dare speranza a chi l’aveva definitivamente persa. Vale il vecchio detto “non è possibile realizzare il socialismo in un solo paese”, tanto più se quel paese invece di una nazione è un borgo della sperduta Locride.
La cronaca del dopo è nota: nei confronti del sindaco scattano gli arresti domiciliari con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. Pochi giorni dopo, nella comunicazione inviata dal Viminale al comune di Riace, e firmata dalla direzione centrale per i servizi civili per l’immigrazione e l’asilo, c’è la chiusura del modello d’accoglienza e la deportazione degli oltre 300 migranti integrati nel territorio dal 2004. Corredata di tanto di beffa: i rifugiati possono, se vogliono, rimanere a Riace, ma uscendo dal sistema di accoglienza.
Qual è stata la portata di questo straordinario esperimento che segna indubbiamente un punto di non ritorno nella storia della convivenza tra popoli? Partiamo da una premessa: gli Appennini, che formano la grande dorsale italiana, stanno lentamente scivolando verso il mare. Abbandono e incuria e una cultura predatoria nei riguardi della costa sono i principali artefici di questo fenomeno. E allora una sana conoscenza degli ecosistemi di supporto alla vita impone di ripartire dal territorio, dalle città, invertire la tendenza suicida in atto, non basata su una dolce utopia del “ritorno”, ma su una riconversione ecologica dell’economia4, sul rapporto tra territorio e comunità insediate. Questa l’unica direzione praticabile per costruire il futuro.
Mimmo Lucano ha fatto uno scarto improvviso, una sorta di trascendimento di se stessi, un po’ come il barone di Münchausen che per non annegare richiama tutte le sue energie sollevandosi per il codino. Un gesto che è al tempo stesso sofferto amore per la città, una città dove la comunità rinasce, impara a pensare a se stessa, con lo sguardo rivolto al futuro. E così ritrova, la città, il senso originario della sua nascita: luogo d’incrocio di “razze”, di genti, pellegrini, viandanti che hanno trovato ospitalità e accoglienza, cure dopo la fatica del lungo percorso. La città intesa come “una macchina per fare civiltà”5. E al tempo stesso Lucano interpreta la tradizione italiana delle grandi innovazioni, della più grande creatività:
“È in questo spazio determinato che la vita può reincontrare tracce di futuro cambiando il rapporto tra le generazioni. In fondo il gesto più grande di creatività sarebbe proprio la decisione di apprendere, di dare una svolta imprevedibile alla vita, il gusto di avere più domande nuove che vecchie risposte da trasmettere ai più giovani”6 “[…] Un ruolo decisivo di questo ritorno al futuro possono svolgere la fantasia, la creatività e l’immaginazione se si riesce a farle uscire dai luoghi silenziosi e riveriti e a farle circolare come grande e policroma risorsa collettiva” 7.
A questo atto di amore per la propria terra e per i propri simili che soffrono, a questo tentativo autentico di ritrovare il senso della città e della comunità, la risposta data è di aver trasgredito la legge, proprio come fece Antigone contro le impietose leggi di Creonte che, in nome di esse, negava la sepoltura di Polinice, a testimonianza che il passato non è mai del tutto passato. “Anche l’orrore è riattivabile, costituendo anzi uno dei fattori attorno ai quali è possibile vedere operante nella storia la tendenza alla ripetizione innovativa”8.
Mimmo Lucano nel suo incredibile esperimento è riuscito a realizzare la città dell’amicizia che è assai di più che una città dei giusti, perché: “Quando si è amici, non c’è affatto bisogno di giustizia, mentre, anche essendo giusti si ha bisogno dell’amicizia, e il punto più alto della giustizia sembra appartenere alla natura dell’amicizia”9.
Credo che l’episodio di Riace sia stato sottovalutato per la sua portata innovativa. Lucano non è un eroe; si è trovato al centro di un dramma epocale e ha tentato di risolverlo attingendo alle sue risorse di calabrese e uomo semplice, abitante di un comune destinato all’esodo totale. E questo non si perdona proprio perché svela ciò che tutti sanno ma che non si può dire. Non c’è alcun buonismo ideologico nell’operato di Lucano ma solo un modo rinnovato di concepire l’etica e la politica, grazie a una sorta di rivoluzione antropologica che ci rivede umani tra gli umani.
1 F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Bompiani, Milano 2005, pp. 8 e 9.
2 P. Bevilacqua, Felicità d’Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo, Laterza, Bari-Roma 2007, p. 21
3 G. Viale, Lucano non è il “simbolo” ma l’accoglienza realizzata, “il manifesto” del 4.10.2018
4 Sono molti gli articoli che Viale ha dedicato a questo problema. In proposito vedi il suo blog on-line.
5 P. Valery, Sguardi sul mondo attuale, Adelphi, Milano 1994, p. 276, in F. Cassano, Il Pensiero meridiano, Laterza, Bari-Roma 1996, p.23 e in G. Minervini, Mar Comune. Una crisi del Sud, edizioni la meridiana, Molfetta 1997, p. 74.
6 F. Cassano, Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza, Bari-Roma 1998, p.40.
7 Ivi, p.43
8 R. Genovese, Totalitarismi e populismi, manifestolibri, Roma 2016, p. 17
9 Aristotele, Etica nicomachea VIII, 1, 1155°; cfr. C. M. Martini, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2002, p.23.
(tratto dal sito: www.fondazionecriticasociale.org, 16 ottobre 2018)
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