Il governo Conte è un caso esemplare di quella situazione politica che Gramsci esprimeva col termine “egemonia”. Un partito la Lega – che per me ha inconfondibili tratti fascisti – ha imposto la propria direzione politica di fatto, pur avendo come alleato un movimento che aveva ricevuto il doppio dei suoi voti. Ai significanti oscillanti dei Cinquestelle (tra destra e sinistra? Un po’ di destra, un po’ di sinistra?) ha contrapposto un’ideologia regressiva dura ed efficace. La Lega è assonante con i fascismi storici almeno su questi temi: welfare ristretto rigorosamente ai soli “indigeni” nazionali; razzismo e creazione di un nemico “altro”, l’intruso capro espiatorio di ogni conflitto e fallimento; critica della finanza cattiva e non del capitale come modo di produzione; l’idea di un popolo-nazione immaginariamente unificato al di là dei suoi conflitti di classe e di interesse. L’enfasi anticoloniale costituisce da sempre un punto di forza dei movimenti populisti, che configurano il nemico in una nazione egemone (oggi la Germania), invece di contestare il sistema capitalistico, di cui essa è solo una maschera e una funzione. Infine, alla garanzia di una certa redistribuzione del reddito corrisponde l’assicurazione che non saranno minimamente scalfiti i “fondamentali” dell’economia attuale del capitale.
E’ una visione politica che si configura come “rivoluzione passiva” di un programma di sinistra, una sinistra che ha lasciato cadere o si è lasciata espropriare di tutti i suoi temi distintivi, che ora vengono ripresi –nella forma monca o amputata del nazionalismo escludente- dal governo in carica. Il programma economico di tale governo, in particolare, riformula proposte una volta di sinistra come il reddito di cittadinanza, la revisione della legge Fornero, il blocco delle grandi opere nocive all’ambiente; ma esse vengono inserite in un contesto razzista e xenofobo, e – presumibilmente – saranno realizzate in modo limitato, accettando un compromesso coi poteri forti e la destra tecnocratica che pure è presente nella compagine del governo.
Nel senso proposto da Gramsci, in una rivoluzione passiva frammenti della cultura di sinistra vengono conservati ma distolti dal loro fine essenziale e dislocati in un contesto diverso e tendenzialmente opposto.
Così, ad esempio, i fascismi italiani hanno collocato in una disposizione gerarchica ed elitaria elementi che inizialmente appartenevano a richieste partorite dal principio di uguaglianza. L’assistenza sociale viene concessa da Mussolini; purché venga subordinata allo statuto delle corporazioni, alla rinuncia alla trattativa sindacale, alla negazione di una classe antagonista (naturalmente essa viene accordata entro certi limiti, meno di quanto era dapprima richiesto dai socialisti, ma pur sempre più di quanto avrebbe accettato la vecchia classe dirigente).
La Lega ha tentato di recente di compiere un lavoro di assimilazione-deformazione per certi versi simile, attenuando la sua iniziale carica provocatoria. Proposte della sinistra sociale, come federalismo, autodecisione dei territori, e perfino quella della cittadinanza dei migranti, vengono deformate nella loro formulazione originaria e così omologate al progetto autoritario, assumendo una caratteristica flessione gerarchica. Prendiamo ad esempio il tema dell’immigrazione. Non si tratta più semplicemente di dire “fuori tutti”, “non li vogliamo”, ma piuttosto : li vogliamo nella misura in cui ci servono, nella misura in cui non tolgono il lavoro agli Italiani, nella misura in cui accettano una cittadinanza dimezzata; a patto insomma, che l’integrazione si coniughi al comando della razza superiore e al principio gerarchico.
Tuttavia, a questo prezzo, a una parte degli immigrati vengono concessi certi diritti e certe garanzie di lavoro e sopravvivenza (come ai servitori neri nel Sud degli Stati Uniti di un tempo, o a quelli del colono europeo in Africa). In un certo senso, l’immigrato può perfino apprezzare questa parziale concessione di diritti (rispetto alla clandestinità), che è meno di quanto richiedeva o poteva pretendere, ma più di quanto i padroni inizialmente erano disposti a concedere. Una tematica (la cittadinanza piena) che era patrimonio diffuso della sinistra, che si ispirava all’inclusione e al principio di uguaglianza, viene “corretta” dal suo assorbimento nella “tesi” opposta, una costruzione gerarchica del sociale, divisa in signori e servi (cittadinanza dimezzata).
I Cinque Stelle avevano una componente che qualcuno definiva di “sinistra” o addirittura anarchico-libertaria? Se c’era, è del tutto scomparsa dalla scena, mentre il loro leader –Di Maio- è sovrastato sul piano mediatico e spettacolare da Salvini. Il nostro presidente della Repubblica si è molto spaventato per la presenza, infine confermata, di Savona nella compagine di governo: a me spaventa molto di più Salvini all’interno, con le sue promesse di deportazioni di migranti, respingimenti violenti e la sua ossessione securitaria (che proseguirebbe del resto la politica già iniziata da Minniti in Libia, con la creazione di inumani campi di internamento). Qui si addensa il nucleo oscuro di un nuovo autoritarismo, che potrebbe portarci non tanto fuori dall’Europa, quanto verso l’Europa di Orbàn.
Naturalmente occorre che i rappresentanti della “sinistra” –come è accaduto di recente agli avatar successivi del partito comunista- siano singolarmente sprovveduti, incapaci e collusi perché l’opera di passivizzazione abbia successo: o quanto meno che si ispirino a una cultura politica obsoleta. La classe dirigente del PD è corresponsabile della vittoria del neoliberismo in Italia, della distruzione di ogni nozione di socialismo, dell’adesione alle misure economiche più sconsideratamente tecnocratiche della finanza multinazionale europea. Non possono dunque invocare ora un “Fronte repubblicano”.
Occorrerebbe un “Terzo spazio”, tra europeismo tecnocratico e populismo neofascista, come ha cercato di definirlo Y. Varoufakis in un suo libro[1]. Non credo che un populismo di sinistra (alla Mélenchon), comunque ancorato all’idea di Stato nazionale, comunque incline all’identificazione verticistica nel corpo e nel nome di un “capo” possa avere la forza di cambiare le cose. Solo un movimento antagonista radicale a livello transnazionale ed europeo, che organizzi critica e lotta comune al capitalismo attuale potrebbe restituirci qualche speranza. Occorre una sinistra che si riappropri delle sue parole tradite e deformate: federalismo, internazionalismo, beni comuni, inclusione, autogestione; che rilanci una stagione di lotte sindacali coordinate a livello internazionale. Che effetto avrebbe uno sciopero generale delle ferrovie non limitato alla sola Francia, come sta accadendo negli ultimi mesi, ma esteso all’Europa intera? Il termine “sciopero generale”, ora ridotto a un significato rituale e modesto, riacquisterebbe un suono altamente minaccioso per i poteri dominanti.
Minniti gode oggi di una certa considerazione: Salvini lo considera un suo precursore, Travaglio lo elogia come colui che senza tanti clamori stava risolvendo il problema dell’immigrazione; si può immaginare che sarebbe stato uno dei perni della poi fallita coalizione di governo PD-Cinque Stelle. Il suo merito maggiore è quello di essersi accordato con i predoni e capi bastone libici per creare campi (di accoglienza!?) nel deserto, dove internare i migranti; istituendo quella frontiera esterna, che un po’ tutta la Fortezza Europa vuole costruire, Merkel e Macron non esclusi. Peccato che le condizioni di vita in questi campi siano divenute simili –senza che nessuno se ne preoccupi- a quelle di un lager nazista. Paragonai in un articolo sul Ponte l’indifferenza di Minniti (e nostra) a quella di Eichmann, che – durante il suo processo a Gerusalemme – declinava ogni responsabilità per quello che accadeva nei campi, pur avendone predisposto la realizzazione. Paragone che mi ha attirato molte critiche, in parte giustificate: in effetti io non mi riferivo alla quantità delle vittime, ma alla qualità morale dell’internamento. Ricordo che nel novembre del 2017 l’Alto commissario dell’Onu per la difesa dei diritti umani, fondandosi su prove e testimonianze, dichiarava: “E’ letteralmente disumana la cooperazione UE-Libia, si assiste a orrori inimmaginabili…La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Non è esagerato parlare di neoschiavismo: in un video della CNN, sempre del 2017 si documenta la vendita di due ragazzi “per i quali piovono offerte e rilanci. ‘800 dinari… 900, 1.100… venduti per 1.200 dinari (pari a 800 dollari)”. Uno dei due giovani è presentato come “un ragazzone forte, adatto al lavoro nei campi”. Ricevuto il filmato, CNN è andata a verificare, registrando in un video shock la vendita di una dozzina di persone in pochi minuti”. Stupri violenze, detenzione in condizioni intellerabili, vendita di schiavi, sono la normalità in questi centri di accoglienza.
Note sono le fucilate che hanno ucciso i migranti a Ceuta, o il comportamento disumano dei gendarmi francesi a Ventimiglia. Le dispute fra Salvini, Macron e Orban, condite da insulti apparentemente sanguinosi, somigliano a quelle scene da circo di periferia in cui i pagliacci si danno botte da orbi per finta. In realtà, ai governi “europeisti” del Nord Europa non dispiace che il neofascista Salvini coi suoi compari si occupi del lavoro sporco in Libia o in Mali, lasciando a loro le mani nette e la coscienza pulita. Questo spettacolo rivoltante suscita almeno per ora un consenso trasversale ai rispettivi governi, denunciando che non stiamo vivendo solo una crisi politica, ma una catastrofe antropologica. In Italia la situazione è più grave, perché il nazionalismo etnico sta prendendo piede nel senso comune e diffondendo il razzismo come fondamento identitario del “popolo”.
D’altra parte, l’assenza o la cecità della sinistra politica si avvicina pericolosamente a quella dimostrata negli anni Venti del Novecento. Può una sinistra degna di questo nome non denunciare che il fenomeno dell’immigrazione ha assunto proporzioni così devastanti a causa delle guerre occidentali in Iraq, in Libia, in Mali? Può dimenticare lo sfruttamento delle risorse naturali nei paesi africani, che non ha nulla da invidiare ai periodi peggiori della storia coloniale? Ma a parte questi gravi aspetti economici e politici, una sinistra non dovrebbe dimenticare che il colonialismo non è solo un fenomeno economico e politico, ma anche un trauma storico che lascia tracce indelebili nella psiche dei sopravvissuti e delle generazioni successive.
A puro titolo di esempio, ricordiamo le parole del generale Bugeaud, pacificatore dell’Algeria francese nell’Ottocento, riportate da T. Todorov nel suo libro Noi e gli altri: “Non basta attraversare le montagne e battere una volta o due questi montanari: per sconfiggerli, bisogna colpire i loro interessi. Non ci si riesce passando fugacemente: bisogna gravare sul territorio di ogni tribù…restare il tempo necessario per distruggere i villaggi, tagliare gli alberi da frutto, bruciare o arraffare i raccolti, vuotare i silos, perquisire i burroni, le rocce e le grotte, per imprigionare le donne, i bambini ed i vecchi, le greggi ed i mobili…”. Se il genocidio per fame non bastava, l’esercito francese soffocava col fumo gli insorti e le loro famiglie, come accadde nelle grotte di Ghar-el-Frechih. Da questo massacro, praticato nell’Ottocento, fino a quello di Setif operato dai Francesi nel 1945, c’è una linea ininterrotta e continua di offesa e di oppressione. Così come nella stessa logica di sterminio si collocano l’uso massiccio delle armi chimiche da parte degli Italiani in Etiopia o i dieci milioni di persone uccise dai Belgi in Congo, direttamente o per effetto di amputazioni, fame e torture. E’ a questo che si riferisce l’ultima parola di Kurz in Cuore di tenebra di Conrad: “Orrore”.
Ci sono molti studi esaurienti sulla Shoah come trauma storico e sulle sue conseguenze psichiche intergenerazionali, che comprendono disastri patologici, malattie incurabili, suicidi. Sul colonialismo invece si preferisce tacere: nonostante che prima H. Arendt e poi T. Todorov abbiano mostrato il nesso inscindibile che lega l’imperialismo europeo e il successivo razzismo etnico del fascismo e che gli effetti di un trauma storico presentino –si può presumere- caratteristiche simili.
Oltre alle violenze fisiche sul corpo dei colonizzati, occorre considerare quelle psichiche legate al rapporto di asservimento, che continuiamo a praticare sui migranti che giungono nella Fortezza Europa. Esso comporta la radicale reificazione dell’altro. Il colono non è solo il proprietario dei beni materiali e delle armi micidiali: diviene un modello identitario, “il colono fa la storia…Lui è l’inizio assoluto” (Fanon). La sola identità umana pienamente riconosciuta è quella del colono e della sua cultura: che riesce a decomporre la cultura e l’autocoscienza dell’altro. Tra il colono e il suo servo si scatena, in tutta la sua virulenza, una fosca dialettica servo-padrone, che segue i parametri descritti da Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Il padrone-colono è sì oggetto ideale di imitazione e di ricerca identitaria; ma anche di un odio sottaciuto e profondo, perché essere lui – per il colonizzato – è desiderabile e impossibile allo stesso tempo. In effetti – in un rapporto di asservimento – solo distruggendo l’altro, in una spirale di violenza mimetica, posso illudermi di essere veramente me stesso: “Il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore”(Fanon). Questa spirale imitativa e distruttiva non porta fuori dal ciclo della violenza, ma la intensifica nei suoi attori reciproci fino a livelli sempre più distruttivi, fino a comportare la rovina di entrambi. Questo vale in certo senso anche se il colonizzatore europeo sembra vincere la battaglia e confermare la sua forza: in realtà la spietatezza della lotta lo spinge a rinunciare alla democrazia, a regredire in forme autoritarie e infine fasciste di dominio; oppure a subire una violenza senza limiti, come quella che colpì i coloni francesi durante la guerra d’Algeria. In ogni caso, la dissimetria del rapporto coloniale distrugge la nostra forma di vita, o almeno quella che ci siamo illusi costituisse l’essenza della nostra civiltà. E’ questo il nesso tra imperialismo e totalitarismo, che H. Arendt ha così profondamente messo in luce. Non stiamo incamminandoci su una strada simile? Non stiamo confermando –col nostro atteggiamento verso l’immigrazione- le peggiori costanti archetipiche della nostra storia? Non stiamo rischiando la più distruttiva delle antinomie: o fascismo o barbarie?
Una violenza traumatica e profonda accompagna il capitalismo fin dalle sue origini, fin dall’accumulazione originaria, descritta da Marx nel primo libro del Capitale, ove l’autore cita questo passo: “Questi poveri innocenti e derelitti…andavano incontro ai tormenti più atroci. Venivano prostrati a morte dal lavoro eccessivo…venivano flagellati, messi in catene e torturati coi metodi di crudeltà più squisitamente raffinati; si davano parecchi casi in cui per mancanza di cibo si riducevano a pelle e ossa, e intanto la frusta li legava al lavoro”. Non è la descrizione della vita in un campo nazista; è il trattamento a cui venivano sottoposti migliaia di bambini alla fine del Settecento, all’inizio della rivoluzione industriale[2]. Molto peggiori erano le condizioni degli oppressi al di là della linea d’amicizia che divideva lo spazio legale europeo dallo spazio colonizzato, dove cessava la vigenza delle leggi ed erano ammessi i genocidi, i massacri, la pirateria e la rapina senza limite. L’oro così guadagnato e le risorse così saccheggiate sono uno dei fondamenti dello sviluppo del capitalismo, assai più della “virtù” o del “risparmio” dei primi calvinistici imprenditori; “Le barbarie e le esecrabili atrocità perpetrate dalle razze che si dicono cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo che sono riuscite a sottomettere, non hanno uguale in nessun’altra età della storia del mondo, in nessun’altra razza, per quanto selvaggia e primitiva, violenta e impudente essa sia”[3]..
Il prevalere del lavoro mentale o immateriale in Europa non cancella affatto il persistere della violenza traumatica, a livello geopolitico, nella dominazione del capitale. Il progetto attuale del capitale intreccia tempi e luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione delle forze produttive cognitive e immateriali non esclude, ed anzi prevede, un feroce sfruttamento “fordista” nelle aree periferiche del mondo e delle nostre stesse metropoli. Non sono ritardi che verranno colmati: lavoro immateriale e schiavismo arcaico sono entrambi funzionali alla sopravvivenza del capitale: “L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali e spaziali necessarie al suo metabolismo…”[4]; Il processo di decolonizzazione politica, dopo la seconda guerra mondiale, non è riuscito ad alterare profondamente questo stato di cose; le risorse minerarie dei paesi africani restano saldamente in mani europee (come l’oro e l’uranio in Mali, dove la Francia conduce una delle sue guerre “liberatrici”, o il petrolio in Libia, contesa tra italiani e francesi in antagonismo, questo sì, molto concreto).
Non è solo il persistere di forme selvagge di accumulazione che dovrebbe inquietarci. Un trauma non produce solo il male del suo presente, ma distorce l’anima delle generazioni successive. Ciò vale per le atrocità del passato, ma anche per la violenza e l’umiliazione con cui i governi europei affliggono le vittime di oggi. Il disastro psichico intergenerazionale verrà trasmesso in eredità, come è accaduto con i figli e i nipoti dei sopravvissuti della Shoah. Il dominio si iscrive traumaticamente nei corpi di generazioni, inciso da una macchina simile a quella descritta da Kafka nella Colonia penale, e la sua ferocia grava come un debito insolubile su noi europei, che crediamo di avere un credito illimitato con la morte.
L’illusione che i Cinque Stelle potessero moderare la componente leghista e neofascista del governo è durata poco; sono proprio Casaleggio e Grillo ad avanzare la proposta più eversiva e a dire quello che molti pensano e finora non avevano osato dire: meglio abolire il parlamento e sostituirlo con una piattaforma on line, gestita da una elite tecnocratica e mediale. La prima risposta è facile e facilmente condivisibile: stringiamoci a difesa, con tutti quelli che ci stanno, della democrazia minacciata.
Purtroppo le cose non sono così semplici. Il parlamento italiano, nell’ultimo ventennio, è precipitato in un profondo discredito: è un fatto indubitabile e riconosciuto, tanto che le esternazioni sulla possibilità di abolirlo non suscitano grande sorpresa o ondate di indignazione. Corruzione, compravendita di voti, trasformismo selvaggio, sbilanciamento dei poteri a favore dell’esecutivo, sudditanza verso i poteri finanziari ed economici europei e le loro trojke più o meno mascherate da Monti, hanno portato alla disgregazione di fatto del potere legislativo che la nostra Costituzione attribuiva al Parlamento. Si sprecano i paragoni infausti con la Germania di Weimar o con l’Italia del primo dopoguerra. Si ricorda perfino il discorso di Mussolini, quello famoso in cui definiva il parlamento “un’aula sorda e grigia”, che poteva trasformare in bivacco per i suoi manipoli (oggi si potrebbe aggiornare: “in una sala di proiezioni per le mie slides”).
E’ divenuto difficile difendere il Parlamento e la democrazia, contro il neofascismo che avanza. Per farlo occorre sottrarsi al benché minimo rimpianto per chi li ha ridotti in questo stato, compreso il PD pre e postrenzi: il berlusconismo televisivo ha prodotto certo una devastazione antropologica profonda, ma il PD (con i suoi avatar precedenti) ha distrutto ogni prospettiva socialista (nelle varie sfumature: da quella riformista a quella rivoluzionaria) arrendendosi senza limiti al neoliberismo. Neanche per difendere il Parlamento si possono dimenticare le responsabilità di chi lo ha ridotto a cinghia di trasmissione dei poteri economici, e la rabbia e l’umiliazione di chi ha subito questa svendita di diritti sociali.
Non si può semplicemente difendere questo parlamento, ma si deve immaginare un parlamento diverso, con regole e forme di rappresentanza rinnovate e rigorose. Non si tratta di difendere questa sinistra (che ormai non merita più tale nome) ma di rifondare una prospettiva socialista e una critica del capitalismo aggiornata alla situazione attuale.
Partiamo quasi da zero, non è il caso di farsi illusioni. Non abbiamo un Corbin, o un Sanders, o un Podemos, che costituiscono almeno dei fronti di resistenza importanti. Come in altri momenti della storia italiana, il fascismo offre la rappresentazione più immediatamente efficace della crisi, e spaccia soluzioni fantasmatiche, che si diffondono con la rapidità di un contagio psichico (la dicotomia amico-nemico, la costituzione di una razza inferiore come capro espiatorio di conflitti sociali irrisolvibili, un welfare scorciato e promesso agli indigeni nazionali). E’ un fatto positivo che si cominci a definire questo governo, senza troppe remore, come una versione aggiornata di fascismo. Quando lo scrissi all’atto della sua costituzione molti si scandalizzarono. Oggi che un ministro in carica (è solo l’ultimo episodio) chiede di abolire la legge Mancino che impedisce la propaganda al nazifascismo e all’odio razziale, e che autorevoli esponenti Cinque Stelle ipotizzano di chiudere il Parlamento, mi pare che non si possano nutrire più dubbi in proposito. Purché anche questo non diventi un alibi e si continui a pensare al fascismo come un impazzimento momentaneo, una barbarie provvisoria, un incidente volgare, da cui ci riprenderemo presto. No, il fascismo è una cosa seria, è una rivoluzione passiva, nel senso che intendeva Gramsci, e dietro il colore e il folklore c’è una precisa idea di società gerarchica e autoritaria.
Schmitt, il filosofo e giurista nazista, criticava il parlamentarismo in nome un nuovo concetto di rappresentanza plebiscitaria, fondata su un rapporto fusionale tra il capo e le masse, paradossalmente una forma estrema di democrazia diretta, in realtà fondata sull’assenza di ogni mediazione riflessiva, sull’assemblearismo totale e –in effetti su immense risorse di fascinazione mitica e manipolata.
Nella visione socialista, invece, la democrazia diretta era solo un aspetto di una complessa articolazione istituzionale, che aveva i suoi punti forti nei consigli e nella struttura federale dello Stato: non dunque un’assenza di mediazione e di rappresentanza, ma una rappresentanza che mantenesse un contatto con i suoi momenti costituenti, con i suoi elettori. Il controllo partecipato di un’istituzione è proprio l’opposto del plebiscitarismo o dell’abolizione di ogni rappresentanza: è invece ciò che garantisce forza e autorevolezza all’opera del rappresentante.
Marx aveva già riflettuto sulla differenza tra democrazia formale borghese e “vera” democrazia in un suo libro giovanile, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, recentemente ripreso e studiato da M. Abensour nel suo La democrazia contro lo Stato, dove questi oppone una democrazia insorgente al modello borghese, funzionale al modo di produzione del capitale. Essa non implica l’abolizione fantomatica di ogni istituzione in una sorta di crogiolo magico e immediato di democrazia diretta, ma la riformulazione e la creazione di istituzioni nuove: quelle comunaliste, consiliariste e socialiste, che anche H. Arendt ha descritto nel suo libro Sulla rivoluzione.
Le esperienze consiliari del ‘900 indicano un possibile politico, che trascende i limiti della democrazia rappresentativa e dello Stato-Nazione. Esse affrontano (non dico che risolvano) il problema fondamentale di ogni democrazia radicale: come mantenere il contatto con l’apertura indeterminata alla libertà che contrassegna il loro inizio, come articolarsi in istituzioni che contengano entro di sé modalità di decisione e di consenso, capaci di dissolvere le fissità che si ricostituiscono, i rapporti di potere che si ripresentano, le dissimmetrie rinascenti. In questo scarto rispetto al presunto realismo dello Stato e delle sue rappresentanze, Marx scorgeva l’ispirazione profonda della Comune di Parigi del 1871 e la collegava ad altre brecce simili contro il continuum del dominio: “L’azione politica di cui parliamo non avviene in un momento, ma è un’azione continuata che si iscrive nel tempo, sempre pronta a riprendere slancio in ragione degli ostacoli incontrati.”[5]
Arendt nel suo libro Sulla Rivoluzione ricorda la sorprendente rapidità con cui nelle esperienze consiliari del ‘900 si diede “inizio a un processo di coordinamento e integrazione, attraverso la formazione di consigli superiori a carattere regionale o provinciale, nel cui seno infine si potessero eleggere i delegati a un’assemblea rappresentativa dell’intero paese…Il fine comune era la fondazione di uno Stato nuovo, di un nuovo tipo di governo repubblicano che poggiasse su “repubbliche elementari” in modo tale che il potere centrale non privasse i corpi costituenti del loro originario potere di costituire”[6]. Si congiungono qui l’idea di una federazione sovrastatuale e quella di un decentramento consiliare del potere, nei “siti” del lavoro, dell’abitazione, dell’educazione. Oltre le rappresentanze di tipo parlamentare non c’è l’assenza assoluta di istituzioni. Il comunalismo rivendica la possibilità che il cittadino partecipi ovunque lo voglia all’azione politica, reimmerge costantemente la rappresentanza eletta nel momento costituente: “…Sarebbe una vergognosa semplificazione rappresentare i rapporti tra democrazia insorgente e istituzione solo nel segno dell’antagonismo, come se l’una si dispiegasse sempre in un fervore istantaneo e l’altra fosse irrimediabilmente preda di una staticità marmorea… L’istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione…Deleuze definiva così la differenza tra l’istituzione e la legge: “Questa è una limitazione delle azioni, quella un modello positivo di azione”[7].
Marx rievocava le nuove istituzioni sorte con la Comune di Parigi, considerandole come il modello di una forma politica adeguata alla realizzazione del socialismo economico: “…La Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio di campagna. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; ogni deputato doveva essere revocabile in ogni momento e legato ad un mandat impératif…”. Certo, dobbiamo oggi considerare che entrambe le forme in cui è stata concepita la rappresentanza – il “libero mandato” e il “mandato imperativo” – hanno subito una profonda deformazione storica, che le ha portate quasi a rovesciare il loro intendimento originario. Il libero mandato doveva garantire la libertà del rappresentante da ogni forma di pressione e di lobby e permettergli di rappresentare la volontà generale e l’interesse della Nazione: ma nel momento in cui lo Stato diviene funzione di interessi economici e finanziari, come è avvenuto in modo estremo negli ultimi anni; in cui ogni potere decisionale è estromesso dal parlamento, e defluisce in strutture pubbliche o segrete extraparlamentari; in cui le elezioni si riducono a spettacolo e non a sostanza della democrazia: in tale situazione, la libertà del mandato si riduce alla opportunistica libertà di cambiare senza controllo e senza giustificazione la propria parte politica, trasformando l’interesse generale in maschera dell’interesse più sfacciatamente privato. D’altra parte il mandato imperativo è stato inteso nelle costituzioni del “socialismo reale” come sudditanza diretta al partito di appartenenza. Va ricordato invece che per i comunardi e per Marx voleva significare la responsabilità del rappresentante rispetto agli elettori del distretto federale in cui venivano eletti e che questi, non il partito, avevano eventualmente il diritto di revoca, a richiesta di una certa percentuale di elettori. Del resto a quell’epoca partiti nel senso novecentesco non esistevano o erano assai più deboli: e il conflitto tra organizzazione consiliare e organizzazione partitica dello Stato attraversa tragicamente tutta lo storia del socialismo e del comunismo nel ‘900.
Che fare allora? Per quanto possibile occorre una riforma e un rafforzamento democratico delle forme parlamentari, in una direzione che sposti l’accento della responsabilità del rappresentante dai partiti agli elettori. Ma questo suppone una organizzazione federale dello Stato, e questa a sua volta una critica della logica del capitalismo astratto che sta deformando le nostre vite, offrendo una sponda indiretta alle regressioni etniche e ai risentimenti neofascisti. Nessuna regola istituzionale ha senso, se non sorretta da una visione antagonista all’assetto di potere capitalista: o altrimenti può sempre diventare parte di una rivoluzione passiva che ne distorce e ne inverte il senso originario.
A puro titolo utopico: occorrerebbe una costituente per il socialismo, per restituire a questa termine la dignità perduta. Sempre a titolo utopico: l’unico luogo da cui oggi può ripartire una lotta concreta contro l’attuale sistema di potere è un sindacato coordinato a livello europeo, che lotti contro le varie forme di sfruttamento del lavoro e della vita stessa (perché ormai più che di tempo di lavoro si deve parlare di un tempo di produzione generico e non pagato esteso alla quotidianità intera). Un sindacato internazionalista, che non faccia differenza alcuna tra l’appartenenza etnica dei suoi iscritti e si faccia carico sia delle storture del lavoro schiavile sia della manipolazione del lavoro così detto immateriale. Questo sarebbe l’unico modo concreto per combattere realmente il razzismo, spostando il conflitto dalla sua causa apparente – l’immigrazione – alla sua causa reale: la disuguaglianza economica, sociale, simbolica, psicologica.
[1][1] L. Marsili, Y. Varoufakis, Il Terzo spazio.Oltre establishment e populismo, Laterza 2017.
[2] K. Marx, Il capitale, Newton Compton, Roma 2006, p. 545.
[3] W. Howitt, cit. da Marx, Il capitale, cit. p. 540.
[4] D. Bensaid, Le Pari mélancolique, Fayard, Paris 1997, p. 44.
[5] M. Abensour, La democrazia contro lo Stato, Cronopio, Napoli 2009, p. 8.
[6] H. Arendt, Sulla rivoluzione, Ed. di Comunità, Milano 1996, pp. 309-310.
[7] M. Abensour, La democrazia contro lo Stato, cit., p. 12.
(foto di Andreas Gursky)
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