Le elezioni del Parlamento Ue in primavera indeboliranno ancora, con ogni probabilità, le coalizioni che hanno tradizionalmente guidato la maggior parte dei paesi, alla vigilia dei rinnovi delle principali cariche di vertice. In Italia, nonostante le ambiguità e contraddizioni, il governo giallo-verde gode dell’appoggio popolare. Se davvero attuerà una politica più espansiva sarà un segnale importante. E’ possibile un cambio di rotta sia da noi che nell’Unione.
Nei sondaggi correnti la maggioranza degli elettori si schiera a favore del governo basato sulla coalizione fra Cinquestelle e Lega. Ma se si chiedesse ai militanti di ciascuno dei due partiti della coalizione quale sarebbe stata la sua scelta preferenziale, almeno una parte avrebbe espresso una scelta diversa: l’una a favore di una coalizione chiaramente di destra; l’altra per un’alleanza fra Cinquestelle e Partito democratico. La ragione è chiara. La lega di Salvini è un partito inequivocabilmente di destra. Mentre in una parte dei Cinquestelle, forse la maggioranza, prevale un’inclinazione di sinistra.
- In mancanza di possibili soluzioni alternative, i due partiti hanno formato una coalizione di governo per molti versi eterogenea, come ha dimostrato la laboriosa elaborazione del “Contratto”, mediando le evidenti dissonanze su temi importanti come i migranti, la tassazione, le nazionalizzazioni, i rapporti con la giustizia, oltre alle divergenze nei rapporti europei come ha dimostrato l’incontro fra Salvini e Orban. Ma prima di giudicare, a seconda dei diversi punti di vista, il governo in carica, è giusto porsi una domanda preliminare: da dove nasce questo quadro politico segnato da indubbie ambiguità e contraddizioni? E perché, non ostante le dissonanze, la coalizione gode del consenso di una inusuale maggioranza degli elettori? Posta in altri termini la domanda è: per quale ragione i due partiti che hanno governato il paese in alternanza nell’ultimo quarto di secolo – Il PD e Forza Italia – hanno insieme raggiunto una misera somma di voti inferiore a quella del solo Movimento Cinquestelle, nato da appena qualche anno? E’ sufficiente eludere la domanda ricorrendo all’etichetta del populismo, nuovo passepartout dell’analisi politica? E, infine, non si tratta dello stesso elettorato che appena quattro anni fa aveva votato con una schiacciante maggioranza di oltre il 40 per cento per Matteo Renzi, acclamato alla testa del partito democratico?
La novità di questo capovolgimento di prospettiva non è, in effetti, una singolare caratteristica italiana. Se si trattasse solo della deriva del Partito democratico di Renzi, non faticheremmo a trovare una spiegazione. Ma il tracollo dei partiti di centrosinistra è il più importante processo politico in corso in Europa. Due casi sono esemplari. Il Partito socialista francese che governò la Francia fra gli anni ‘80 e ‘90 e organizzò il passaggio all’Unione europea con François Mitterrand e Jacques Delors è stato spazzato via nelle elezioni del 2017, ridotto al 6 per cento dei voti.
In Germania la SPD, dopo essere stata al centro della politica europea con Willy Brandt e Helmut Schmidt, è ridotto a un partito subalterno senza arte né parte.
Questa discesa agli inferi non è casuale. Tutti i partiti di tradizione socialdemocratica, alla fine del secolo scorso dominanti in Europa e fautori senza riserve del passaggio alla moneta unica, hanno in un modo o nell’altro partecipato alla stessa metamorfosi ideologica e politica. Metamorfosi riassumibile nel rigetto delle caratteristiche fondamentali della tradizionale sinistra europea: il rigetto del ruolo dello Stato nell’economia, della difesa dei fondamenti dello Stato sociale, della rappresentanza del mondo del lavoro in un rapporto attivo con i sindacati.
L’allontanamento, fino al ripudio, da questi valori sarebbe parso un tradimento senza una forte e, a suo modo affascinante, revisione ideologica: il superamento dello Stato nazionale verso l’approdo di un immaginario superstato europeo, garante della crescita economica e di nuovi equilibri sociali nell’era della globalizzazione. Conosciamo l’esito di questa nuova religione basata sull’avvento profetico di un nuovo mondo finalmente affrancato dai vincoli statalistici tipici della vecchia socialdemocrazia cresciuta nel passato millennio.
L’eurozona è l’unica area tra i paesi economicamente avanzati che non ha ancora recuperato i livelli di reddito anteriori alla crisi, la disoccupazione rimane mediamente prossima al 10 per cento, mentre in Italia è stabilmente più alta, e nel Mezzogiorno si aggira sul 20 per cento, che corrisponde alla condizione della Grecia, ma con una popolazione pressoché doppia.
In questo quadro, se il risultato elettorale del 4 marzo avesse confermato i due maggiori partiti – PD e Forza Italia – che si sono alternati al governo del paese con gli esiti di cui siamo stati testimoni, avremmo dovuto dubitare delle virtù della democrazia che, non ostante tutti i difetti, consente di giudicare col voto i governi e i loro fallimenti.
2. Nella primavera del 2019 si avvierà, in coincidenza col rinnovo del Parlamento europeo, un esteso cambiamento politico nei principali ruoli delle istituzioni europee. La nuova rappresentanza parlamentare rifletterà i profondi cambiamenti verificatisi negli ultimi anni nei paesi che compongono l’Unione. Dovranno essere nominati nei mesi immediatamente successivi il nuovo presidente del Parlamento europeo, il presidente della Commissione europea e il presidente del Consiglio dei ministri. In autunno scadrà il mandato di Draghi e bisognerà nominare il suo successore alla testa della BCE.
Se teniamo conto dei cambiamenti politici che si sono verificati nei paesi che compongono l’Unione europea, dobbiamo supporre che ne uscirà un quadro profondamente mutato. La rappresentanza dei partiti socialdemocratici che hanno governato, insieme con i Popolari, l’Unione europea sarà falcidiata. Il Partito popolare a sua volta presenterà uno scenario lacerato nel quale Merkel dovrà contrattare con Orban (e, forse, non è da escludere, con Salvini).
La Germania e la Francia conserveranno un ruolo di primo piano, ma su una base molto più incerta e fragile. In Germania, la coalizione di governo CDU-CSU e SPD è sostenuta nel Bundestag dalla più esigua maggioranza dell’ultimo mezzo secolo. La Francia ha visto impallidire la velleitaria ambizione di Macron di reinventarsi come un nuovo Mitterrand in grado di ridefinire le istituzioni europee, mentre è evaporato gran parte del consenso che accompagnò la sua elezione all’Eliseo con En Marche pour la France, il movimento che aveva fondato, trionfante nelle elezioni dello scorso anno, e ora ridotto al 20 per cento dei consensi secondo gli ultimi sondaggi.
In questo quadro, sorprendentemente, la novità sarà rappresentata dall’Italia, con un governo dotato di una forte maggioranza e l’ambizione di assumere un ruolo non subalterno in Europa.
3. Un compito non facile. Il nuovo governo dovrà misurarsi con la sfida del disavanzo di bilancio e del debito pubblico. Questo è in particolare il fantasma che in Italia compare a ogni tentativo di tracciare un percorso politico diverso dal passato. Un fantasma che può essere esorcizzato?
Partiamo dalla constatazione che l’aumento del debito pubblico non è una esclusiva caratteristica italiana. Era naturale che si verificasse in tempi di recessione economica, prima, e di stagnazione poi. Quando diminuiscono le entrate fiscali, mentre rimangono fisse le spese fondamentali di funzionamento dell’amministrazione e cresce l’onere degli interessi sul debito, c’è un solo modo per fronteggiare la crisi fiscale, ed è la ripresa della crescita puntando sugli investimenti pubblici necessariamente in disavanzo.
Così l’America fronteggiò la crisi degli anni trenta col New Deal di Roosevelt. E se questo può apparire un richiamo a un’epoca remota, sarà sufficiente ricordare che gli Stati Uniti sono usciti dalla crisi del 2008, immettendo nell’economia dissestata prima 700 miliardi di dollari per bloccare la crisi bancaria, sotto l’egida del ministro repubblicano del Tesoro, Henry Paulson; poi 800 miliardi decretati da Obama per il rilancio dell’economia.
Le autorità dell’eurozona hanno praticato una terapia in grado di uccidere invece di risanare il malato: rientro dal disavanzo e riduzione del debito prima che si avviasse la ripresa. Lo aveva già fatto Hoover, il presidente degli Stati Uniti nel 1929, innescando la più grave crisi della storia del capitalismo. Il risultato della politica europea è alla luce del sole. L’eurozona è l’area con la più bassa crescita nel mondo sviluppato. E l’Italia, la vittima sacrificale più illustre della politica di Bruxelles e Francoforte – giustificata dall’obiettivo di ridurre il debito – col prolungamento della recessione, ha visto crescere il livello del debito fino al 133 per cento del PIL – il livello più alto in Europa dopo quello della Grecia.
Il disavanzo di bilancio era un male comune in Europa, non una specialità in salsa italiana. In Francia e in Spagna è rimasto per anni a un livello doppio di quello italiano. Ma i governi italiani, invece di adottare una politica di riequilibrio, sono stati complici della politica deflazionistica imposta dall’eurozona. Il nuovo governo è nato sulla promessa di rompere questa complicità.
Non sarà facile. Qualche cifra, benché noiosa, può aiutare a illuminare il quadro. Secondo lo schema concordato dal passato governo con le autorità dell’eurozona, il disavanzo di bilancio dovrebbe scendere allo 0,8 per cento nel 2019 per azzerarsi nell’anno successivo. Come dire, in un paese con la più bassa crescita dell’Unione europea, un salasso micidiale. Il nuovo governo pone in primo piano l’avvio della realizzazione graduale del programma con il reddito di cittadinanza e una prima parziale riduzione delle imposte, nonché un aumento della spesa per investimenti infrastrutturali, a partire dalle esigenze imposte dalla catastrofe di Genova.
Tutto questo significa che, invece di puntare al pareggio del bilancio, il nuovo governo dovrà ripudiare, in un’economia agonizzante, l’obiettivo del pareggio del bilancio per tutto il tempo necessario al rilancio della crescita, degli investimenti e dell’occupazione. Attualmente, il governo sembra porsi l’obiettivo di un disavanzo di bilancio prossimo al due per cento o di poco superiore. Un obiettivo, tutto sommato, modesto. E, tuttavia indicativo di una svolta politica, col ripudio di una riduzione mirata all’azzeramento a breve del disavanzo in un’economia che cresce nella misura dello zero virgola qualcosa, probabilmente la più bassa a livello planetario.
Il segnale è importante. Mantenendo un obiettivo di disavanzo compreso fra il due e il tre per cento per i primi anni della muova legislatura, si renderanno disponibili fra 30 e40 miliardi l’anno per nuovi investimenti in grado di rilanciare la crescita e l’occupazione. Il debito in cifra assoluta tenderà inizialmente a crescere, mentre a medio termine il suo valore si ridurrà in relazione al PIL. Il nuovo governo dovrà misurarsi con ineliminabili ambiguità e contraddizioni interne alla coalizione, ma un cambio di rotta rispetto al passato appare possibile. Se si realizzerà ne trarrà vantaggio non solo l’Italia, ma l’Unione europea e la stessa eurozona.
(*) “Eguaglianza & Libertà” – Venerdì 14 settembre 2018
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