La situazione in Nicaragua sta diventando sempre più difficile e drammatica e le risposte del Governo di Ortega sono decisamente di natura repressiva. Sappiamo che gli Stati Uniti e le forze di destra latinoamericane cercano di strumentalizzare e soffiare sul fuoco delle ‘difficoltà’ economiche e sociali dei governi progressisti per ritrasformare gli Stati latinoamericani a ‘cortile di casa’ degli USA e delle multinazionali… ma la politica del Governo Ortega e di Rosaria Murillo si dimostra miope e in contraddizione con la rivoluzione sandinista. Le recenti dichiarazioni di due esponenti della sinistra latinoamericana, Sergio Ramírez (scrittore, periodista, vice presidente del governo nicaraguense dal 1985-1990) e José Mujica (guerrigliero del movimento Tupamaros, presidente dell’Uruguay dal 2010-2015), sono chiare: ‘Ortega deve fare un passo indietro’.
Riproponiamo un articolo di Julio Cortazar, Nicaragua tan violentemente dulce (tratto da Linea d’ombra edizioni, 1992).
Apocalisse di Solentiname di Julio Cortazar
Sempre così i ticos, molto silenziosi e pieni di sorprese. Scendi a San José de Costa Rica e trovi ad aspettarti Carmen Naranjo, Samuel Rovinski e Sergio Ramirez (quest’ultimo è del Nicaragua e non tico, ma che differenza fa? In fondo è lo stesso, che differenza c’è che io sia argentino, anche se per cortesia dovrei dire tino e gli altri nicas e ticos). Faceva uno di quei caldi e peggio ancora il programma incalzava, la conferenza stampa come sempre —perché non vivi in patria, che è successo con Blow Up così diverso dal tuo racconto, pensi che lo scrittore debba essere impegnato? — A questo punto già so che l’ultima intervista me la faranno alle porte del-l’ inferno e sono sicuro che le domande saranno le stesse, e che non cambierebbero neanche se per caso si trattasse “chez San Pietro”, — non ti sembrava là sotto di scrivere in un modo troppo ermetico per il popolo? Dopo, l’hotel Europa e quella doccia che conclude i viaggi con un lungo monologo di sapone e silenzio. Solo alle sette quando ormai era ora di andare in giro per San José e vedere se era tutto semplice e proprio come mi avevano detto, una mano mi afferrò per il vestito e dietro c’ era Ernesto Cardenal e che abbraccio, poeta, che bello che fosse lì dopo l’incontro a Roma, dopo tanti incontri sulla carta durante gli anni. Sempre mi sorprende, sempre mi commuove che qualcuno come Ernesto venga a ve-dermi e a cercarmi: dirai forse che è falsa modestia e continua pure a dirlo vecchio mio che lo sciacallo ulula ma l’autobus passa, sarò sempre un sentimentale, uno che ha sempre voluto così bene agli altri da venire prima o poi corrisposto. È più forte di me, ma parliamo d’altro. L’altro era che Ernesto sapeva del mio arrivo in Costa Rica e così era venuto dalla sua isola perché l’uccellino che gli porta le notizie lo aveva informato che i ticos mi avevano preparato un viaggio a Solentiname e gli pareva irresistibile l’idea di venir-mi a prendere. Così, dopo due giorni Sergio, Oscar, Ernesto e io riempivamo un facilmente colmabile velivolo Piper Aztec il cui nome sarà sempre per me un enigma. Ma volava tra singhiozzi e borborigmi abominevoli contrastati dai calipso su cui si sintonizzava il biondo pilota che sembrava del tutto indifferente alla mia impressione che l’azteca ci portasse dritti alla piramide del sacrificio. Evidente-mente non fu così, scendemmo a Los Chiles e di lì un jeep altrettanto traballante ci portò nella finca del poeta José Coronel Urteche, più persone farebbero bene a leggerlo, nella cui casa risposammo parlando di tanti altri amici poeti, di Roque Dalton e Gertrude Stein, di Carlos Martinez Rivas, finché arrivò Luis Coronel e ci dirigemmo verso il Nicaragua con la sua jeep e la panga a folle velocità. Ma prima di partire alcune foto ricordo con una macchina di quelle che lasciano uscire lì per lì un cartoncino celeste che, poco a poco, per la magia polaroid si va popolando di lente immagini: dapprima ectoplasmi inquietanti e un po’ per volta una narice, il sorriso d’Ernesto, la capigliatura crespa, la sua fascia alla nazarena, Doria Maria e Don José incorniciati nella veranda. A tutti da tempo abituati a servirsi di quella macchina sembrava una cosa normale, ma a me no, vedere uscire dal niente del piccolo riquadro celeste del nulla quelle facce e quei sorrisi di commiato mi riempiva di stupore.
Glielo dissi e ricordo di aver domandato a Oscar cosa succederebbe se una volta dopo una foto di famiglia, il cartoncino celeste del nulla cominciasse a riempirsi con Napoleone a cavallo, la risata piena di Don José che ascoltava tutto come sempre e la jeep e noi già verso il lago. A Solentiname arrivammo a notte inoltrata, lì aspettavano Teresa e William e un poeta gringo e gli altri ragazzi della comunità; andammo a dormire quasi subito ma prima vidi i dipinti in un angolo. Ernesto parlava con la sua gente e tirava fuori dalla borsa provviste e regali portati da San José, qualcuno dormiva in un’amaca e io vidi i quadri in un angolo e cominciai ad ammirarli. Non ricordo chi mi spiegò che erano lavori dei contadini della zona, questo l’ha dipinto Vicente, questa è della Ramona, alcuni firma-ti e altri no, ma tutti bellissimi, una volta di più la visione primigenia del mondo, lo sguardo limpido di chi descrive il suo ambiente naturale come un canto di lode: mucche in prati di papaveri, la capanna di canna da zucchero da cui esce gente come formiche, il cavallo dagli occhi verdi su uno sfondo di canneti, il battesimo in una chiesa che non crede nella prospettiva e si arrampica e ricade su se stessa, il lago con barchette come scarpe e in fondo un pesce enorme che ride con labbra color turchese. Allora venne Ernesto a spiegarmi che la vendita dei quadri aiutava a tirare avanti, che il giorno dopo mi avrebbe mostra-to i lavori in legno e pietre dei contadini e anche sculture sue. Stavamo per addormentarci ma io continuavo a occhieggiare i piccoli dipinti ammucchiati in un angolo, scoprendo la gran pila di tele con le mucchette e i fiori e quella madre con due bambini sulle ginocchia, uno vestito di bianco e l’ altro di rosso, sotto un cielo tanto pieno di stelle che l’unica nube se ne rimaneva da parte stringendosi contro la cornice del quadro, uscendo tutta spaventata dalla tela. Il giorno dopo era domenica e messa delle undici, quella di Solentiname durante la quale i contadini ed Ernesto e gli amici in visita commentano insieme un capitolo del vangelo che quel giorno trattava l’ arresto di Gesù nell’ orto, un tema che la gente di Solentiname affrontava come se parlasse proprio di loro, della minaccia che piombassero di notte e in pieno giorno, di questa vita di permanente incertezza che è delle isole e della terra ferma e di tutto il Nicaragua e non solo di tutto il Nicaragua ma di quasi tutta l’America latina: vita assediata dalla paura e dalla morte, vita del Guatemala e vita del Salvador, vita dell’Argentina e della Bolivia, vita del Cile e di Santo Domingo, vita del Paraguay, vita del Brasile e della Colombia. Bisognava già pensare al ritorno e fu allora che pensai di nuovo ai quadri, andai nella sala della comunità e cominciai ad ammirarli nella luce delirante del mezzogiorno, i colori più intensi, gli acrilici e gli olii dove si fronteggiavano cavallucci e girasoli e feste nei prati e palmizi simmetrici. Mi ricordai di avere un rullino a colori e uscii sulla veranda con le braccia cariche di quadri; Sergio che arrivava mi aiutò a disporli in una luce favorevole e li fotografai con cura uno dopo l’altro, in modo tale che ognuno occupasse interamente l’obbiettivo. Le combinazioni sono così: mi rimanevano da scattare tante foto quanti erano i quadri, nessuno rimase escluso e quando venne Ernesto a dirmi che la lancia era pronta, gli raccontai quello che avevo fatto e lui rise ladro di quadri, contrabbandiere di immagini. Sì, gli risposi, me li porto via tutti, li proietterò là nel mio schermo e saranno più grandi e brillanti di questi, tiè! Tornai a San José, fui a La Habana e in giro facendo cose. Di ritorno a Parigi con una stanchezza piena di nostalgia, Claudine silenziosa che mi aspettava ad Orly, un’ altra volta la vita con l’ orologio al polso e merci monsieur, bonjour madame, i comitati, i cinema, il vino rosso e Claudine, i quartetti di Mozart e Claudine. Fra le tante cose che le valige rospi avevano rovesciato sul letto e sui cuscini, rivi-ste, ritagli, tessuti e libri di poeti centroamericani, i contenitori di plastica grigia con le pellicole, tutte cose accumulate in due mesi, la sequenza della Scuola Lenin de La Habana, le strade di Trinidad, i profili del vulcano Irazu e le sue piccole pozze di verde acqua bollente dove Samuel io e Santa avevamo immaginato anitre già arrostite fluttuanti tra vapori sulfurei. Claudine aveva portato a sviluppare i rullini e un pomeriggio girando per il quartiere latino me ne ricordai e siccome avevo la ricevuta nel portafogli li ritirai. Erano otto. Pensai subito ai piccoli dipinti di Solentiname e a casa cercai nelle scatole guardando la prima diapositiva di ciascuna serie, mi ricordavo che prima avevo ripreso la messa di Ernesto, i bambini che giocavano fra le palme tali e quali alle pitture, bambini e palme e mucchine sullo sfondo violente-mente blu del cielo e del lago appena un poco più verde o il contrario, non mi era più tanto chiaro. Misi nel caricatore la serie dei bambini e la messa, sapevo che cominciavano le pitture fino alla fine della pelli-cola. Faceva notte ed ero solo, Claudine sarebbe venuta all’uscita dal lavoro per ascoltare musica e rimanere con me; preparai lo schermo e un rum molto ghiaccia-to, il proiettore con il caricatore pronto e il pulsante del telecomando; non era necessario tirare le tende, la notte servizievole accendeva le luci e il profumo del rum; era piacevole pensare che tutto poco a poco sarebbe tornato, dopo i piccoli quadri di Solentiname avrebbe cominciato a scorrere la pellicola con le cassette cubane, ma perché i quadri per primi, perché la deformazione professionale, l’ arte prima della vita, e perché no, diceva a questo l’altro me stesso nel loro eterno implacabile dialogo fraterno e insieme pieno di astio, perché non guardare per prime le pitture di Solentiname se sono la vita stessa, se tutto è la stessa cosa? Scorrevano le immagini della messa, piuttosto mal riuscite per errori di esposizione, in cambio i bambini giocavano in piena luce, i denti bianchissimi. Spingevo svogliatamente il pulsante, mi sarei soffermato a lungo a guardare ciascuna foto vischiosa di ricordo, piccolo fragile mondo di Solentiname circondato d’acqua e sbirri, come il ragazzo che guarda-vo senza capire, avevo schiacciato il pulsante e il ragazzo era lì in un secondo piano chiarissimo, una faccia larga e franca piena di incredula sorpresa mentre il corpo cade in avanti, il foro nitido in mezzo alla fronte, la pistola dell’ufficiale che disegna la traiettoria del proiettile, ai lati altri con le mitragliette, uno sfondo confuso di case e alberi. Si pensa quello che si pensa, ma quello viene sempre prima di te e ti lascia tanto indietro; stupida-mente mi dissi che si erano sbagliati dal fotografo, mi avevano dato le foto di un altro cliente, ma allora la messa, i bambini che giocavano nel prato, allora come. Nemmeno la mia mano obbediva quando schiacciò il bottone e apparve un deposito di salnitro due o tre capannoni di lamiere arrugginite nella luce del mezzogiorno, gente ammucchiata sulla sinistra che osservava i corpi supini, le braccia aperte contro un cielo nudo e grigio; bisognava fissare a lungo per distinguere nel fondo il gruppo in uniforme di spalle che sta andandosene, la jeep in attesa sulla sommità di una collinetta. So che andai avanti: di fronte a ciò che andava contro ogni buon senso l’unica cosa possibile era continuare a premere il pulsante, guardare l’angolo di Corrientes y San Martin e l’automobile nera con quattro individui che prendono la mira in direzione di un marciapiede dove qualcuno corre con una camicia bianca e scarpe da ginnastica, due donne che cercano di rifugiarsi dietro un camion in sosta, qualcuno che guarda avanti, una faccia incredula piena d’orrore che si porta la mano al mento per toccarsi e sentirsi ancora vivo, e all’improvviso un tratto quasi buio, una luce sporca che filtra da una piccola inferriata in alto, il tavolo con la ragazza nuda stesa supina con i capelli che arrivano fino a terra, l’ombra di spalle che le sta introducendo un cavo elettrico tra le cosce aperte, i due di fronte che parlano tra loro, una cravatta blu e un pullover verde. Non ho mai saputo se ho continuato o no a premere il pulsante, vidi nitidamente uno spazio aperto di selva, una capanna con il tetto di paglia e alberi in primo piano e contro il tronco del più vicino un ragazzo magro che guarda verso sinistra dove un gruppo confuso, cinque o sei assai vicini che mirano con fucili e pistole; il ragazzo con il viso lungo e un ciuffo che gli ricade sulla fronte scura li guarda, una mano alzata a metà, l’altra forse nella tasca dei pantaloni come se stesse dicendo loro qualcosa senza fretta, quasi in maniera indifferente, e sebbene la foto fosse confusa io avvertii e seppi e vidi che il giovane era Roque Dalton e allora sì spinsi il bottone come se con quel gesto avessi potuto salvarlo dall’infamia di quella morte e andai avanti vedendo un’ auto che volava a pezzi in pieno centro di una città che poteva essere Buenos Aires o San Paolo, continuai a spingere e spingere tra lampi di visi insanguinati e pezzi di corpi e donne e bambini che fuggono correndo lungo un pendio boliviano o guatemalteco. All’improvviso lo, schermo si riempì di mercurio e di nulla e di Claudine che entrava silenziosa spandendo-vi la sua ombra prima di chinarsi e baciarmi sui capelli e chiedere se erano belle, se ero soddisfatto delle foto, se volevo mostrargliele. Girai il caricatore e lo rimisi a zero, uno non sa come e perché fa le cose quando ha varcato un limite che nemmeno lui conosce. Senza guardarla, perché avrebbe capito o più semplicemente avuto paura di quello che doveva essere la mia faccia, senza spiegar-le niente perché ero tutto un groppo dalla gola fino alle unghie dei piedi, mi alzai e lentamente la misi nella mia poltrona e dovetti dirle qualcosa che andavo a prenderle un goccio e che guardasse, guardasse mentre andavo a prenderle un goccio. Nel bagno credo che vomitai o piansi solamente e dopo vomitai o non feci niente e rimasi solo seduto sul brodo della vasca lasciando passare il tempo fino a che riuscii ad andare in cucina a preparare a Claudine la sua bibita preferita, riempirgliela di ghiaccio e poi ascoltare il silenzio, rendermi conto che Claudine non gridava né veniva di corsa a chiamarmi, il silenzio niente altro e a tratti il bolero zuccheroso che filtrava dall’appartamento accanto. Non so quanto impiegai dalla cucina alla sala, a vedere la parte posteriore dello schermo proprio quando lei arrivava alla fine e la stanza si riempiva del riflesso del mercurio istantaneo e poi la penombra, Claudine che spegneva il proiettore e si spingeva indietro nella poltrona per prendere il bicchiere e sorridermi piano, felice e gatta e così contenta.
— Che carine ti sono riuscite, quella del pesce che ride e la mamma con i due bambini e le mucchine nel campo; aspetta, e quell’altra del battesimo nella chiesa, dimmi chi li ha dipinti, perché non si vedono le firme —. Seduto in terra, senza guardarla, presi il mio bicchiere e bevvi d’un fiato. Non le dicevo niente, che potevo dirle ora, però ricordo che pensai vagamente di domandarle una sciocchezza, chiederle se a un certo punto non avesse visto una foto di Napoleone a cavallo. Ma non glielo domandai, certo.
San José, La Habana, aprile 1976
(da NICARAGUA COSì VIOLENTEMENTE DOLCE, pubblicato da Linea d’ombra edizioni, 1992, a cura dell’Associazione Amici di Julio Cortazar e di Assunta Mariottini, per concessione della casa editrice Einaudi)
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