Il respiro comune del ’68 di Nicolas Martino*

 

Il ’68 è un gesto. Quello di Tommie Smith e John Carlos che alle Olimpiadi di Città del Messico, occhi rivolti a terra, alzano il pugno coperto da un guanto nero. Me è anche il gesto di un braccio teso a lanciare un sampietrino o una molotov. È una voce, quella di Gian Maria Volontè, alias Ludovico Massa, operaio che in fabbrica non ha più voglia, e rivuole indietro tutto quello che gli hanno rubato, punto e basta. Ed è anche la voce di Demetrio Stratos. È l’urlo dei ragazzi che il 2 ottobre del 1968 muoiono a Piazza Tlatelolco. È un disegno, quell’«Abbraccio eterno» di Franco Angeli che proprio nel 1968 immagina due giovani stretti per sempre sotto una bandiera rossa. Ma è anche una superficie di stucco, quella di «Per un uomo alienato» che un Alighiero Boetti marcusiano realizza nello stesso anno.

È la produzione grafica dell’Atelier Populaire des Beaux Arts. Il ’68 è un manifesto, quegli «Appunti per una guerriglia» di Germano Celant che, usciti su Flash Art nel novembre del 1967, danno la stura agli sconfinamenti dell’Arte Povera. Il ’68 è una mostra-evento, «Arte Povera + Azioni Povere» organizzata nell’ottobre del 1968 da Marcello Rumma – visionario imprenditore culturale al quale tanto deve la rivoluzione dell’arte e dell’immaginario di quegli anni – che negli antichi Arsenali di Amalfi riunisce in assemblea artisti e critici. È anche il «Teatro delle Mostre» alla Tartaruga di Plinio De Martiis, un’altra mostra-evento dove, nel maggio del 1968, Cesare Tacchi si cancella come artista, e Nanni Balestrini rimonta i muri della Sorbona. Il ’68 è una galleria, «L’Attico» di Fabio Sargentini, ovvero un garage in via Cesare Beccaria che rivoluziona lo spazio dell’arte. È la lotta, indefessa, di Carmelo Bene contro la dittatura del testo e contro la rappresentazione. Il ’68, allora, è nel corpo sonoro di «Nostra Signora dei Turchi», e nel «Tentativo di volo» di Gino De Dominicis. È nel fuori dalle gabbie dello Zoo di Michelangelo Pistoletto, e nell’arte-vita dell’assemblea permanente di Piero Gilardi. È un incidente in moto sul Muro Torto, quello che si porta via Pino Pascali, a soli 33 anni. Ancora, è l’immagine delle camionette della celere a Valle Giulia e degli studenti che non scappano più. È il tempo della prassi che rovescia. È una rivista, «Quindici», 19 numeri tra il giugno del 1967 e l’agosto del 1969, ma anche i «Quaderni Piacentini» di Piergiorgio Bellocchio. Il ’68 è L’Internazionale Situazionista, e un trittico di libri-miccia, «Della miseria nell’ambiente studentesco» – anonimo ma scritto sostanzialmente da Mustapha Khayati – «Trattato del saper vivere a uso delle giovani generazioni» di Raoul Vaneigem, e «La società dello spettacolo» di Guy Debord, tutti usciti nel 1967. È un dittico di «Tesi», quelle della Sapienza (ovvero dell’Università di Pisa) del 1967, che avanzano la questione degli studenti come forza-lavoro in formazione, e quelle del 1969 di Hans-Jürgen Krahl, che contro l’opaca riforma habermasiana della teoria critica francofortese da un lato, e l’apocalittica e paralizzante disperazione di Adorno, dall’altra, insisteva sul ruolo immediatamente produttivo dell’intelligenza tecnico-scientifica, e sulla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

La fine di un mondo, in effetti, che apriva la possibilità di una trasformazione radicale. E infatti con il ’68 inizia la fine del mondo. Ma poiché, come spiega Ernesto De Martino nella sua opera incompiuta, a finire non è mai il mondo, ma un mondo in particolare, quello che inizia a finire con il ’68 è appunto un mondo, quel mondo nato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, il mondo borghese. E proprio di questo parlano le «Tesi» profetiche di Krahl, brillante e giovane maestro del movimento. A finire è dunque una particolare configurazione dell’età moderna, con la quale finisce l’immagine borghese del mondo che si era andata lentamente affermando nel corso degli ultimi secoli, così come indagato da Franz Borkenau in uno straordinario saggio del 1934. In questo senso il ’68 è una rivolta contro le istituzioni che avevano dato vita a quel mondo, e quindi contro quella Università, quella scuola e quel sistema educativo, contro il quale si scagliava, nel 1967, la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana e di Don Lorenzo Milani. Contro la famiglia, il sesso, la morale, la cultura, e contro l’organizzazione economica che quel mondo si era dato. Il ’68 è una rivoluzione totale che vuole farla finita una volta per tutte con quel mondo, e ogni sua espressione e manifestazione è solo l’inizio di un rivolgimento molto più complesso e articolato. È dunque una rivoluzione antiautoritaria, perché vuole mettere in discussione i ruoli, e linguistica, perché ogni mondo ha una sua propria lingua che si può difendere, combattere e/o reinventare. È una rivoluzione libertaria, senz’altro, perché vuole rovesciare la morale borghese, la famiglia, i rapporti tra i sessi, insieme al modo di vestire, di mangiare, di abitare e di vivere la vita quotidiana. Ma è anche, e decisamente, una rivoluzione anticapitalista, che di quel sistema economico-sociale si vuol disfare per spalancare le porte a rapporti sociali e lavorativi più liberi e giusti. Non c’è ’68 senza ’69, non bisogna dimenticarlo, ovvero non ci sono studenti dentro e contro l’università, senza operai in lotta dentro e contro la fabbrica. In questo senso il ’68 fa parte di una lunga lotta che annovera tra le sue date il 1378 del tumulto Ciompi, il 1525 della battaglia di Frankenhausen, il 1789 della presa della Bastiglia, il 1793 dei giacobini neri ad Haiti, il 1848 dei moti radicali in Europa e il 1871 della Comune di Parigi. Senza dimenticare il 1905 dei Soviet e il 1917 dell’assalto al Palazzo d’inverno. La data segna anche l’inizio, come dicevamo, della fine dell’organizzazione culturale borghese, e quindi, insieme a quella dell’Università moderna, inizia la fine dell’intellettuale, quello nato con l’affaire Dreyfus alla fine dell’Ottocento, che si era autoinvestito dell’infame compito di parlare al posto di qualcun altro. La presa di parola collettiva segna il declino inevitabile della coscienza rappresentante o rappresentativa, e anche l’artista e l’opera d’arte iniziano a essere messi radicalmente in discussione. Fuori dal quadro, fuori dalle linee, un movimento che dalle fabbriche e dalle gallerie si riversa giù nelle strade. È dunque, l’abbiamo detto, l’inizio di una fine, ma è anche l’inizio di una transizione, quella da un mondo a un altro. Sì, perché, è sempre De Martino a spiegarlo, con la fine di un mondo, ne inizia uno nuovo, così come la fine della civiltà greco-romana segna l’inizio di un un mondo nuovo, straordinariamente ricco di intelligenza e di innovazioni tecnologiche, politiche e sociali, che durerà più di 1000 anni. Con il 1968 allora, e lo si vede bene nel lungo ’68 italiano che dura fino al 1978, inizia la transizione dall’immagine borghese all’immagine moltitudinaria del mondo, ovvero segna il passaggio dal moderno al postmoderno. Il ’68 è, in questo senso, l’ultima delle rivoluzioni moderne, come il ’77 sarà la prima delle insurrezioni postmoderne (e la differenza tra rivoluzione e insurrezione non è una questione puramente linguistica, essendo il concetto di rivoluzione, scientificamente e politicamente, tutto dentro l’immagine borghese del mondo). È la fine del tempo, o meglio di una certa idea del tempo che scorrerebbe inesorabilmente verso il meglio, e l’inizio di un altro tempo, o meglio di molti tempi differenti che si muovono contemporaneamente in molte direzioni. Il ’68 allora è solo un inizio, come recita uno degli slogan più famosi del maggio parigino, perché non è che l’inizio di un mondo nuovo, il nostro mondo, quello nel quale ci troviamo oggi. E questo inizio non finisce mai di riniziare sempre daccapo, ogni giorno. Il ’68, infine, è quella solenne incazzatura raccontata da Luciano Bianciardi e che, covata in solitudine negli anni del boom economico, qualche anno dopo si sarebbe incarnata nel corpo collettivo di una generazione che, da una parte all’altra dell’Oceano, stava imparando a cospirare, ovvero a respirare insieme.

(tratto dal sito: roots&routes, research on visual cultures)

*Nicolas Martino coordina, con altri, la rivista «OperaViva Magazine». Ha pubblicato è solo un inizio.1968 (con Ilaria Bussoni – Electa, 2018), e curato l’«Almanacco di alfabeta2» (DeriveApprodi, 2015), e Arte e multitudo di Toni Negri (DeriveApprodi, 2014). Con Ilaria Bussoni e Cesare Pietroiusti ha curato la mostra Sensibile comune. Le opere vive (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, 2017), e con Ilaria Bussoni e Manolo De Giorgi la mostra Looking forward. Olivetti 110 anni di immaginazione (Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, 2018).

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