Il 15 dicembre 1969, quasi 48 anni fa, Pino Pinelli morì precipitando dal quarto piano della Questura milanese. Il 17 maggio 1972, più di 45 anni fa, Luigi Calabresi morì ucciso di fronte alla propria casa a Milano. Pubblico qui un commento su questi fatti, che sono eminentemente pubblici ma per me anche strettamente personali. Preferisco dunque non consegnarli a un giornale, benché i giornali sui quali ho scritto e scrivo non siano impegnati dalle mie opinioni, né io dalle loro. L’occasione è un articolo uscito ieri sul prestigioso quotidiano spagnolo El País, per la firma prestigiosissima di Mario Vargas Llosa, col titolo “Gli anni di piombo”. Vargas Llosa ne spiega la premessa: è venuto a Bologna per il festival Repidee, è stato intervistato dal direttore di Repubblica Mario Calabresi, è stato felicemente colpito dal fervore culturale e civile della piazza bolognese. Tornato in albergo ha letto con ammirazione il libro di Calabresi, “Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo” (Mondadori 2007), e si è trovato di fronte l’altra faccia dell’Italia, quella del terrorismo che “pretendeva di lavare col sangue tutto ciò che andava male nella società italiana”. Il suo articolo, Los años de plomo, si legge sul sito del giornale; le citazioni che seguono sono tradotte da me.
Lo scrittore premio Nobel dà per scontata la responsabilità di Lotta Continua nell’omicidio di Luigi Calabresi, a ciò autorizzato, lui e chiunque altri, dalla sentenza della giustizia italiana passata in giudicato. A quella sentenza e a quella giustizia io mi oppongo come a uno scandalo doloso, ma non è questo il mio punto di oggi. E’ il quadro che Vargas Llosa disegna, come il frutto della sua veglia bolognese.
“L’assassinio /di Calabresi/ fu preceduto da una campagna fraudolenta, che lo accusava di aver assassinato Giuseppe Pinelli, militante di quella organizzazione, che cadde da una finestra mentre era interrogato su una bomba esplosa in una banca milanese. La campagna era fatta di striscioni, manifesti di intellettuali progressisti, volantini, denunce in manifestazioni pubbliche, articoli di stampa, poster sui muri di Milano. Così si andò imponendo nella opinione pubblica quella bufala (patraña). Che tuttavia nel corso degli anni sarebbe stata smentita sistematicamente da varie indagini ufficiali che provarono inequivocabilmente che il commissario Calabresi non era nella stanza – le cinque persone che vi si trovavano lo testimoniarono – quando avvenne la defenestrazione del militante anarchico”.
Non importano i dettagli: Pinelli non era di Lotta Continua, la caduta e la defenestrazione non sembrano sinonimi. Mi interessano due aspetti: l’inconcepibile, per un illustre lettore di passaggio di oggi, campagna contro Luigi Calabresi, e la dimostrazione “inequivocabile” prodotta dalle successive indagini. Mi interessano perché sono ricorrenti anche nell’opinione italiana non di passaggio. Della campagna di Lotta Continua ho scritto innumerevoli volte. Essa fu immediata e contribuì decisivamente, insieme a quella degli anarchici e di poche coraggiose voci individuali, a sventare la trama della strage di Stato che attentò ferocemente alla democrazia italiana alla fine del ’69 e il depistaggio meditato da lontano per incolpare gli anarchici, e personalmente Pino Pinelli, di un micidiale attentato terrorista eseguito dall’estrema destra con la connivenza di uomini e apparati dello Stato. Questo è provato inequivocabilmente dalle “varie indagini”. Nel corso del tempo, la campagna di Lotta Continua, che era stata temerariamente provocante col fine di portare la morte di Pinelli e la responsabilità di Calabresi a processo, diventò compiaciuta, feroce, triviale e maramaldesca: orrenda. Io non vi ebbi parte personale ma ne assunsi la piena responsabilità, perché il mio ruolo in Lotta Continua non mi esonerava da qualunque parola o gesto la riguardasse. Ma c’è un episodio della campagna di denuncia sulla strage di Stato e sulla responsabilità di Calabresi che fu allora cruciale e lo è ancora di più nella memoria distorta di oggi, per vera smemoratezza, per rimozione, o per interesse fazioso. E’ il famoso, poi via via famigerato, manifesto-appello degli intellettuali pubblicato a partire dal 13 giugno 1971 sull’Espresso. Lotta Continua non vi partecipò, la mia firma non vi figurava: non saprei nemmeno dire se perché non venissi annoverato fra gli intellettuali meritevoli di essere interpellati per firmare qualcosa o perché la mia convinzione rivoluzionaria di allora mi facesse ignorare come borghese e inefficace la collezione di firme. “Manifesti di intellettuali progressisti”, scrive Vargas Llosa nel suo elenco. Ricordiamo questo, quanti intellettuali e quali: 763 quando l’Espresso rinunciò a proseguire nella pubblicazione delle firme che continuavano ad aggiungersi. Quali: più facile contare chi non c’era. C’erano Primo Levi e Giorgio Amendola, Franco Basaglia e Giorgio Benvenuto, Marino Berengo e Alberto Bevilacqua, Walter Binni e Luciano Bianciardi, Norberto Bobbio e Giorgio Bocca, Corrado Cagli e Pierre Carniti, Giovanni Raboni e Luigi Comencini, Tullio De Mauro e Piero Dorazio, Gillo Dorfles e Umberto Eco, Giulio Einaudi e Federico Fellini, Dario Fo e Lucio Gambi, Natalia Ginzburg e Giovanni Giudici, Vittorio Gorresio e Margherita Hack, Renato Guttuso e Delfino Insolera, Vito Laterza e Carlo Levi, Enzo Mari e Alberto Moravia, Franco Antonicelli e Cesare Musatti, Luigi Nono e Giancarlo Pajetta, Marco Pannella e Pier Paolo Pasolini, Elio Petri e Ugo Pirro, Gillo Pontecorvo e Paolo Portoghesi, Franca Rame e Angelo Maria Ripellino, Lalla Romano e Natalino Sapegno, Eugenio Scalfari e Mario Soldati, Umberto Terracini e Tiziano Terzani, Bruno Trentin e Bernardo Valli, Emilio Vedova e Carlo Augusto Viano, Cesare Zavattini e Bruno Zevi, Paolo e Vittorio Taviani e Giuliano Montaldo… Ne ho citati parecchi, lasciandone fuori altrettanti spesso di altrettanto nome, per rifare un’ennesima volta una domanda: fosse pure l’epoca troppo indulgente agli appelli collettivi e alle vanità intellettuali, come fu possibile che centinaia, migliaia di persone di questa qualità si impegnassero per un appello che viene ricorrentemente rievocato come poco meno che un’istigazione al linciaggio? Nessuna delle ricorrenti rievocazioni si prende la briga di rispondere. Non lo fanno nemmeno quelli, fra i firmatari di allora, che sentono il dovere, o la convenienza, di scusarsene, col risultato che le scuse riducono il loro passato a un’inspiegabile ubriachezza.
Il libro di Mario Calabresi, che racconta sentimenti suoi e della sua famiglia, in un modo che Vargas Llosa appassionatamente loda, ma offre anche una ricostruzione di fatti, non aiuta a rispondere alla domanda. Scrive: “Mio padre querelò ‘Lotta Continua’ per l’accusa di essere l’assassino di Pinelli e per tutte le leggende ‘americane’ che aveva creato, concedendo ampia facoltà di prova nella speranza di dimostrare che quelle contro di lui erano calunnie. Una querela a cui mia madre si oppose fino all’ultimo, ‘così fai il loro gioco’, ma mio padre spiegò che glielo aveva chiesto il ministero dell’Interno. Fu tutto inutile e il processo si ritorse contro di lui, perdendo di vista l’oggetto della querela. Alla fine il giudice venne ricusato e il processo venne sospeso e assegnato ad altri giudici”. Fu allora, contro quella ricusazione, che uscì l’appello delle firme. “Alla fine il giudice fu ricusato”: ma perché? Che cosa era successo?
Il processo “Calabresi-Lotta Continua” si aprì nell’ottobre 1970 e andò avanti, pieno di colpi di scena, per alcuni mesi. Fino all’aprile del 1971, quando la corte, presieduta da un anziano magistrato, Carlo Biotti, e completata da due giudici a latere, dispose di esumare il cadavere di Pinelli per una nuova perizia. La decisione provocò la reazione estrema dell’avvocato di Calabresi, Michele Lener, amico di vecchia data di Biotti e suo rappresentante legale in alcune circostanze passate, che chiese la ricusazione dei giudici. Per motivarla riferì di aver avuto, cinque mesi prima, una conversazione segreta nella propria casa col presidente Biotti, che gli comunicò di essere convinto, lui e i suoi due colleghi (una era una donna) della colpevolezza di Calabresi, e gli anticipò l’intenzione di disporre una nuova perizia. Gli disse anche, secondo Lener, di tenere alla propria carriera, e di aver avuto pressioni favorevoli all’imputato di calunnia, Pio Baldelli, che stava in processo nella qualità di direttore responsabile del quotidiano di Lotta Continua. Biotti, sottolineava Lener, gli aveva comunicato l’intenzione di assolvere Baldelli, non solo in ossequio alla libertà di stampa, ma perché riteneva fondate le accuse a Calabresi. Dopo averne taciuto per cinque mesi, Lener tirò fuori il suo racconto per far saltare il processo. Biotti negò di aver mai detto le cose riferite da Lener. La Corte d’Appello accolse l’istanza di ricusazione e il processo, che aveva suscitato un’attenzione e un’emozione enorme nell’opinione pubblica, venne cancellato. Su quella opinione pubblica si rovesciarono così notizie inaudite: che il giudice presidente e il famoso avvocato del querelante avevano una confidenza da amiconi e parlavano, se non trattavano, del processo nel loro salotto privato o nella tribuna dello stadio di Milano; che il giudice – se la versione dell’avvocato era vera – preannunciava la sentenza ma poi si lasciava intimidire dall’avvocato e prometteva di cambiarla; che il grosso avvocato partecipava al processo tenendo pronta la carta della ricusazione della corte, se avesse intravisto la mala parata; che rivalità politiche e di carriera soverchiavano diritto e lealtà nella condotta del Palazzo di Giustizia. Infine, che il giudice naturale del processo cui spettava di stabilire se l’accusa di omicidio mossa contro Calabresi fosse o no calunniosa, e dunque se dovesse assolvere o condannare l’imputato e attraverso lui Lotta Continua, aveva detto di essere convinto, lui e i suoi due colleghi, che Pinelli fosse stato colpito e defenestrato. E se invece non l’avesse detto davvero, e fosse stato l’avvocato di Calabresi a spingersi fino a quella invenzione pur di affossare il processo, alla vigilia della esumazione della salma e della sentenza, la conclusione non sarebbe parsa meno scandalosa.
Quello fu il contesto dell’appello famoso e famigerato e della valanga di firme che raccolse. Il contesto, ho scritto altrove a questo proposito, è il rifugio dei farabutti, che lo invocano a giustificazione o ad attenuante delle loro malefatte. Ma è anche il criterio irrinunciabile all’intelligenza delle cose. Il contesto era quello: un’opinione pubblica sempre più convinta, dopo un anno e mezzo, che l’innocente Pinelli non si fosse suicidato e che la versione della polizia fosse stata una deliberata menzogna, si trovava di fronte alla doppia notizia: che la magistratura (nel caso di Biotti la più lontana da una caratterizzazione “di sinistra”, per giunta) accreditava il più spinto dei sospetti, e che in quel punto interrompeva il corso della giustizia.
Ecco, per chi non l’abbia letto, o l’abbia scordato, il testo dell’appello:
“Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di un’odiosa coercizione.
Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Marcello Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a questa fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini”.
Queste le circostanze, questo il testo degli “intellettuali progressisti”. L’avevo ripubblicato, con l’elenco completo dei firmatari, nel mio libro “La notte che Pinelli” (Sellerio, 2009), cui rimando chi cercasse una ricostruzione più eauriente.
Lo scorso dicembre è uscito un libro di Enrico Maltini (che intanto è morto) e Gabriele Fuga, intitolato “Pinelli, l’ombra dei servizi”, sottotitolo: “Quando l’anarchico precipitò, la Questura era zeppa di agenti in incognito” (Colibrì edizioni). Vi si documenta la presenza nella Questura milanese in quella fatale notte di un gruppo di funzionari e tecnici dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, presenza mai registrata in atti ufficiali. Non sono stato in grado di studiarlo ancora, e in cambio riporto per l’essenziale una recensione di Corrado Stajano sul Corriere della Sera (12 gennaio 2017):
“Subito dopo la strage di piazza Fontana furono 14 i funzionari anche di livello alto che piombarono a Milano con il nome di Valpreda assassino scelto a freddo su indicazione soprattutto di un informatore. Tra loro nomi di rilievo come Silvano Russomanno, un passato nella Repubblica di Salò, 373° Battaglione Flach, internato dopo la guerra a Coltano, il campo di concentramento dei repubblichini — la continuità dello Stato — e con lui Elio Catenacci, il direttore apparente degli Affari riservati. Il vero regista, capo effettivo dei servizi, fu Federico Umberto D’Amato, morto nel 1996, che finì la carriera come gourmet dell’«Espresso». In trent’anni, un altro mistero, non venne mai interrogato dai magistrati. Si sa adesso che oltre ad essere legato al vertice del controspionaggio della Cia in Italia, James Angleton, aveva strettissimi rapporti con Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale e degli eversori fascisti, notizia sempre negata («Non l’ho mai visto») e ora documentata dal suo vice Guglielmo Carlucci.
Erano quei 14 venuti da Roma a decidere il da farsi, a dettare la linea, a scrivere i rapporti che i questurini di Milano poi firmavano. Questi uomini in incognito si aggiravano in via Fatebenefratelli, sconosciuti a chi allora passò da quelle stanze. I romani non avevano una gran stima dei milanesi, complici ubbidienti. Solo il capo dell’ufficio politico della Questura, Antonino Allegra, legato a Russomanno, conosceva forse qualche verità in più dei colleghi o sottoposti. Fu lui ad accompagnare a Roma in aereo il tassista Rolandi e a condurlo al Viminale dal capo della polizia Angelo Vicari, bene attento a parlarne, come avrebbe dovuto, ai magistrati. Fu lui, giorni dopo, a dire a Vicari che «al momento del fatto, Pinelli era appoggiato di spalle alla finestra», un particolare, scrivono gli autori del libro, che «fa piazza pulita dei tuffi e balzi felini ripetuti dai sottufficiali presenti, dal tenente dei carabinieri Lo Grano e dagli stessi Allegra e Calabresi». (Scatti felini, tuffi, balzi repentini e fulminei). Probabilmente Pinelli fu picchiato, colpito, spinto violentemente verso la finestra e cadde.
Come mai, a esclusione del tenente dei carabinieri, nessuno degli uomini della stanza ebbe un barlume di pietà e scese in cortile a vedere quell’uomo? Probabilmente perché nello studio del commissario Allegra si doveva frettolosamente decidere quel che si sarebbe dovuto fare e dire ai giornalisti. («Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. (…) Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa», come disse il questore Guida).
Chi c’era nella stanza del quarto piano della Questura di Milano quei giorni, quella notte? È impensabile che l’interrogatorio di Pinelli, di grande rilievo per tutta l’inchiesta sulla strage, fosse affidato al commissario Luigi Calabresi, l’ultimo nella catena gerarchica. Dov’erano Russomanno, Catenacci e anche altri con gradi alti nei servizi, Alberto D’Agostino, Ermanno Alduzzi, Guglielmo Carlucci? Chi irruppe nella stanza e fece il saltafosso, tipico delle polizie, in questo caso l’urlo «Valpreda ha parlato»?
Calabresi quella notte, davanti a cinque giornalisti, avallò le menzogne del questore Guida, non ebbe un moto di dissenso né di amarezza, ma questo non esclude che possa essere stato usato dai suoi superiori, tutti, come capro espiatorio e che i veri responsabili siano altri”.
Queste informazioni servono alla memoria nostra ed eventualmente a un osservatore come Vargas Llosa, che sa senz’altro molte più cose dell’Italia di quante io ne sappia del Perù e della Spagna insieme. Nell’ultima parte del suo articolo Vargas Llosa fa di Lotta Continua un’organizzazione terroristica, e si misura anche in un arduo raffronto fra il terrorismo dei cosiddetti anni di piombo e quello jihadista di oggi (che peraltro, scrive, fa apparire il primo poco più che “giochi infantili”). Tuttavia trova che un filo congiunga, dall’anarchismo di fine ‘800 fino a oggi, “bandas de fanáticos religiosos y políticos que creían en el baño de sangre purificador, en las matanzas que librarían a la humanidad de sus estigmas y bajarían el cielo a la tierra”. Quanto a Lotta Continua e a me stesso, ho scritto a Vargas Llosa che, se appena gli interessasse, lo incontrerei volentieri quando e dove preferisse.
(domenica, 2 luglio 2017)
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