La sinistra e il futuro. In margine a un libro di Gianni Cuperlo* di Cesare Molinari

 

L‘ultimo libro di Gianni Cuperlo, In viaggio, è un piccolo libro, ma talmente denso che sarebbe difficile perfino elencare tutti i temi che vi sono trattati o almeno sfiorati. Certo, il viaggio del titolo è un percorso verso una possibile o sperata rifondazione della sinistra e di un suo partito, ma l’Autore ha ben chiaro che essa non è neppure pensabile senza una conoscenza il più possibile oggettiva della situazione presente e soprattutto senza un’immaginata previsione di come il presente potrebbe evolvere e di quali strumenti dovrebbero essere messi in atto per governare tale evoluzione, pur senza la speranza di determinarla.

Pertanto sarà bene muovere dal principio, dove l’accento viene subito posto sul valore delle parole, che non sempre e non per tutti hanno lo stesso significato, in un’ambiguità spesso intesa a coprire ragioni e propositi inconfessabili. E ciò mi spinge a elencare una serie di parole che in linea di massima mi sono insopportabili e che, comunque, non andrebbero mai usate senza chiarirne il senso che assumono in un determinato contesto.

La prima di queste parole è certamente “identità”, parola “avvelenata”, come la ha definita Francesco Remotti – poiché copre un sostanziale razzismo, come ha ulteriormente chiarito Amartya Sen, in quanto l’identità viene concepita come un fattore naturale, il tratto distintivo che qualifica un popolo o, appunto, una razza e al quale essi non possono rinunciare, così come un individuo (il solo cui il termine potrebbe essere correttamente applicato) non può rinunciare alla sua faccia, che peraltro negli anni cambia anch’essa profondamente. Anche Cuperlo parla di identità, facendone addirittura il titolo del suo secondo capitolo, ma attribuendo al termine un significato radicalmente opposto, giacché non si parla dell’identità di un individuo, o di un popolo (cioè di “identità chiuse”) bensì di un partito, che deve essere costruito e reso riconoscibile grazie ai valori che ne vengono posti a fondamento.

La seconda parola da rifiutare, soprattutto quando viene usata per indicare un valore assoluto, è “cambiamento”, parola che, non per nulla, ha riempito la bocca di tanti leader politici e che potrebbe essere sistemata ricorrendo a una vecchia pubblicità del Maggiolino Volkswagen: “chi cambia per cambiare rende vecchio il modello di ieri”. Il problema non è il cambiamento in sé: il mondo cambia da solo, e cambia tanto rapidamente che è difficile stargli dietro e perfino capire che direzione ha preso, sicché il vero problema dovrebbe consistere  non già  nel promuovere, ma nel governare il cambiamento (o almeno nel cercare di farlo), per impedire che esso distrugga più di quanto riesce a costruire, per capire chi ne verrebbe favorito e chi danneggiato. Forse bisognerebbe cercare di rallentare il cambiamento, per impedire che troppi rimangano indietro, finendo fra gli esclusi.

Ma la parola più mefitica, quella che andrebbe semplicemente cancellata dal vocabolario di un partito che si voglia ‘di sinistra’, è certamente “leader”. Leader, come tutti sanno, è una parola inglese, che, in prima istanza, significa ‘colui che guida, che conduce’ un’automobile come un gruppo di uomini. Ma basta considerare i termini equivalenti in altre lingue per rendersi conto del significato profondo che la parola leader ha assunto nel linguaggio della politica: in italiano si è detto “duce”, molto opportunamente in verità, poiché duce può valere ‘guida’, ma anche ‘condottiero’. In tedesco poi leader ha trovato il suo perfetto equivalente, o forse il suo modello, con Führer, parola tanto ovvia, quanto capace di far tremare le vene e i polsi ancora oggi. Ed è significativo che negli ultimi anni siano state pubblicate dozzine di libri sui concetti di leader e di leadership (Lucio Fontana, Daniele Golemann, Mauro Calise), parallelamente a quelli dedicati ai rischi e ai dubbi sulla democrazia (Cassese, Odifreddi). Opportunamente Cuperlo sottolinea che il primo problema in vista della (ri)costruzione di un partito o di un fronte democratico non può essere individuato nella ricerca di un “capo”, o leader che lo si voglia chiamare – ma in inglese “capo” si dice boss, che vale anche ‘padrone’ perché tutti i capi tendono istintivamente a diventare dei padroni. L’esempio di Renzi potrebbe essere paradigmatico in quanto egli ha sacrificato a questo istinto molte delle buone idee che pure ha avuto.

Ben lungi dalla ricerca di un capo, il primo problema deve essere bensì la gestione del presente, ma solo “collocandoti almeno nel pensiero in un tempo a venire”. (Si noti come Cuperlo si rivolga ai suoi lettori usando il ‘tu’, a sottolineare che la responsabilità è di tutti, ma soprattutto di ciascuno nel suo essere e nel suo agire del momento). Volendo affermare che un partito non può esistere senza costruirsi una visione del futuro possibile e del futuro auspicabile.

Solo due o tre anni fa, ma quindi già in vista delle ultime elezioni, il Movimento5stelle ha commissionato al grande sociologo Domenico de Masi una ricerca che permettesse di individuare la possibile evoluzione del lavoro nel corso del prossimo decennio, vale a dire in un arco di tempo relativamente breve, il destino del lavoro essendo, giustamente, considerato determinante per la configurazione complessiva della società umana. E de Masi (il quale, sia chiaro, è uomo ‘di sinistra’) rispose proponendo una serie di questionari a tredici esperti, le cui risposte disegnano un quadro contradditoriamente coerente (se mi si passa l’ossimoro) di quello che potrebbe essere diventato il mondo (e, in particolare l’Italia) nell’anno 2025. Non so se e in che misura i 5stelle abbiano utilizzato il lavoro di de Masi: qualche traccia se ne può individuare nella proposta del reddito di cittadinanza, del resto anticipato dal reddito di inclusione realizzato dal governo Gentiloni. Invece, nei primi mesi di questo 2018, de Masi ha pubblicato un altro grosso volume, Il lavoro nel XXI secolo, che si presenta come una dettagliata storia del lavoro da condanna biblica a positivo mito borghese, ma che si conclude con una visione utopica di un mondo liberato sia da quella condanna sia da quel mito, un mondo in cui l’idea di lavoro viene sostituita da quella di “ozio creativo” – anticipata, a ver dire, già da Marx e Engels nell’Ideologia tedesca (1846) e, in modo più dettagliato, da Paul Laforgue, che di Marx fu il genero, in Le Droit à la paresse, (Il diritto all’ozio,1883).

Ovviamente de Masi si rende ben conto che in questo mondo liberato dalla schiavitù del lavoro (e quindi necessariamente fondato su un pervasivo welfare state, attualmente in grave difficoltà) potrebbero non essere tutte rose, poiché, come ha già sottolineato Thomas Piketty (Le capital au XXIè siècle, 2013), se è vero che il tasso di rendimento del capitale è sempre stato e continua a essere più alto del tasso di crescita economica, è vero anche che nell’era dell’ozio creativo i talenti riceveranno, come del resto ricevono già oggi, stipendi e prebende sempre più alti, venendo a formare una nuova classe di ultra ricchi che non hanno neppure interesse a investire i loro soldi se non in speculazioni finanziarie, che non costano e non creano lavoro (e su questo si può vedere anche un altro libro di Cuperlo, Basta zercar, ma anche il mio saggetto Del talento e del merito).

Quale che possa essere la credibilità di tale visione, in questo specifico momento storico bisogna ripetere come il progresso tecnologico stia progressivamente cancellando posti di lavoro, non più soltanto nella produzione di beni di consumo, ma anche nel settore dei servizi, il che significa che la diminuzione nel primo settore non è più compensata dal crescere del secondo. Prendendo atto di questa realtà, tutti, ma proprio tutti i partiti e i movimenti politici, come, ovviamente, le organizzazioni sindacali ma perfino quelle imprenditoriali, sembrano puntare sulla difesa del lavoro nelle industrie produttive, contrastando in vario modo la chiusura delle fabbriche, con finanziamenti pubblici o con provvedimenti che penalizzino la delocalizzazione e i licenziamenti. In altre parole, tutti sembrano voler farsi carico della difesa  di quella che un tempo veniva chiamata la classe operaia, allora considerata la naturale base elettorale dei partiti della sinistra, che ora invece tende piuttosto a riconoscersi in chi promette provvedimenti di carattere decisamente assistenziale come, appunto, il reddito di cittadinanza. La prova più lampante va individuata nella bruciante sconfitta subita dalla sinistra a Terni, ex-rocca rossa, proprio in quanto città operaia. Così il confronto del PD con gli altri partiti finisce col ridursi a una gara a chi promette più assistenzialismo, come testimoniato dalla contrapposizione (?) fra reddito di cittadinanza e reddito di inclusione. Pure, in Italia, ci sarebbero moltissime possibilità di lavoro. Anzi, ci sono molte emergenze che potrebbero trasformarsi in altrettante occasioni di lavoro. Si pensi soltanto alla sistemazione del territorio che sta rovinando. Ma qui l’ordine dei problemi si sposta. Chiaramente la sistemazione del territorio non può interessare le aziende private, in quanto, di per sé, non genera profitti. Essa può venire affrontata soltanto con investimenti pubblici, fortemente condizionati dalla limitazione del deficit al 3% del PIL. E lo sforamento di questo deficit è un altro cavallo di battaglia delle destre, in particolare di Matteo Salvini. Non è questo il luogo per fare la storia del culto dei ‘conti in ordine’ e del terrore dell’inflazione, se non per ricordare che tale terrore, storicamente, deriva dalla memoria della grande inflazione tedesca degli anni Venti (ma in Italia bisognerebbe anche ricordare la finanza allegra dei tempi di Craxi, che ha pesato sulla crescita economica per quasi vent’anni). Ma la prospettiva della riqualificazione del territorio potrebbe avere anche un altro aspetto: lavori del genere potrebbero impiegare non solo lavoratori italiani, ma anche molti migranti. E forse l’Italia dovrebbe smettere di cercare di ricollocare in altri paesi europei, certamente molto poco solidali, i migranti considerati in eccesso: non sarebbe più fattivo chiedere in cambio soldi, molti soldi, più di quelli dati alla Turchia per chiudere la rotta balcanica? Sarebbe, come si dice, prendere due piccioni con una fava?

Ma torniamo alla visione di un mondo in cui sono stati cancellati interi settori lavorativi. Tutto questo appare come un maledetto ‘combinato disposto’, e provocherà inevitabilmente un esponenziale aumento delle diseguaglianze: “crescita e diseguaglianze possono avanzare assieme”, conclude Cuperlo – all’interno delle singole società nazionali come fra gli stati –  trascinando nel fango quelli che rimangono, ormai da ben più di duecento anni, i principi fondamentali di qualsiasi sinistra: libertà, eguaglianza, fratellanza, poiché, come è stato mille volte detto e ripetuto, non si dà libertà senza eguaglianza e l’eguaglianza è possibile solo in forza della fratellanza, termine che i laici preferiscono declinare come solidarietà, anche se il significato sostanziale delle due parole rimane identico. Ed è forse proprio questa coincidenza semantica ciò che ha permesso la fusione in un solo partito dei cattolici veramente democratici (e, vien voglia di dire, veramente cristiani) con i comunisti e con i socialisti. Perché il Partito Democratico, nonostante il lungo travaglio che ne ha accompagnato la nascita attraverso le sue varie denominazioni, e nonostante le riserve e i conflitti interni mai sopiti, è stato la più originale operazione politica immaginata in Italia almeno dai tempi di Giolitti e di De Pretis.

Si parva licet componere magnis, se è lecito confrontare un avvenimento che riguarda soltanto la politica interna di un singolo paese con un altro che ha invece coinvolto, faticosamente e lentamente, dapprima sei stati geograficamente vicini, ma abbastanza diversi per storia, cultura, dimensioni e anche per interessi economici, fino ad arrivare poi a coinvolgerne ventotto, giungendo così a costruire un nuovo soggetto politico-economico che, in qualche misura, ha, se non sconvolto almeno ridimensionato gli equilibri mondiali; se questo confronto è lecito, allora si potrebbe dire che la nascita  e la storia del Partito Democratico ripetono in qualche modo quelle dell’Unione Europea. Il cui lungo cammino, dalla Comunità del carbone e dell’acciaio attraverso la Comunità economica europea, avrebbe dovuto concludersi con la nascita di una vera e propria federazione politica, che però è stata realizzata solo su di un piano formale, in quanto sono stati bensì creati un Parlamento europeo e un governo europeo (la Commissione) che però hanno reali poteri decisionali solo in ambito economico (le procedure di infrazione), ma non sul piano politico. Oggi l’Unione Europea è prossima a dissolversi. La causa prossima di tale dissoluzione è ovviamente da individuarsi nel problema della redistribuzione del numero dei migranti, che, affrontato in termini così miserevolmente aritmetici, sembra mostrare una sostanziale incomprensione (o rifiuto) delle cause prossime e remote delle migrazioni. Che molti hanno paragonato alle invasione barbariche, senza tener conto del fatto che i barbari arrivavano dal nord, fuggendo certo i disagi del clima, ma come vincitori; mentre gli attuali migranti arrivano dal sud, e come sconfitti. Sconfitti proprio da noi europei che li abbiamo colonizzati e depredati, ma sconfitti anche da se stessi, per non aver saputo\potuto liberarsi da quelle dittature che hanno preferito scatenare lotte e massacri intestini (si ricordi il Biafra) anziché puntare su una qualche forma di modernizzazione economica in grado di sfruttare le enormi risorse di certi paesi (vedasi il Congo) o di affrontare razionalmente le altrettanto enormi, ma non fatali povertà di certi altri (come la Somalia).

Mentre la causa profonda della imminente dissoluzione dell’Unione Europea andrebbe invece individuata nella profonda distanza ideologica e politica che oggi separa i paesi del così detto ‘gruppo di Visegrad’ (tutti, et pour cause, ex-satelliti dell’impero sovietico) dagli altri paesi dell’Unione. Significativamente, Gianni Cuperlo si chiede “se l’Europa pensata a Visegrad dovesse confliggere con quella sognata a Ventotene, l’Italia – il suo governo – dove si collocherebbe?”. E si noti che egli scriveva quando il governo grillo-leghista non si era ancora insediato. Quasi una profezia, se è vero che, giovandosi del cavallo di Troia della questione migranti, l’ideologia autoritaria dei paesi di Visegrad (e in particolare di Ungheria e Polonia – la Polonia! la prima martire del razzismo nazista!) sta facendosi strada nelle destre europee, dal Front National di Marine Le Pen alla tedesca Alternative für Deutschland alla nuova Lega sovranista di Salvini. E bisognerebbe anche chiedersi fino a che punto il mito della democrazia diretta proposto dalla Casaleggio e Associati (un’azienda privata, come Mediaset) non implichi il principio dell’uomo solo al comando: tutte le dittature prevedono un rapporto diretto fra il Capo e il suo popolo. D’altra parte Cuperlo sottolinea anche come Putin e Trump, due capi di stato dalle spiccate tendenze autoritarie, ma, hélas!, ben più potenti, facciano il tifo per la dissoluzione dell’Unione europea, come è ben comprensibile, giacché un’Unione europea forte e coesa potrebbe costituire l’ago della bilancia nei loro conflitti, e magari rafforzare il ruolo della Cina, prima potenza manifatturiera, il cui rapido sviluppo in termini di automazione potrebbe portare ad un nuovo rivolgimento demografico ed economico (e io penso che, oggi, la prima e forse unica speranza dell’Africa possa essere vista proprio nella Cina, il cui governo non si limita a dire “aiutiamoli a casa loro”, ma lo fa, con massicci investimenti in cui gli interessi dell’Africa e quelli della Cina possono coincidere. Ma potrebbe anche trattarsi di una nuova forma di colonizzazione).

Ma, per tornare al partito democratico – la cui altrettanto imminente dissoluzione le proposte di Gianni Cuperlo sono intese ad evitare (così come Obama intendeva difendere l’Unione europea), sia illustrandone la possibile rifondazione, sia proponendo la costituzione di un fronte più ampio – bisogna dire che i conflitti e le scissioni che lo hanno attraversato sembrano aver avuto ragioni se possibile ancora meno nobili di quelle che minacciano l’esistenza dell’Unione europea: si è avuta spesso la sensazione che le motivazioni politiche e ideologiche abbiano in verità coperto puri scontri di interessi personali, che spesso hanno assunto l’aspetto di risse fra comari o, se la citazione non è troppo nobile, di baruffe chiozzotte. Vero: la sinistra è sempre stata perseguitata dalla malattia dello scissionismo, senza imparare nulla dalla storia, da come la scissione di Livorno del 1921 abbia favorito l’affermarsi del fascismo, da come la vera guerra combattuta in Spagna tra anarchici e comunisti abbia determinato la vittoria dell’esercito franchista. Vero: è più facile sbaruffare (e magari ammazzarsi) in famiglia che non con gli estranei, ma c’è da chiedersi perché questo è successo più di frequente nella sinistra che nelle altre formazioni politiche. Può darsi questo avvenga perché la sinistra è più degli altri vocata a costruire un futuro, e si sa quanto sia difficile mettersi d’accordo su un progetto anche soltanto per costruire una casa e quanto invece sia facile scontrarsi su dettagli come il colore di un muro. Proiettarsi nel futuro con visioni utopiche come quelle di Marx e Engels, o di Laforgue o di de Masi è, tutto sommato, abbastanza ovvio; mentre conciliare queste visioni con gli strumenti realisticamente utili per realizzarle, scandire i passaggi e le soste, valutare il peso delle alternative è maledettamente difficile e comporta naturali differenze di opinioni. Ma io temo che tali diversi modi di pensare siano spesso piuttosto pretesto che ragioni per realizzare personali ambizioni di leadership, quando non ne sono addirittura semplici strumenti: se non riesco a farmi eleggere – magari con l’assurdo strumento delle primarie, tanto lontane da quell’elaborato processo dialettico che sono le primarie americane – potrò almeno essere proclamato o autoproclamarmi capo-corrente. Intendiamoci: le ambizioni personali sono lecite e perfino doverose, un uomo politico privo di ambizioni non può neppure essere definito tale, ma, diversamente dall’alternativa proposta da Fromm, non può trattarsi di ambizione dell’avere e neppure dell’essere: deve trattarsi di ambizione del fare, anzi del fare per.

Bisognerà quindi concludere che la “ricerca del capo” non solo non può essere “il primo problema”, come ha ben colto Cuperlo, già pentito di aver corso alle primarie del 2013, ma anzi dovrebbe non esistere proprio né come problema né come prospettiva: il segretario dovrebbe essere un semplice responsabile della gestione organizzativa o, al più, colui che propone l’ordine del giorno, senza un vero potere deliberativo personale. Nell’attesa che una simile improbabile prospettiva possa prendere corpo, mi sentirei di immaginare una segreteria a tre (una troika!) composta dai tre personaggi che si sono maggiormente distinti per compostezza e competenza: Paolo Gentiloni, Carlo Calenda e lo stesso Gianni Cuperlo.

So bene di non avere alcun titolo per avanzare idee del genere, ma, nell’età della comunicazione, in cui tutti possono dire la propria, anche il messaggio affidato a una bottiglia gettata in mare potrebbe essere raccolto da qualcuno.

* Cuperlo, Gianni. In viaggio: La sinistra verso nuove terre. Donzelli Editore, Roma 2018. 

(pubblicato sul sito: www.cesare23.it)

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