[Cento anni fa nasceva Franco Fortini. Il brano che segue rielabora alcune pagine del saggio Franco Fortini. Un profilo militante, di prossima pubblicazione]
C’è nel secondo paragrafo di Sul concetto di storia (1940) di Walter Benjamin un noto passaggio che recita:
Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? […] Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto[1].
Il passato di cui si parla in questo brano non è un passato generico, indifferenziato. È il passato degli sconfitti dalla storia, di chi è stato ridotto al silenzio, la parte muta dell’umanità; quella parte a cui il futuro è stato sottratto, così rimanendo inespresso, possibilità negata ma non per questo condannata per sempre. Raccoglierne l’eco, decifrarne i segni (aperture, schegge, frammenti di un futuro diverso) nel presente è il compito del vero storico secondo Benjamin: compito che tende a spezzare il continuum stabilito dai vincitori, a cui si dà il nome di Progresso[2].
Qualcosa del genere, un mandato analogo hanno sentito a lungo come proprio non solo intellettuali e scrittori, ma molti ignoti «prima di noi»; e non si tratta semplicemente dell’“impegno” di cui si favoleggiò un tempo, né l’adesione ad una concezione fideistica e teleologica della storia, bensì qualcosa, eredità, sogno o promessa, vincolo etico non negoziabile e resistente, che nell’opera di Fortini è particolarmente incisivo e ovunque visibile, fin nella metrica dei versi (anzi proprio in questi risuonano, ad un ascolto più attento, le «voci mute»). All’epoca, la nostra, in cui i padri ingannano i figli[3], Fortini ha composto una poesia intitolata “E questo è il sonno…”, che chiude circolarmente il suo itinerario poetico[4], e mette al centro del discorso, senza perciò nominarlo, il tema dell’eredità.
«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente, quelle giovani carni! Era il ‘domani’, era dell’‘avvenire’ il disperato gesto… Al mio custode immaginario ancora osavo pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare di risvegliarmi nella santa viva selva. Nessun vendicatore sorgerà, l’ossa non parleranno e non fiorirà il deserto. Diritte le zampette in posa di pietà, manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi lo implorano ancora levando alla luna le griffe preumane. Sanno che ogni notte s’abbatte la civetta affaccendata e zitta. Tutta la creazione… Carcerate nei regni dei graniti, tradite a gemere fra argille e marne sperano in uno sgorgo le vene delle acque. Tutta la creazione… Ma voi che altro di più non volete se non sparire e disfarvi, fermatevi. Di bene un attimo ci fu. Una volta per sempre ci mosse. Non per l’onore degli antichi dèi, né per il nostro ma difendeteci. Tutto ormai è un urlo solo. Anche questo silenzio e il sonno prossimo. Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941. «Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci. Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava Klockov.
Rivolgo col bastone le foglie dei viali. Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. Proteggete le nostre verità. Un testo quanto mai teso e articolato, posto alla fine della penultima sezione di Composita solvantur[5], il suo libro estremo, dal quale mi limito qui a estrarre pochi versi di sapore testamentario, senza seguirne il complesso percorso[6]. Verso la conclusione della poesia Fortini scrive (il corsivo è del testo):
Di bene un attimo ci fu. Una volta per sempre ci mosse.
L’«attimo» come dimensione privilegiata e fondante dell’esperienza: è di lì che si dà ogni cominciamento, ed è quell’attimo verticale – arresto in cui irrompe l’elemento “messianico” di Benjamin – a stabilire la direzione ed il corso dell’esistenza: «… ci mosse.» I verbi al passato remoto dei versi ora citati, però, sono incastonati in un appello-allocuzione declinato al presente, e come in suo controcanto (iniziano con l’avversativa «Ma»). Infatti subito prima nel testo si legge:
Ma voi che altro di più non volete se non sparire e disfarvi, fermatevi.
E subito dopo:
Non per l’onore degli antichi dèi, né per il nostro ma difendeteci.
Si presti attenzione: il «noi» appartiene al passato, il «voi» al presente. Quel voi siamo noi, e appunto noi riguarda lo sparire e il disfarsi, oggi. La furia di dissolvimento evocata dai versi non è un puro dato biologico, né una ineluttabile deriva dell’Essere: piuttosto, è il non volere né immaginare altro destino che quello già scritto per noi da altri, dai padroni della storia, dimenticando il «bene» (parola in cui riecheggia ancora e nonostante tutto un elemento collettivo). Fermarsi, allora, vorrà dire – proviamo a leggere così – prestare ascolto («una volta per sempre») alle voci di cui parlava Benjamin, al futuro che non è stato e che talora è dato cogliere intorno a noi, nell’aria dove furono altri. Questo anche il senso del «difendeteci», in apparenza così dissonante in un autore per nulla indifeso come Fortini, anzi sempre e fino all’ultimo battagliero: per cui «Proteggete le nostre verità», l’ultimo verso della poesia, altrettanto straordinario nella sua orgogliosa umiltà, è un gesto da leggere in filigrana, sullo sfondo del lungo, zelante lavoro di cancellazione e manipolazione della memoria e delle coscienze svolto da chi ha scelto di far tacere ogni voce discorde, ogni segno di dissidenza, ed infine ogni verità (perché la verità è sempre di parte). Ma da dove, e da che tempo ci giunge il memento finale di Fortini, la sua richiesta di ascolto?
L’autore di “E questo è il sonno…” prende la parola da un tempo già fuori dalle coordinate del proprio vissuto, un tempo postumo. Il frastagliato palinsesto temporale del testo, con i suoi dolenti strati memoriali, i fiammanti brandelli di storia («Volokolàmskaja Chaussées, novembre 1941…»), le immagini bibliche (La lettera ai Romani) e quelle creaturali convocate per il congedo («i ghiri gentili dei boschi…»), include nel quadro figurale la stessa esistenza del poeta, i propri errori, speranze e illusioni, poesia compresa. Egli è già dall’altra parte, insieme a tutti [7] passaggio al futuro del testo – e che, tuttavia, c’è un Ma…; che non c’è un unico tempo. Forse per questo Fortini qui chiede, un’ultima volta, ascolto. Gli ultimi versi (prima del «Proteggete»), nella loro dimensione interamente prosaica e mondana, ritornano poi al presente, ad un tempo orizzontale, assorto e minuto:
Rivolgo col bastone le foglie dei viali. Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Nulla, qui, ci parla di redenzione, tanto meno di un disegno. Di attesa o di rivelazioni, nemmeno l’ombra: l’orizzonte appare tutto ristretto, confinato nel presente e soltanto segnato da tristezza, dispersione, scoramento (stasi abulica o interludio vuoto di senso: no future…) Un giorno qualunque. Un vecchio e due ragazzi[8]. Che cosa li muove? E infine, cosa lega quei due e il vecchio poeta? Niente, appena uno sguardo. Tra loro irrelati, distanti e inconsapevoli, potrebbero essere, semmai, la muta rappresentazione di una fine e di un principio. E allora chissà, qualcosa li lega: anche quei ragazzi sono stati attesi sulla terra, e stanno andando verso un misterioso appuntamento.
[1] W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 23.
[2] Della vastissima letteratura su questo tema tengo presente in primo luogo Mario Pezzella, La memoria del possibile, Milano, Jaca Book, 2009.
[3] Così Fortini nella Lettera all’assemblea “Per la libertà dell’informazione”, «il manifesto», 29 novembre 1994 (poi in Id., Saggi ed epigrammi, con uno scritto introduttivo di Rossana Rossanda, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1754). La Lettera fu pubblicata all’indomani della morte di Fortini ed è il suo ultimo scritto pubblico.
[4] L’incipit tra virgolette riprende infatti l’incipit dell’opera intera, la poesia inaugurale di Foglio di via (1946). [5] F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, pp. 62 – 63 (ora in F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di
- Lenzini, Milano, Mondadori, 2014, pp. 561-562).
[6] Si veda l’eccellente analisi di Felice Rappazzo, “E questo è il sonno…” Temi, montaggio, figuralità: http://www.ospiteingrato.unisi.it/e-questo-e-il-sonno-temi-montaggio-figuralita/. Vedi anche L.Lenzini, Da un seminario su Foglio di via, in L. Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini, Macerata, Quodlibet, 2013, pp.121-127.
[7] Nel suo commento a Benjamin Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi sul concetto di storia (Torino, Bollati Boringhieri, 2004) Michael Löwy, in margine alla seconda ‘tesi’, osserva: «Non c’è un messia inviato dal cielo: noi stessi siamo il messia, ogni generazione possiede un frammento del potere messianico che essa deve esercitare» (p. 46). Nello stesso commento si veda il richiamo a Crepuscolo (1934) di Max Horkheimer, pp. 45-46: «Se uno sta molto in basso, esposto a un’eternità di tormenti inflittigli dagli altri uomini, lo anima come un’aspirazione di salvezza l’idea che verrà qualcuno che sta nella luce, assicurandogli verità e giustizia. Non occorre nemmeno che ciò accada mentre egli è ancora in vita, e nemmeno mentre sono ancora in vita i suoi carnefici – ma un bel giorno, non importa quando, tutto dovrà essere sistemato… È amaro morire misconosciuti e nelle tenebre. Rischiarare queste tenebre è l’onore della ricerca storica» (M. Horkheimer, Crepuscolo. Appunti presi in Germania. 1926-1931, Torino, Einaudi, 1977, p. 138).
[8] Accenna a questo passaggio Andrea Zanzotto in Passione e acutezza, «L’immaginazione», 130, giugno 1996, p. 19.
(pubblicato da Le parole e le cose)
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