Ho lavorato tre anni all’Isel, l’Istituto di studi sull’economia del lavoro della Cisl, come assistente di Ezio Tarantelli. È lì che ho avuto la fortuna di conoscere e di apprezzare Pierre Carniti. Non avevo avuto modo di conoscerlo prima, nonostante gli studi universitari a Milano e le esperienze di “lavoro di fabbrica” (come allora si chiamava la militanza studentesca ai cancelli delle fabbriche) fra il 1969 e il 1973. Non l’avevo conosciuto nonostante in quegli anni egli rappresentasse, alla testa della Fim-Cisl, e assieme a Bruno Trentin, segretario della Fiom-Cgil, e Giorgio Benvenuto, a capo della Uilm, l’avanguardia politica e culturale del movimento sindacale italiano. Le mie frequentazioni operaie, compresse com’erano tra gli impegni di studio e di lavoro, non mi consentivano di vivere, se non indirettamente, attraverso le deformazioni che nutrivano l’informazione dei militanti studenteschi, gli aspetti fondamentali della sua azione di “sindacalista d’assalto”. Eppure era proprio a Milano che Carniti si era affermato come leader sindacale, lì dove aveva conquistato nel 1970 la guida della Fim, in una città più che vivace, dove il perenne laboratorio sociale si indirizzava decisamente verso la condizione operaia, a interpretare e valorizzare le occasioni di conflitto offerte da un tessuto industriale dinamico e denso di contraddizioni.
Le innovazioni che aveva imposto al suo sindacato e al modo di concepire il conflitto industriale erano tutte importanti e vincenti. Prima tra tutte la contrattazione articolata, che ribaltava la gerarchia sindacale e alimentava una nuova impostazione del conflitto dal basso, a partire dal disagio e dai bisogni percepiti dai lavoratori nel loro luogo di lavoro, nel tentativo di ridefinire una strategia di avanzamento dei diritti e delle condizioni materiali del lavoro basata sulla capacità di organizzazione prima ancora che sulle linee di azione stabilite centralmente. Inutile dire che questo genere di contrattazione aziendale era più diffusa allora di quanto non sia oggi, nonostante l’istituzionalizzazione offerta dal Protocollo di luglio ’93, le dichiarazioni di intenti di politici e rappresentanti delle parti sociali, così come le successive ondate di incentivazione pubblica.
La lettura che Carniti dava del cattolicesimo sociale, tanto personale quanto profondamente innestata su riferimenti culturali che spaziavano dal personalismo di Mounier e Maritain, a Simone Weil, al sindacalismo americano, lo spingeva in due direzioni fondamentali. Da un lato la continua ricerca dell’unità sindacale, concepita come valore principe, condizione imprescindibile per il successo nel conflitto industriale e il progresso nelle condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice, praticata senza alcun timore di travolgere equilibri politici consolidati, all’interno della sua confederazione e non solo. Ma il valore propulsivo e dirompente della sua visione dell’unità lo spingeva, dall’altro, a chiedere con fermezza che analoghe testimonianze di unità, libertà, ricerca di autonomia dalla politica e rifondazione dell’azione sindacale a partire dai luoghi di lavoro venissero perseguite anche da Fiom e Uilm. E la richiesta si focalizzava in particolare sulla cinghia di trasmissione che ancora teneva la maggioranza della Cgil avvinta alle direttive del partito comunista, come ben metterà in luce la vicenda del quasi accordo e poi decreto di San Valentino del 1984, che segnò certamente l’apice ma anche il punto di arresto della sua testimonianza innovatrice.
Il binomio unità-autonomia, forgiato alla luce della contrattazione articolata, offriva il tessuto ideologico e pragmatico su cui Carniti seppe costruire con Trentin e Benvenuto, all’apice dell’influenza sociale e politica dell’organizzazione dei metalmeccanici, l’esperienza intensa e ardente della FLM, la Federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici. La Federazione, nelle intenzioni dei fondatori e forse più di tutti di Carniti, doveva prefigurare nel panorama politico-sindacale italiano un’esperienza decisamente nuova: una sorta di embrione di pratica laburista, basata sul modello di una compiuta e vincente unità sindacale di categoria, da trasmettersi anche alle confederazioni, allo scopo di accompagnare in modo più deciso la trasformazione sociale dell’economia e del Paese. Ma una compiuta esperienza di unità sindacale invece non si realizzò mai, né a livello di categoria né tanto meno a livello confederale.
L’impegno sindacale di Carniti si concentrava su una quantità di temi fondamentali come la crescita salariale reale dopo il lungo periodo di compressione legato alla Ricostruzione e la lotta alle disuguaglianze retributive, la contrattazione sul luogo di lavoro del continuo miglioramento delle condizioni di lavoro e il superamento di forme di remunerazione anacronistiche come il cottimo, la conquista dell’inquadramento unico operai-impiegati e, in modo perentorio e quasi come una sua personale battaglia di lungo periodo, la riduzione del tempo di lavoro, in accordo con il principio “lavorare meno, lavorare tutti”. Una battaglia di civiltà contro una struttura sociale rigida, ossificata in un modello occupazionale in cui a lavorare sono in pochi e quei pochi lavorano con orari molto superiori a quelli dei paesi a reddito comparabile.
Oltre ai grandi temi dell’unità, dell’autonomia e della libertà, la bussola di Carniti era il coraggio – in particolare la forza morale di affrontare il futuro con l’obiettivo di piegarne il corso, per riuscire a modernizzare e a rendere più giusta la società. La sua visione richiedeva un profondo rinnovamento e potenziamento culturale nel modo di fare sindacato e di concepirne le finalità e l’azione. Di questa dimensione culturale della lotta sindacale il frutto forse più importante fu, anzitutto, la vittoria nella battaglia sulle 150 ore di permessi retribuiti per il diritto allo studio, che si affermò in un percorso complesso realizzato tra il 1969 e il 1973, consolidato anche grazie all’approvazione dello Statuto dei lavoratori. Quella vittoria rendeva chiaro che la crescita culturale dei lavoratori, vista come strumento per l’attuazione di una più piena e responsabile partecipazione alla vita del Paese, non era più questione che riguardasse soltanto l’istituzione scolastica, ma coinvolgeva l’intera Repubblica e, in particolare, il sistema delle relazioni industriali.
Il coraggio culturale della Cisl di Carniti era costruito anche attraverso il coinvolgimento attivo di studiosi di valore che l’avrebbero sostenuto nella lettura del futuro. Fra loro c’erano sociologi del lavoro quali Bruno Manghi, esperti di relazioni industriali come Guido Baglioni e Gianprimo Cella, economisti del lavoro come Luigi Frey e tanti, tanti altri. Ad essi la Cisl, sotto l’amorosa supervisione di Eraldo Crea, offriva ospitalità in centri di ricerca che dovevano sì lavorare per e con la Cisl, ma assicurandosi autonomamente sul mercato la sopravvivenza.
Tra gli studiosi che più influirono sulle coraggiose scelte di Carniti c’era anche Ezio Tarantelli, l’economista allievo di Federico Caffè, Joan Robinson e Franco Modigliani, esperto di economia del lavoro, econometria e relazioni industriali, che stava lasciando l’Ufficio Studi della Banca d’Italia per dedicarsi all’insegnamento universitario e al sindacato. Pierre ne aveva capito subito il valore e condiviso il progetto. Erano gli anni ’80; alimentata dagli shock di prezzo del petrolio e delle materie prime, l’inflazione mordeva ferocemente il potere d’acquisto delle persone a reddito fisso. La si poteva combattere con “la corda del boia” della stretta monetaria, al prezzo di chiudere i rubinetti del credito alle imprese, far fallire le aziende più fragili, lasciare disoccupate schiere di lavoratori, ricomporre l’esercito industriale di riserva e arrestare con l’assenza di lavoro e l’impoverimento la pressione sociale delle lotte operaie. Ma per Tarantelli l’inflazione andava combattuta in tutt’altro modo, fornendo un luogo di applicazione costruttiva all’enorme consenso sociale conquistato dal movimento sindacale nei decenni precedenti che ormai, anche se ancora informale, era divenuto a tutti gli effetti, potere di opinione e politico. Il sindacato doveva “entrare nella stanza dei bottoni”, prendere parte al coordinamento degli attori della politica economica (il Governo, la banca centrale, le rappresentanze datoriali) nel perseguimento di obiettivi e comportamenti di risanamento condivisi, secondo un modello di “partecipazione dall’alto” che interpretava in modo inedito (per l’Italia) gli articoli 46 e 3 della Costituzione. Doveva porre su quel tavolo la disponibilità a partecipare, con la moderazione delle richieste salariali, a una manovra di disinflazione perseguita congiuntamente dal Governo (su tariffe, prezzi amministrati e fisco), banca centrale (offerta di moneta), imprese (prezzi di beni e servizi).
Carniti sposò subito quel progetto, tanto vicino al suo, e propose invano a Lama e Benvenuto di costituire un centro di ricerca unitario per consentire a Tarantelli di portarlo avanti, nello spirito vincente della FLM, lo stesso spirito unitario con cui fino all’ultimo cercò di mantenere l’unità sindacale nella vicenda di San Valentino. Carniti comprendeva, appoggiava e proteggeva Tarantelli, non di rado dalla stessa Cisl, che guardava al giovane economista con malcelata apprensione.
Guardava con simpatia anche me, come faceva con tutti i giovani che sceglievano, spesso con notevoli sacrifici personali, di collaborare con il sindacato. Non ero iscritto alla Cisl, ma nonostante questo e la mia giovane età, mi consentiva di avere con lui un rapporto personale, di grande franchezza e libertà. Se lo cercavo mi riceveva subito, nell’ufficio al piano terra di via Po 21. Aveva l’ufficio cristianamente più in basso di tutti. Niente anticamera, niente paludamenti. Si parlava di tutto, ma specialmente delle prospettive del lavoro di Tarantelli, del “sindacato soggetto politico” che discuteva con il governo non solo di inflazione ma anche di politica industriale, fisco, sanità, pensioni, casa.
Nel 1985, poco dopo la tragica morte di Tarantelli e la netta vittoria al referendum sulla scala mobile, scelse di lasciare la guida della Cisl; per problemi di salute, ma forse anche perché non se la sentiva di impegnarsi personalmente nella ricostruzione di quell’unità sindacale alla cui costruzione aveva dedicato tanto impegno e che si era così brutalmente lacerata di fronte al rifiuto della componente comunista della Cgil di siglare il patto di San Valentino dando avvio alla stagione della concertazione.
La sua grande, nobile e coraggiosa eredità è stata molto difficile da coltivare, non solo dentro la Cisl. Oggi merita di essere posta alla base di una nuova stagione di rapporti sociali, in Italia e in Europa.
(pubblicato in eticaeconomia.it, giugno 2018)
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