Nessuno, mi pare, si è mai esplicitamente domandato come mai il Movimento5stelle (M5s), una volta formulato il proprio programma di governo, abbia proposto agli altri partiti presenti in Parlamento – a tutti gli altri partiti, escluso Forza Italia per le ben note riserve nei confronti di Silvio Berlusconi – di stipulare un “contratto”. Forse perché, devono aver pensato i commentatori politici, è solo una questione di parole, cioè sostanzialmente irrilevante. Ma, come titolava Carlo Levi, le parole sono pietre, che possono venire scagliate e fare del male.
“Contratto” è un termine giuridico di carattere privatistico: dal punto di vista etimologico esso significa ‘portare insieme’ (cum-trahere), cioè avvicinare fino a farli coincidere i diversi interessi di cui sono portatori due o più persone o enti. I contratti hanno prevalentemente carattere patrimoniale, riguardando cioè il trasferimento o l’utilizzo di beni valutabili in termini monetari: tali sono, esemplarmente, i contratti di vendita o di affitto di un immobile, ma anche di qualsiasi altro oggetto, come una macchina o uno strumento. Ma esistono anche contratti di collaborazione, in cui le parti si impegnano a realizzare un bene (o un progetto), del quale potranno poi godere o collettivamente o in rapporto alla prevista divisione del lavoro o del contributo monetario. I contratti hanno forza di legge e possono prevedere delle penali. Il “contratto” in questione sembra dunque avvicinarsi a quest’ultima tipologia, ma solo in misura molto parziale, come cercheremo di vedere.
Ma prima sarà forse utile considerare quali altri termini avrebbero potuto essere scelti per definire l’accordo proposto. Il primo dei quali poteva essere appunto “accordo”, parola che, etimologicamente, potrebbe significare qualcosa come “giungere allo stesso cuore” (ad-cordium) – le etimologie, anche quando sconosciute o non presenti alla mente di parlante e ascoltatore, hanno sempre un certa risonanza emotiva, suscitata dalle connotazioni presenti nel termine e nella sua storia. In effetti “accordo” viene raramente usato per definire un atto legale, mentre ricorre molto di frequente nel linguaggio parlato in espressioni come “mettiamoci d’accordo” o “siamo d’accordo”, né il venir meno a un accordo verbale può comportare altra penalità che non sia una perdita di credibilità; invece può entrare nella formulazione di una premessa contrattuale, del tipo “poiché si è raggiunto un accordo fra le parti, si stipula quanto segue”. Dalla stessa radice etimologica deriva anche il termine “concordato”, attualmente usato per lo più nel diritto fallimentare per indicare la possibilità di accedere a un compromesso finanziario fra debitore e creditore, ma che storicamente è stato rivestito di grande solennità fin dal Medioevo in quanto usato dalla Chiesa cattolica (e, a mia conoscenza, soltanto da essa) per regolare i rapporti con l’Impero e con altri stati. Grammaticalmente “concordato” è un participio sostantivato e, in quanto tale, designa qualcosa che è stato raggiunto o concluso, quasi conseguenza di un accordo, dove il prefisso ‘ad’ indicava un movimento e quindi un risultato verso cui si tendeva, mentre qui il prefisso ‘con’ designa un assieme, una convergenza che ha terminato il suo percorso: in fondo il significato denotato e connotato del termine “concordato” (che comunque può sempre essere usato nel suo originario valore aggettivale) non è troppo lontano da quello di “contratto”, non fosse per la solennità quasi religiosa assunta per essere stato impiegato dalla Chiesa: non per nulla lo si scrive con la maiuscola – Concordato.
Sarebbe troppo ovvio ricordare quanto questo termine richiami da vicino il valore moralmente positivo della concordia, mentre varrà la pena di sottolineare come il prefisso finisca quasi per prevalere sul radicale. Succede così anche in altri termini, alcuni dei quali particolarmente ricchi di storia (quasi quanto Concordato), in particolare se si ricorda la Convention Nationale che, tra il 1792 e il 1796 fondò la Repubblica francese. In questo caso si tratta evidentemente di una istituzione, non di un trattato, ma di una istituzione in cui ci si riunisce – si ‘viene insieme’ appunto – ma non tanto per trovare un accordo quanto per deliberare, in una sorta di concordia discors, spesso più auspicata che effettiva. E la stessa cosa si può dire delle Conventions dei partiti americani. Ciò non toglie che l’atto finale della riunione (convenzione) di individui o di enti possa essere definito “convenzione”, anche nel caso in cui esso non sia totalmente cogente per i convenuti, soprattutto allorché si tratti di Stati, come successo nella grande Convenzione di Vienna del 1969, che intendeva regolare proprio le forme e i contenuti dei trattati internazionali.
Forse sono andato troppo in là. Rimane il fatto che altri termini definiti dal prefisso ‘con’ potrebbero indicare una convergenza indotta da una visione comune o addirittura da una condivisa ideologia prima che da condivisi interessi, insomma da un comune sentire. Tra i quali si potrebbe citare “consenso”, termine per la verità poco usato, ma reso famoso dal così detto Washington Consensus, che consisteva, per uno di quei paradossi non insoliti allorché il linguaggio delle emozioni pretende di definire questioni politiche o economiche, in una serie di benevoli suggerimenti che le organizzazioni economiche internazionali (World Trade Organisation e International Monetary Fund) elargirono ai paesi in via di sviluppo per indurli ad abbracciare la politica economica del neoliberismo. Pure il “consenso” dovrebbe essere il termine adatto per descrivere un progetto di collaborazione in cui si crede profondamente e disinteressatamente.
I termini semanticamente vicini a contratto, ma non caratterizzati dal prefisso ‘con’ sono relativamente pochi, ma decisamente significativi. Il più importante è forse “trattato” che per la sua forma participiale può essere avvicinato a “concordato”, indicando anch’esso un risultato raggiunto in seguito a una discussione (o ‘trattativa’); similmente, anche “trattato” è riservato quasi esclusivamente ai rapporti e agli accordi di diritto internazionale, ma senza, ovviamente, comportare la presenza della Chiesa. Il più noto esempio di trattato è il North Atlantic Treaty Organization, in sigla NATO, che andrebbe tradotto come “trattato dell’organizzazione nord-atlantica”, ossia “trattato che istituisce l’organizzazione nord-atlantica”, ma che viene più sinteticamente definito “patto atlantico”.
“Patto” è forse la parola più forte per indicare per indicare un accordo, soprattutto di collaborazione. E questo nonostante essa ricorra con una certa frequenza nel conversare, magari in espressioni idiomatiche del tipo “a questo patto” o “facciamo un patto”, dove vale semplicemente come “mettiamoci d’accordo”. Va anzitutto precisato che “patto” deriva, come spiegano i vocabolari etimologici, dalla radice indoeuropea pak che indica ‘fissare’, ‘unire’ ‘saldare’ ed è la stessa radice di “pace”. In certo modo “patto” comporta o almeno si avvicina al concetto di ‘alleanza’, come precisato nell’espressione “patto di alleanza”, che si ritrova già nella Bibbia (Genesi, 17.7), là dove Dio promette ad Abramo di “stabilire fra me e te un patto di sempiterna alleanza” (“et statuam pactum meum inter me et te…foedere sempiterno”, nella Vulgata dei Settanta). In tempi moderni i patti di alleanza vengono conclusi fra stati sovrani e hanno, il più delle volte, carattere militare e finalità difensive: così il patto atlantico e il corrispondente patto di Varsavia. Fa eccezione il patto d’acciaio firmato nel maggio del 1939 da Italia e Germania, dove si prevedeva che un partner dovesse prestare un totale aiuto militare nel caso che l’altro fosse “impegnato in complicazioni belliche”, senza precisare che tali “complicazioni” dovessero avere carattere difensivo. Comunque sia di ciò, rimane che il concetto di ‘patto’, forse in ragione della sua presenza nella Bibbia, comporta una certa connotazione sacrale, confermata dal categorico enunciato latino “pacta sunt servanda”. Il patto è, insomma, un contratto solenne, dalle implicazioni prima morali che non economiche, ma, alla fin dei conti, pur sempre un contratto.
Ma, paulo minora canamus per almeno accennare alla forma che dovrebbe avere un contratto, ricordando anzitutto che, per avere conseguenze legali, esso dovrebbe essere stipulato alla presenza di un notaio o controfirmato da almeno due testimoni. Il riferimento più semplice (anche se non il più vicino alla fattispecie) può essere il contratto di acquisto di un immobile, che, di norma, consiste in un preliminare in cui vengono identificati i due contraenti, seguito da una serie di punti logicamente e\o cronologicamente successivi: la descrizione dell’immobile e del suo stato, il prezzo, le modalità e i tempi del pagamento e, infine, le modalità e i tempi del trasferimento del bene dal venditore (promittente) all’acquirente (promissario). Se mi si perdona la forzatura del confronto, vale la pena di notare come la stipula di cui parliamo rispetti in qualche misura le forme contrattuali nel preliminare, che identifica precisamente i contraenti, ma solo in quanto autenticazione delle firme. Così come le rispetta nel primo punto del vero e proprio contratto, titolato Il funzionamento del governo e dei gruppi parlamentari. Ci si sarebbe potuti aspettare che tale articolo descrivesse la composizione del governo, precisando i titoli e le funzioni dei vari ministeri, mentre in realtà esso definisce piuttosto l’impegno dei due contraenti a darsi reciproco sostegno, senza in alcun modo ledere gli interessi dell’uno o dell’altro, precisando altresì i limiti cronologici e operativi dell’accordo che, a questo punto, sembra configurarsi come un patto di alleanza, ma di un’alleanza parziale e a termine. Quasi come se Ciano e von Ribbentrop avessero profeticamente stabilito che il patto d’acciaio avrebbe dovuto sciogliersi nel 1945 e che, mentre nello scacchiere africano la Germania si considerava alleata dell’Italia, in quello russo avrebbe potuto esserlo con la Francia.
Con il punto 2 il contratto pretende di trasformarsi in un vero e proprio programma di governo, ma lo fa assumendo piuttosto le forme di un contratto d’appalto, il cui capitolato preveda soltanto l’elencazione dei lavori da eseguire, senza aver bisogno di definirne i tempi e le priorità, che sono invece essenziali in un ‘programma’, dove sono impliciti i concetti di svolgimento e di sviluppo, sia in ordine di importanza che di urgenza. Qui invece le cose da fare o, se si preferisce, gli ambiti di intervento sono elencati in ordine alfabetico, la loro relativa importanza essendo affidata alla quantità di spazio riservata a ciascuno, dalle poche righe dedicate al capitolo Sud alle tre pagine riservate invece a quello sullo Sport (tanto per citare due punti alfabeticamente contigui). Senza contare le più o meno clamorose assenze, perché si sa: non omnia possumus omnes. Così il “programma” (il “contratto”) tende fatalmente a trasformarsi in un più o meno dolorosamente faticoso elenco dei guai, delle imperfezioni e delle ingiustizie che affliggono l’Italia.
Pure, questo elenco riesce a recuperare la sua valenza e il suo significato di programma soprattutto, e ovviamente, perché sottintende che a tali guai, imperfezioni e ingiustizie sarà portato totale rimedio entro i cinque anni della prevista durata del governo; ma anche in forza del linguaggio o, se vogliamo esagerare, dello stile adottati. Che sono caratterizzati dal costante ritornare e ripetersi di espressioni, di formule, di parole o di modi grammaticali, il cui preciso significato operativo non è sempre facile identificare e distinguere. E di cui mi permetto di dare un breve elenco.
Poiché un programma di governo si configura da un lato come progetto, ma dall’altro anche come assunzione di responsabilità, è ovvio che ricorrano spesso espressioni denotanti tali concetti nelle loro varie sfumature, dal più solenne “ci impegniamo” al battagliero “sosteniamo” ai possibilisti “intendiamo” o “prevediamo” fino al più aperto “proponiamo”. E si noti il costante ricorso alla prima persona plurale, dove però non si tratta di un plurale maiestatis, né di una solenne estensione della persona individuale a quella collettiva, quale ricorre nel celeberrimo “noi, il popolo” della costituzione americana: si tratta proprio di due persone fisiche, dei due firmatari del contratto, sia pure in quanto rappresentanti di due forze politiche. E’ vero peraltro che questo “noi” viene talvolta sostituito da una forma impersonale (“si prevede”, “si deve prevedere”, fino a “l’impegno sarà quello”, che rende bruttamente colloquiale il più retoricamente pregnante “ci impegniamo”). Ma forse si tratta soltanto di un’esigenza di varietà stilistica. La forma impersonale diventa invece prevalente quando si tratta più propriamente di accennare alle cose da fare e\o dei provvedimenti da adottare, anche in questo caso con diverse sfumature, che vanno dai generici “occorre” e “bisogna” al più cogente “deve” ai futuri che implicano certezza, come “verrà” o che, al contrario, assumono valore condizionale, come “potrà”, se non addirittura una semplice manifestazione di interesse: “particolare attenzione sarà rivolta”. Ma, nei casi più estremi queste sfumature si trasformano nei colori decisi e primari dello spettro; non più rosa e celeste, ma rosso e blu, o, sarebbe meglio dire, giallo e verde (anche se il verde colore primario non lo è). Allora ciò che era opportuno diventa necessario, ciò che era possibile diventa indispensabile, ciò che era prevedibile diventa imprescindibile, essenziale, fondamentale. E prioritario. Quasi a recuperare quell’ordine sia cronologico sia logico che l’elencazione alfabetica aveva cancellato.
Ma quali sono i punti nei quali questi aggettivi vengono più frequentemente e quasi ossessivamente ripetuti? Sono sostanzialmente due: il punto 13.Immigrazione: rimpatri e stop al business; e il punto 20.Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta. Il punto 13 recita infatti “È imprescindibile scardinare il business degli scafisti: una seria ed efficace politica dei rimpatri risulta indifferibile e prioritaria”. Mentre al punto 20 si dice che “È inoltre fondamentale potenziare un imprescindibile istituto di democrazia diretta”, aggiungendo, in forma più moderata, “sosteniamo l’introduzione del referendum propositivo”, forse rendendosi conto che una democrazia diretta tenderebbe fatalmente a diventare una democrazia referendaria, certo resa ormai almeno tecnicamente possibile dai progressi dell’informatica. Sembra proprio che questi siano i due punti centrali del contratto, quelli su cui nessun compromesso è possibile, poiché qualificanti per l’uno o l’altro dei due contraenti.
Ora, se mi è possibile aggiungere qualche riflessione politica a queste considerazioni di ordine stilistico e linguistico, mi pare di poter affermare che, mentre Salvini ha costruito la fortuna della Lega sul tema del contrasto all’immigrazione, in termini bensì propagandistici, ma sulla base di un’ideologia sovranista che ha ribaltato quella autonomista e secessionista del partito di Bossi; il Movimento5stelle ha basato la sua campagna elettorale su temi fondamentalmente economico-sociali, come il reddito di cittadinanza, lasciando del tutto in sottordine la questione istituzionale della democrazia diretta, che costituisce invece il vero centro dell’ideologia proposta da Casaleggio e resa esemplare dalla gestione della piattaforma Rousseau (così chiamata probabilmente per riferirsi al motto caro al filosofo illuminista “chi delega abdica”). Così, l’ideologia cacciata dalla porta rientra dalla finestra, ma trasferendosi dal logico e quasi automatico discendere da principi assoluti di ordine morale, quali “libertà eguaglianza fratellanza” oppure “Dio patria e famiglia”, alle conseguenze di un interesse, che nell’un caso è di ordine economico, mentre nell’altro gestionale e istituzionale.
Per questo, e per tornare al primo detto, il nostro contratto avrebbe potuto più opportunamente essere definito “programma” o “patto” o “convenzione” o “accordo” o perfino “trattato”. Ma c’è forse una ragione, neppur tanto misteriosa, per cui il termine “contratto” è stato scelto. E mi pare sia questa: da una parte dil M5s aveva promesso ai si non stringere alleanze con altre forse politiche, e quindi si serve del termine “contratto” per non parlare di “patto di alleanza”; dall’altra, come detto in apertura, “contratto” è un termine relativo al diritto privato e, in fondo, i partiti politici sono associazioni private (e per questo non sono regolamentati per legge). Toccherà quindi a dei privati dirigere il governo del paese, anche e soprattutto perché si tratta di un governo del “cambiamento”. Non per nulla come nuovo premier è stato scelto un professore di diritto privato.
“Cambiare” e “cambiamento” sono del resto parole che forse da sempre tornano con grande frequenza sulla bocca dei dirigenti politici, non soltanto della Lega e del M5s, ma di tutti i partiti. Ai quali mi sento di ricordare un vecchio motto pubblicitario della Volkswagen (l’auto del popolo!), risalente ai tempi in cui ancora si produceva il mitico maggiolino: “Chi cambia per cambiare rende vecchio il modello di ieri”.
p.s.: di questo tema tratta oggi, 11 giugno, Gustavo Zagrebelsky in “la Repubblica”
(tratto dal sito: www.cesare23.it)
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