Qual è stato il percorso che ti ha portato a incontrare, alla fine degli anni ’60, il movimento non autoritario nella scuola?
Sono arrivata a Milano nel ’66 e sono entrata di ruolo in una scuola media di Melegnano due anni dopo. Quando da ragazza me ne sono andata dalla Romagna non mi muoveva un particolare impegno sociale e politico. Il mio sguardo e i miei interessi erano più al mondo “interno”, emotivo e psicologico. Quelli però non erano anni “normali”, la politica entrava prepotentemente nella vita delle persone e una coscienza viva non poteva rimanerne indifferente. È così che mi avvicinai, quasi naturalmente, a un gruppo di insegnanti che avevano incominciato a riflettere sul loro ruolo e a metterlo in discussione. Io stavo vivendo allora la mia prima esperienza di insegnamento e l’idea di mettermi dietro quella cattedra, di rivivere dall’altra parte un percorso che era stato sì un’occasione di grande liberazione rispetto alla mia origine contadina, ma allo stesso tempo un cammino interiore faticosissimo, mi mise profondamente in crisi. Tutti i problemi che mi ero portata dietro, a partire dalla condizione sociale e dall’appartenenza a un sesso che non era destinato allo studio, avevano lasciato una enorme zona di questioni non risolte, di problemi, di temi che non ero riuscita a tradurre nel mio percorso scolastico.
Incrociando questa assemblea di insegnanti che tentavano di abolire voti e bocciature pensai immediatamente che quella fosse la mia strada. Non mi pareva vero poter dimettere, nel momento stesso in cui lo assumevo, un ruolo di cui avevo conosciuto tutto il peso mortificante. Così come entusiasmante fu avviare un percorso che mi permetteva di far diventare “il tema” (la relazione, il corpo, le emozioni, la sessualità, la storia dei ragazzi, la loro condizione di classe…) quello che nelle mie esperienze scolastiche era stato, letteralmente, il “fuori tema”. Noi tentavamo di avviare dentro la scuola – e questa fu poi la grossa e forse insormontabile difficoltà del movimento – qualcosa che in realtà non era più scuola.
Sicuramente nella pratica non autoritaria molti di noi hanno creduto di poter rivivere, rovesciandola, una loro esperienza, per riscattarla. L’immedesimazione con i ragazzi era assicurata. Io stessa, che parallelamente alla nascita dell’Erba voglio partecipavo intensamente ai primi gruppi femministi, ci ho messo un po’ a portare nella scuola, in modo più diretto, la problematica uomo-donna, proprio perché l’identificazione con i ragazzi era fortissima. Io mi sentivo una leader di ragazzi. Mi sentivo come loro contro professoresse e madri. Nella scuola la mia identificazione andava al figlio, al bambino, alla figura dell’alunno: la sua ribellione era la mia. Noi facevamo una battaglia contro gli insegnanti, che per il 90% erano donne. L’immaginario ci spingeva a “liberare” il bambino dalle insegnanti-madri che, nella scuola classista di quegli anni, erano ovviamente molto conservatrici.
Come è nato il gruppo che ha dato vita alla rivista L’erba voglio e come è diventato uno dei punti di riferimento più importanti del movimento non autoritario nella scuola?
Si può dire che sia germinato dall’incontro fra il movimento non autoritario degli studenti e il movimento analogo degli insegnanti a cui in quegli anni anch’io partecipavo. Nell’inverno fra il ’68 e il ’69, gli studenti della Statale di Milano organizzarono un importante controcorso di pedagogia al quale era stato invitato Elvio Fachinelli, centrato appunto sulle pratiche educative libertarie. Il testo base era Summerhill di Alexander Neill, tradotto pochi mesi prima da un piccolo editore avventuroso. Le idee e le riflessioni scambiate in quell’occasione costituirono i presupposti teorici per la realizzazione dell’asilo autogestito di Porta Ticinese, un piccolo esperimento pedagogico messo in piedi da Elvio insieme ad alcuni degli studenti che parteciparono al corso, a un gruppo di operatori sociali e da alcune famiglie del quartiere.
È in quel periodo che conobbi Elvio (a cui dobbiamo il contributo maggiore all’unitarietà complessiva della nostra proposta teorica e politica) e il gruppo che si riuniva nel suo studio in via Ansperto per discutere degli ostacoli incontrati in quell’anno di lavoro con i bambini e per preparare un convegno che facesse dialogare alcune esperienze nate fuori dalla scuola con altre avviate dal movimento di insegnanti non autoritari nella scuola media e superiore. Il convegno si tenne fra il giugno e il settembre del ’70. Dai materiali con cui era stato preparato – discussioni di alunni, interviste, circolari e sanzioni disciplinari di Presidi – e dalle relazioni degli interventi nacque il libro L’erba voglio, fatto con una ventina di amici provenienti da tutti i gradi scolastici e curato da Elvio, Luisa Muraro e Giuseppe Sartori.
E come siete passati alla decisione di avviare una rivista che portasse lo stesso nome?
Il libro ebbe inaspettatamente una circolazione molto vasta: cinque edizioni in pochi mesi, trentamila copie vendute, discussioni che sorsero un po’ dappertutto. Avevamo avuto l’idea di inserire una cartolina nel libro chiedendo, a chi fosse interessato a proseguire il confronto su quelle tematiche, di rispedirla al mittente. La quantità di cartoline (più di tremila) e il materiale che ricevemmo fu sorprendente, così come inaspettata fu la molteplicità dei linguaggi, dei modi di agire, delle esperienze. A quel punto si poneva il problema di come continuare. Pensammo che una rivista fosse lo strumento migliore per dare continuità all’azione. L’erba voglio nacque nello stesso anno. Fra il ’71 e il ’77 uscirono, a cadenza bimestrale, 28 numeri. Avevamo amici abbonati in tutta Italia, la provincia più rappresentata era Canicattì.
Che obiettivi vi davate? Perché la scelta di sbilanciare sul pedagogico quello che, allora, gran parte del movimento tendeva già a riportare al politico?
In realtà l’elemento costante della rivista muoveva dalla domanda: cos’è l’agire politico? Che tipo di agire politico mette in atto una rivista? Ci consideravamo un “contrappunto di voci” che criticavano dai margini i luoghi angusti e asfittici della politica e dei saperi istituiti.
Cercavamo di educare i nostri lettori, per lo più insegnanti e operatori sociali, all’azione in prima persona, all’opposizione creativa. E in questa prospettiva, pedagogia e politica erano per noi strettamente collegate. Il movimento non autoritario ha avuto il suo luogo primo e più importante nella scuola, ma c’erano anche le esperienze delle comuni, dei gruppi alternativi alla famiglia, le contro-scuole e c’era il femminismo.
Inoltre sentivamo forte l’esigenza di contrastare la tendenza precocissima del movimento rivoluzionario a frantumarsi in gruppi settari molto simili, per gerarchia, centralismo e divisione dei ruoli, alla forma dei partiti tradizionali: proprio i presupposti contro cui il movimento era nato! Volevamo contrapporre un collegamento libero e autonomo tra i nostri lettori, tenere insieme linguaggi diversi, pratiche insolite, iniziative di liberazione dentro e fuori il mondo della scuola. L’educazione diventava il luogo da cui guardare la politica e la politica, attraverso l’educazione, recuperava temi fondamentali che aveva perso o rifiutato.
Leggendo oggi i racconti a più voci di quelle pratiche e di quegli esperimenti pedagogici si ha l’impressione che fossero in un certo senso battaglie perse in partenza. Una contraddizione di fondo, probabilmente insanabile, percorreva pratiche non autoritarie e un sistema-scuola che forse non poteva strutturalmente accogliere quelle sperimentazioni e quella idea di formazione.
Una delle incomprensioni che più ha accompagnato l’esperienza del movimento non autoritario e di molte sue filiazioni, riguardava la sua dimensione sperimentale. Noi tentavamo di capire, quasi fossimo in laboratorio, cosa succedeva eliminando dalla relazione fra insegnante e alunno strutture e strumenti repressivi e autoritari. Come sostenevamo allora, era una pratica distruttrice e liberatrice. Noi intendevamo distruggere i meccanismi di dipendenza con cui la scuola educa gli studenti alla passività e alla delega, ma al tempo stesso analizzare il più sinceramente possibile cosa succede in una classe o in un gruppo di bambini quando si rinuncia a usare voti, interrogazioni, note, bocciature, orari, programmi e tutti gli altri strumenti di contenimento. La profonda spinta libertaria non ci impediva di constatare come queste figure d’autorità rischiavano di fare da paravento a una serie di altri problemi che erano poi quelli di un’intera società.
Quando la figura dell’adulto si sottrae o fa un passo indietro, aveva osservato Fachinelli durante il lavoro all’asilo autogestito, quello che facilmente emerge è una precoce e violenta società di massa tra il fascista e mafioso. Ora quando noi scrivevamo queste cose, i difensori della scuola tradizionale prendevano le nostre osservazioni a difesa della loro ottusa idea di educazione: togliendo ordine, disciplina e autorità, dicevano, voi provocate questi comportamenti. La registrazione, anche attraverso i nostri fallimenti, di un dato per noi evidente e cioè che la società impone un imprinting precocissimo, autoritario, violento e competitivo a monte della formazione scolastica, attraverso le figure che si occupano dell’individuo quando non è ancora indipendente, veniva imputato alle nostre idee radicali e progressiste.
In realtà, ci eravamo limitati a constatare che a tre o quattro anni, i bambini arrivavano all’asilo già “formati”, con il corpo già rattrappito e coartato. Tendevano a rimettere in scena qualcosa che avevano già vissuto e l’insegnante a ripetere qualcosa che il bambino già si aspettava. Credevamo però che la scuola, messa da parte ogni pratica di irreggimentazione, addestramento e alienazione dalla vita reale, rappresentasse anche uno snodo eccezionale, la grande occasione per riaprire la partita. Non la ripetizione di una pantomima già vissuta, ma la possibilità di offrire nuove vie d’uscita, inediti percorsi di liberazione.
In realtà, l’originalità delle analisi più acute ospitate sull’Erba voglio sta nella lucidità con cui portarono alle estreme conseguenze i frutti degli esperimenti tentati dentro e fuori la scuola: “non vi è risposta alla crisi dell’autorità e al deterioramento dei rapporti, se non con un progetto di radicale sovversione”, arrivaste a sostenere alla fine dell’esperienza dell’asilo di Porta ticinese. “Non si tratta di modificare o migliorare delle situazioni precostituite, ma di rifiutarle e di inventarne delle altre… Fare scuola altrimenti significa anche: altrove, in altri momenti, con altri interlocutori.”
Certamente noi abbiamo vissuto un percorso di critica che, partito dalla formazione dell’individuo e dalle sue contraddizioni di fondo, arrivava per forza di cose a un cambiamento più generale, all’assetto delle città, della famiglia, delle relazioni… In questo eravamo abbastanza isolati. Con la baldanza e l’arroganza di allora, marcavamo i confini da quelli che si limitavano a chiedere una pedagogia alternativa, come l’Mce. Noi avevamo in mente il cambiamento di un’intera società, nell’Erba voglio scrivevamo spesso: non siamo la nuova scuola, non siamo la nuova pedagogia, non vogliamo una democratizzazione della scuola. Noi partivamo da lì solo perché pensavamo che il cambiamento della società presupponesse un cambiamento dell’individuo all’origine della sua formazione.
Forse è anche per via di questo “radicalismo” che di gran parte del nostro lavoro non è rimasto poi molto. Mentre il femminismo, seppur faticosamente e in forme molto diverse, una qualche continuità, rispetto a quegli anni, l’ha saputa creare lasciando un’eredità fatta anche di testi, documenti, analisi, resoconti che permettono di ricostruire e mantenere il filo con le pratiche e i discorsi che si facevano allora, il movimento non autoritario trasversale alla scuola rappresenta una pagina lontana e per lo più dimenticata. Questa grande stagione che ha interrogato l’educazione a un livello così profondo, collegandolo a un discorso più generale sulla società e sull’uomo, non è germinata. Questo ha fatto sì che tutti i temi fondamentali che si tentò allora di recuperare negli spazi e nelle riflessioni educative e formative oggi si trovano disseminati, spalmati dovunque, manipolati ad uso e consumo della pubblicità, della televisione, della comunicazione. Le tematiche del corpo, della sessualità, delle emozioni, dell’immaginario viaggiano oggi intorno a noi in una deriva continua, una fiumana di detriti che porta con sé un po’ di tutto. Con il risultato che il confine tra individuo e società, si è spostato a tal punto da creare una permeabilità e un assorbimento quasi totale: l’effetto è una “normazione”, dei corpi e delle coscienze, pesantissima. A partire dalla nascita – o ancora prima, in quell’osservatorio permanente e continuo che sono le visite prenatali – il bambino è imprigionato dentro un bozzolo informativo-deformativo.
Qual era invece la specificità politica della rivista?
Noi tentavamo di tradurre e di portare avanti le tensioni, le idee e le domande più radicali e intransigenti di cui il movimento si faceva portatore. Gli anni immediatamente successivi al ‘68 avevano presto mostrato tutti i limiti di una politica “mutilata” di alcune delle componenti più importanti della vita individuale e collettiva: i sogni, l’immaginario, il rimosso, il corpo, la vecchiaia, il femminile. È di questa materia che la rivista si nutriva, che tentava di organizzare e di restituire alla politica.
Era un’idea di politica “radicale” nel senso che, come poi abbiamo scritto spesso sull’Erba voglio, andava alla radice dell’umano. La radice dell’umano è prima di tutto la formazione dell’individuo, a partire dai primi anni di vita. Ma il rapporto che secondo noi legava l’educazione alla politica – sebbene credo che questa consapevolezza abbia raggiunto una parte tutto sommato minoritaria dell’area che faceva riferimento alla rivista – non era strumentale. Non si trattava di educare il bambino affinché realizzasse in futuro l’idea di società libera che noi “rivoluzionari” avevamo finalmente intuito. Era il bambino stesso – come ebbe a scrivere Fachinelli commentando sui Quaderni piacentini un bellissimo testo di Benjamin – a indicare la “vera” rivoluzione.
Un’apertura culturale, un’interpretazione del rapporto tra individuo e società, tra infanzia e storia, che secondo noi sovvertiva molti luoghi comuni, compresi quelli che portavano avanti le istanze della sinistra extraparlamentare.
Ma è anche per le stesse ragioni, io credo, che nelle attuali ricostruzioni storiche di quegli anni il movimento non autoritario viene relegato in una marginalità quasi assoluta rispetto a quella che è stata la vicenda, anche tragica, della lotta armata o del proletariato giovanile. Nella storiografia del movimento, femminismo e Erba voglio sono stati sistematicamente dimenticati.
E oggi, il nostro immaginario mutato produce ancora sogni capaci di generare cambiamento? Per quel che riguarda nello specifico i giovani, lamentarsi di una incomunicabilità di fondo è una lagna colpevole di chi non ha strumenti per comunicare con loro o è intervenuto qualcosa che ha apparentemente trasformato l’immaginario delle nuove generazioni in una statua di sale?
Il prevalere del discorso tecnico scientifico è innegabile. Ma in realtà se si osservano attentamente i mutamenti e se si analizzano in profondità i discorsi che intorno ai mutamenti si fanno, ci si accorge che sono impregnati di immaginario antico. Sarebbe un errore pensare che la società tecnologicamente avanzata distrugga ogni traccia di sogni e di fantasie. Le tecnologie applicate alla nascita ad esempio, nel loro a volte perverso sogno di manipolazione, sono oggi uno svelamento impressionante di un immaginario arcaico, con quanto di positivo e di negativo questo comporta.
Anche per quel che riguarda i giovani, credo che il loro immaginario, nella sua matrice di fondo, non sia cambiato. Fa parte di quelle invarianti che si modificano molto lentamente.
Ci sono alcuni aspetti dell’immaginario, soprattutto quelli legati al corpo, alla sessualità, ai sentimenti, che non sono sostanzialmente cambiati. Quello su cui forse un educatore dovrebbe lavorare sono gli arcaismi intramontabili. Senza farsi prendere dall’idea che tutto è cambiato, che “la macchina” ha mutato o bloccato ogni possibile evoluzione. Ci sono delle modulazioni arcaiche. Il corpo in fondo, che è la nostra “presa a terra”, ha una temporalità e dei ritmi molto più lenti di quelli manipolabili dall’uomo. Il tempo vicino ai mutamenti del corpo, quello che Fachinelli chiamava “il tempo tartaruga”, parla un linguaggio e trattiene degli elementi che poi vanno a interferire col tempo “veloce” della storia. È l’intersezione tra questi che va interrogata.
La centralità che le vostre analisi pedagogiche e politiche davano allora al “personale”, al corpo, alle emozioni possono aver in qualche modo contribuito a dissodare il terreno all’attuale insinuante cultura “terapeutica”? Non credi che oggi ci sia, in sostanza, il rischio opposto? Che il personale – che poi personale non è quanto piuttosto omologazione – costringa in secondo piano le necessità del collettivo, del politico, del comunitario?
Io non escludo che le nostre analisi abbiano avuto un’influenza sul cambiamento dei costumi, della cultura e della mentalità. È vero che davamo tanto spazio alla vita personale, ma era un narrare di sé che avveniva in una pratica collettiva. L’obiettivo rimaneva quello di “sprivatizzare”. Per noi la valorizzazione dell’individuo e della sua storia, che finalmente veniva assunto nella cultura e nella politica non come sedimento o come scarto, passava proprio attraverso la pratica collettiva. Nel raccontarsi, lo sguardo lucido dell’altro permetteva di scrostarsi dai sedimenti di una visione statica del mondo. Era un processo di autonomia dai modelli acquisiti attraverso questo ascolto intenso profondo e partecipe. Quello che nel femminismo chiamammo “modificazione di sé, modificazione del mondo”. Noi pensavamo che tutto il lavoro su di sé, sul mondo interiorizzato, si potesse aprire poi a una disponibilità di energie, di intelligenze creative volte al cambiamento della società. Non erano ricerche contrapposte.
È vero però – e questo forse non è stato sufficientemente sottolineato dal mondo femminista – che quando si va a scavare così in profondità nelle vite, come abbiamo fatto con la pratica dell’inconscio, si finisce per entrare in una zona magmatica, un imbuto profondo dal quale è più difficile riafferrare il contesto sociale in cui ci si muove. Sono necessari molto tempo e molte energie. Per molte donne, “modificazione di sé e del mondo” ha voluto dire che del mondo, per molto tempo, non se ne sono più occupate.
E del femminismo, che si ispirava alle stesse logiche non autoritarie da cui nasceva il movimento pedagogico e che per te ha significato anche la fine dell’esperienza dell’Erba voglio, l’avventura di Lapis, una rivista con una redazione tutta femminile, il lavoro con l’Università delle donne… cosa è rimasto?
Io ho tentato di dar seguito alla pratica degli anni ’70. Resto ancorata a quegli anni non per nostalgia di un vissuto, ma perché le questioni e gli interrogativi inaugurati allora dalle donne, credo abbiano ancora tanto da dire al presente. Le problematiche del corpo – sessualità, aborto, maternità, famiglia – su cui si era avviata allora la nostra anomala pratica politica, oggi vanno in scena quotidianamente e su queste intervengono tutti i poteri forti: la giustizia, la medicina, la chiesa, per non parlare della pubblicità e della comunicazione. Oggi i temi su cui saltano con molta evidenza le nostre usurate categorie, su cui va in crisi la politica e su cui cadono i governi sono i temi inaugurati in quegli anni. (E smettiamola di chiamarle questioni “eticamente sensibili”: la guerra non è un tema eticamente sensibile?!) Anche la sinistra che sarebbe chiamata a una rappresentazione del mondo diversa, non è riuscita a far tesoro di questa storia.
Ma perché oggi è così assente una voce femminile autorevole? Delle donne se ne parla tanto, c’è come un desiderio di parole “sulle” donne, soprattutto di controllo. Però a parte te e pochi altri esempi, sono poche le donne che provano a fare tesoro di questa matrice che si pensava avrebbe cambiato i rapporti fra le forze di lavoro, le forme delle città e dell’educazione.
Io vedo due impedimenti, uno per così dire esterno e uno interno al movimento delle donne. Da un lato c’è stato una cultura di sinistra, compresa quella degli anni ’70 che ha pagato le conseguenze del femminismo: Lotta continua si scioglie perché le donne del gruppo, a Rimini, nel ’76, aprono un grosso conflitto interno. Molti dei nostri compagni di allora hanno più subito, che non fatta propria, la problematica proveniente dal femminismo, anche nel privato. Oggi molti di loro hanno semplicemente ricucito la ferita. Nelle loro vite private hanno proprio chiuso questa partita.
E all’interno del movimento?
Alla fine degli anni ’70, la parte del femminismo che ha avuto il seguito maggiore è quella riconducibile al “pensiero della differenza” e, in Italia, alla Libreria delle donne di Milano. Dopo la pratica dell’inconscio che aveva iniziato a sondare un “profondo” anche molto difficile da riafferrare e soprattutto da ricollegare alla vita pubblica, loro hanno offerto una rassicurazione: basta con i gruppi di autocoscienza che rischiano di diventare una tela di Penelope, basta col corpo e la sessualità, bisogna lavorare sul simbolico. Questo spostamento compiuto sull’ordine del simbolico – oggi lo sappiamo meglio perché in mezzo ci sono stati etnicicmo e differenzialismo – era un’idea fondamentalista. Prima di tutto perché comportava un principio d’autorità (fino ad allora c’era stato un ordine simbolico patriarcale a cui loro contrapponevano quello materno) e poi perché era un pensiero che invece di vedere i nessi poneva dei confini.
Mentre il femminismo dell’autocoscienza imputava al dualismo sessuale la stessa logica che aveva separato corpo e pensiero, natura e cultura, il pensiero della differenza poneva invece il problema di un femminile la cui diversità storica deve essere rivendicata. La ricontrattazione sociale a cui si giunge in questo modo ha due assi, di tipo quasi “etnico”. L’etnicismo in fondo come si manifesta? Ognuno scrive la sua storia, ricostruisce la sua memoria, la sua genealogia, i suoi simboli.
Quella del pensiero della differenza fu una vera a propria ideologia politica: le donne sono già, di per sé, portatrici di una visione diversa del mondo. Quello che è stato storicamente il femminile segnato negativamente, dicevano, noi lo recuperiamo con un segno “più”. La “pedagogia della differenza” ha compromesso il primo femminismo perché ha rimpalcato la rappresentazione femminile tradizionale dandogli una valorizzazione. Consideravano le donne come portatrici di valore nelle loro doti storiche. Ad esempio, il fatto che esse siano sempre state rappresentate “in relazione” (madre di, moglie di…) e per questo depositarie assolute delle professioni di cura, assistenza e educazione, fa di loro, in quest’ottica, le detentrici della grande dote relazionale. Ma la relazione è anche stato l’ostacolo principale alla libertà e alla creatività femminile. Le donne sono anche morte (e non solo in senso metaforico) nell’attenzione esclusiva alla relazione!
Cosa vuol dire valorizzare le loro doti relazionali se non confinarle ancora una volta in quei ruoli?
Nella differenza non ti incroci più. Questo ha prodotto la fine del conflitto vero e fertile, fra maschile e femminile, che solo può produrre il cambiamento di una relazione che si è costruita all’origine della specie e che lascia il peso dei suoi segni su di noi.
(Pubblicato da vivalascuola, maggio 28, 2018)
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