Essere seri senza essere noiosi. Lo spirito dei Piacentini nel libro di Giuseppe Muraca di Diego Giachetti

 

Prima della stagione dei movimenti c’è stata la stagione delle riviste eterodosse nate e cresciute negli anni Cinquanta e Sessanta. Palestre di ricerca e addestramento per una generazione di intellettuali e militanti, insofferenti al paludato conservatorismo culturale dominante e allo spirito nazional popolare della sinistra tradizionale di allora. Giuseppe Muraca, appassionato “minatore”, sempre pronto a scavare per riscoprire quelle riviste, costitutive del pensiero di quella che si chiamò nuova sinistra, nel libro, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa (Verona, Ombre corte, 2018), espone il “caso” dei Quaderni Piacentini, i cui fascicoli oggi sono facilmente consultabili perché la Biblioteca Gino Bianco di Forlì ha pubblicato online la collezione completa. L’autore interseca la storia della rivista con gli spunti biografici di tre suoi animatori: Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, cogliendone le relazioni personali intercorse fra loro e gli altri collaboratori. Emerge così uno spaccato umano e affettivo, che ci conduce dentro la redazione e l’anima dei redattori coi loro propositi, entusiasmi, delusioni.

A partire dai “Piacentini”

Un lungo capitolo è dedicato ai Quaderni Piacentini, rivista nata per riaffermare l’indipendenza della cultura e dell’intellettuale dai meccanismi omologanti della società mercantile neocapitalista e dalla linea politica dei partiti, riprendendo l’intento di Elio Vittorini che si rifiutò di suonare il “piffero della rivoluzione” per il partito comunista. Lo fecero con un tono vivace e allegro che mantenne fede all’intento dichiarato nell’articolo di presentazione del primo numero della rivista: «essere seri senza essere noiosi. Con allegria». Era il 1962, Franco Fortini aveva supportato l’iniziativa editoriale con una lettera agli amici di Piacenza, poi raccolta nel suo libro L’ospite ingrato, nella quale scriveva che il marxismo non era affatto superato, ma bisognava riconoscere che lo sviluppo della cultura borghese rendeva ormai obsolete le categorie d’analisi di un certo marxismo italiano basato sullo storicismo e sulla unilaterale lettura storicistica dell’opera gramsciana. Questo modo di essere marxisti era stato incapace di confrontarsi e di integrare i nuovi saperi “borghesi” come la sociologia, l’antropologia, la psicanalisi e la linguistica strutturale. Contro la massificazione dei contenuti culturali, operata dall’apparato dominante e dai mass media, di fronte all’incapacità della sinistra tradizionale di reagire, Fortini avanzava una proposta «assolutamente romantica», basata sulla volontà di piccoli gruppi che decidevano da soli «di essere soli».

Iniziava così la “romantica” battaglia culturale dei “Piacentini” contro le idee dominanti e contro la cultura dei partiti di sinistra. Le matrici culturali e politiche di riferimento riprendevano alcuni tratti dell’azionismo, dei gruppi socialisti autonomi e indipendenti, contrari allo stalinismo e alla socialdemocrazia saragattiana, del gruppo di Unità Popolare di Parri, Codignola, Calamandrei, fino a riviste che negli anni Cinquanta avevano cercato di stimolare la cultura marxista italiana bloccata nel suo sviluppo dalla pressione congiunta dello zdanovismo e dello storicismo crociano. Erano dei marxisti un po’ particolari, terzaforzisti, radicali, anticlericali e antistalinisti, capaci di stimolare l’analisi e la ricerca anche attraverso l’invettiva polemica, il piacere della frase dissacratoria, il gusto di andare controcorrente, di far inorridire i benpensanti e la sinistra ben educata e conformista. Elementi questi rintracciabili in tre rubriche: “Cronaca italiana”, “Il franco tiratore” e “Libri da leggere e da non leggere”. Un linguaggio tagliente, asciutto, intercalato da frequenti battute ironiche e sarcastiche che ricordava il lessico gobettiano. Una buona rivista uscita al momento giusto della storia: 4.000 copie vendute che divennero 13.000 nel 1968 con oltre quattromila abbonati. Rivista indipendente, collaborazione gratuita, progressione accademica o giornalistica non favorita, se mai ostacolata dalle pubblicazioni sui “Piacentini”.

Rivista della nuova sinistra, come opportunamente segnala Giuseppe Muraca, non della sinistra extraparlamentare, indipendente, distaccata e critica anche verso le nuove formazioni politiche che andavano costituendosi dopo il ’68. Per questo fu tacciata di essere il “grillo parlante” della nuova sinistra da parte dei gruppi extraparlamentari, i cui esponenti però continuavano a frequentarla riconoscendone il valore costitutivo per la formazione di una nuova cultura politica. Tanto l’entusiasmo, le speranze di cambiamento parevano a portata di mano, per questo il risultato elettorale del 1976 rappresentò per quell’area politica una grande delusione. Il ’68 era finito, ma non la crisi della società italiana. Federico Stame sulle pagine della rivista scrisse della morte della prima Repubblica, dovuta all’introduzione nel sistema politico e istituzionale di elementi di autoritarismo senza che la sinistra storica fosse in grado di apporsi, anzi con la complicità esplicita del PCI.

Dopo i “Piacentini”

Nell’aprile del 1980 usciva l’ultimo fascicolo della prima serie della rivista. Solo un anno dopo compariva il primo numero della nuova serie stampato dall’editore Franco Angeli. Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi conoscevano le difficoltà che pesavano sul rilancio della rivista, in un contesto politico e sociale nuovo, diverso, dove prevaleva il disorientamento degli intellettuali provenienti dalla nuova sinistra. I “Piacentini” chiusero definitivamente nel 1985, ma la storia di Muraca non finisce qui, prosegue sulle tracce di cosa hanno fatto nei decenni seguenti i tre redattori originari della rivista. Così Piergiorgio Bellocchio viene raccontato quale produttore di una nuova iniziativa editoriale: Diario; una rivista impolitica che ha come obiettivo la critica alla civiltà postmoderna e che segnala la solitudine politica degli oppositori ad essa, l’amara impotenza dell’intellettuale, la crisi d’identità dovuta alla delusione politica e morale, ma anche la caparbietà manifesta nel non voler scendere a compromessi col potere, per cui non resta che mettersi Dalla parte del torto, secondo il titolo del suo libro pubblicato nel 1989.

Grazia Cherchi è raccontata attraverso l’analisi della sua produzione narrativa, iniziata col romanzo Basta poco per sentirsi sola del 1986. La forma romanzo è usata anche per cogliere ciò che lo storico o il sociologo non sempre afferrano col loro racconto analitico e “freddo”: i sentimenti e le passioni di un decennio ormai lontano e irripetibile, quando sul tram sentivi ragazzini parlare di assemblee e politica, cortei e ciclostili, di ideali collettivi mossi da un protagonismo di massa, evento abbastanza raro nella storia del nostro paese. Tutto è stato spazzato via con l’affermazione di una società integrata e omologata, consumistica, edonistica, rimane solo la rivoluzione portata avanti dalle donne.

Il vizio del “fare rivista” ha condotto Goffredo Fofi alla pubblicazione di una delle riviste più rappresentative degli anni Ottanta, Linea d’ombra, e poi al trimestrale Lo Straniero che, fin dal titolo, esprimere l’estraneità all’odierno contesto politico-culturale. Tra gli intellettuali della vecchia-nuova sinistra, osserva Muraca, Fofi è stato quello che ha rivisto severamente quell’esperienza, denunciandone i limiti, gli errori, le illusioni, senza rinunciare però a una prospettiva utopica di cambiamento, per la quale occorre approntare nuovi strumenti di analisi, per non rimanere prigionieri del rimpianto del passato e uscire dal lutto delle sconfitte subite. Nel suo romanzo, Le nozze coi fichi secchi, del 1999, emerge l’avversione per l’Italia di oggi, che non ama, così come non ha amato aspetti del suo passato. La differenza con quel tempo sta nel fatto che oggi sono rimasti pochissimi quelli che si impegnano per modificare, per cambiare e quei pochi sono isolati e denigrati da chi detiene il potere. Ma lo spirito dei “Piacentini” impone ancora a Fofi di essere un “bastian contrario”, un “borbottone”, che trova da ridire su tutto e tutti, avulso dalla cultura accademica, lontano dagli intrighi di potere e dalle corporazioni degli intellettuali post-moderni.

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