Esce nelle librerie, per le edizioni ombre corte, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa, di Giuseppe Muraca. Ne anticipiamo qui un estratto. Bellocchio ha fondato e diretto le riviste «Quaderni piacentini» (1962-1984) e «Diario» (1985-1993), e ha pubblicato vari libri, tra cui Dalla parte del torto (1989), L’astuzia delle passioni (1995) e Al di sotto della mischia (2007).
Quando alla fine degli anni ottanta Piergiorgio Bellocchio ha pubblicato Dalla parte del torto (Einaudi, Torino 1989) per molti è stata una sorpresa, una rivelazione: ad esempio, tra i giovani lettori del libro quanti conoscevano la singolare esperienza politico-culturale dei «Quaderni piacentini», la rivista che lui insieme a Grazia Cherchi aveva fondato nel 1962 e che era diventata nel giro di pochi anni il principale punto di riferimento della nuova sinistra italiana? Nel ’66 Bellocchio aveva sì pubblicato il volume di racconti I piacevoli servi, però quello era rimasto per più di vent’anni il suo unico libro, e chi lo conosceva e lo aveva frequentato si era abituato a questa lunga pausa.
Se ciò a prima vista può destare meraviglia in realtà si giustifica col fatto che lo scrittore di Piacenza ha ben poco del tipico intellettuale alla moda, delle vedettes della cultura che fanno a gomitate per farsi notare e affollano le giurie dei premi letterari, le redazioni radiotelevisive, dei giornali e delle case editrici. In fin dei conti ancora oggi lui ama considerarsi un dilettante, un «testimone secondario» (secondo una calzante definizione di Cesare Cases che ha fatto sua), e non per semplice vezzo bensì per un desiderio congenito di tenersi lontano dalle risse e dal blà blà, di lavorare ai margini o fuori dai grandi circuiti culturali. Però dopo Dalla parte del torto ed Eventualmente (Rizzoli, Milano 1993) egli ha avvertito sempre di più l’esigenza di «mettere un po’ di ordine tra le proprie cose», si è sentito quasi in dovere di «fornire al lettore» i suoi «precedenti» di scrittore e saggista1, e di archiviarli. È nato così L’astuzia delle passioni, pubblicato dopo rinvii e incertezze di vario genere; una sorta di «diario in pubblico» che raccoglie i testi più significativi scritti e pubblicati dal 1962 al 1983, cioè nel corso di un ventennio cruciale della nostra storia repubblicana. Non a caso il libro si presta a rappresentare in maniera esemplare non solo il percorso intellettuale, lo sviluppo del pensiero del suo autore ma anche la parabola di una generazione di intellettuali militanti che ha cercato di rinnovare radicalmente la cultura italiana e la politica della sinistra tradizionale e che ha vissuto con profonda partecipazione e con grande passione etica e politica contraddizioni, ideali, valori ed eventi collettivi di grande rilevanza: la genesi e lo sviluppo della nuova sinistra, il ’68 e l’autunno caldo, le speranze rivoluzionarie, gli orrori del terrorismo, il fallimento della nuova sinistra e le cocenti delusioni che sono seguite.
Bellocchio ha raggruppato gli articoli in due parti. Nella prima è stata inclusa gran parte dei testi usciti sui «Quaderni piacentini» ed è intitolata Il franco tiratore, in omaggio ad una delle rubriche più originali e più lette pubblicata sulla rivista, con poche interruzioni, fino al 1968. Si tratta in gran parte di note di critica sociale, culturale e di costume, di recensioni letterarie e cinematografiche, di velenose stroncature, di corsivi, scritti con la massima libertà e in uno stile sferzante e tagliente, sarcastico e corrosivo, e animati da un forte spirito polemico e di denuncia, da un’inconsueta intransigenza morale e politica, dove si prendono di mira i miti e i valori dominanti, l’inadeguatezza della morale conformista e di un cattolicesimo bigotto, l’edonismo della società del benessere con la sua logica produttivistica e consumistica, i vizi, l’incoerenza e il malcostume di una certa intellighenzjia (specialmente di sinistra) integrata nel sistema e asservita all’industria culturale, il moderatismo e i mostri sacri della «sinistra rispettosa».
Sin dall’inizio l’attività polemica di Bellocchio è animata da una profonda tensione morale e da un’esigenza di radicale rinnovamento ideale e politico. Ecco, ad esempio, che cosa afferma in uno dei primi scritti:
Guardiamoci intorno e non vedremo che gente che vive e ragiona solo in termini di lavoro e ferie: produrre col massimo profitto per poterci permettere un tempo libero più rilassante e privo di pensieri il quale ci rimetterà in forma onde riprendere il lavoro col massimo profitto […]. Questa civiltà non può che essere «razzista», il razzismo le è connaturato e indispensabile. La sempre più vasta ed efficace assistenza che daremo ai malati, ai vecchi, ai pazzi, ai deformi, ai moribondi non è affatto antitetica allo sterminio sistematico usato dai nazisti, è solo un metodo di eliminazione meno brutale e più ipocrita che ci permette di espellere dolcemente dalla nostra vita tutto ciò che disturba la nostra produttività e il nostro relax, tutto ciò che è difforme, eccezionale, problematico, difficile, inquietante. Costruiremo sempre più ospedali, cliniche psichiatriche, gerontocomi, istituti di rieducazione, e sempre maggiore sarà il numero di coloro che vi confineremo. Senza bisogno di usare violenza: noi stessi ci andremo spontaneamente quando sarà il caso. Segregheremo prontamente, uccideremo quella parte di noi che nuocerà alla nostra produttività e al nostro relax. E la nostra vita diventerà sempre più comoda e ottusa e «felice»: la clinica ci regalerà la pillola adatta per ogni minimo caso di dolore fisico e psichico, la psicanalisi le formule in cui catalogare ogni nostro pensiero, avremo libri da leggere scritti da macchine elettroniche e altre macchine elettroniche ci forniranno le chiavi per capirli. Moriremo in aereo senza accorgercene oppure nel letto di una clinica (senza che ce ne accorgessimo saranno morti i nostri genitori, i nostri amici), soli (perché la produttività e il relax dei nostri figli, dei nostri amici ne sarebbero disturbati), così ben imbottiti di morfina da non accorgerci di nulla né che siamo soli né che stiamo morendo. Né che la nostra vita è stata uccisa ben prima della sua morte fisica. Il rispetto della vita altrui comincia da quello che abbiamo per la nostra2.
Si tratta di uno dei testi più singolari e tipici della produzione di Bellocchio in cui viene denunciata la logica del sistema capitalistico, il modus vivendi della società opulenta, mediante uno stile crudo e intriso di risentimento e amarezza. In questi corsivi vengono infatti affrontati, in maniera inusuale e anticonformista, temi e problematiche (parecchie delle quali ancora attuali) di grande importanza che non godevano però di molta attenzione e considerazione da parte della stampa di regime e della sinistra «ufficiale». Così si passa da Il suicidio di Marylin (Monroe) al già citato Il caso Vandeput: la morale in crisi, da Postille al caso Ward-Profumo a Baruffe di servi (sul Premio Viareggio), che provocò il risentimento e la vivace reazione di Moravia e Pasolini, da Una morte postuma (sulla fine de «Il Mondo» di Pannunzio) a La licenza di uccidere ecc.
È questo il primo periodo dell’attività di Bellocchio (e del gruppo dei «Quaderni piacentini»), la fase dell’incubazione della nuova sinistra, di maggiore incisività, problematicità e apertura, con una critica a volte illuminante e anticipatrice. Però con l’esplosione dei movimenti di massa della fine degli anni sessanta la ricerca di Bellocchio risente, a mio avviso, di quel clima politico-culturale che si è andato via via affermando nel corso delle lotte studentesche e operaie: il campo di intervento in un certo senso si restringe e le questioni, le idee, le opere e gli avvenimenti vengono affrontati e interpretati in chiave prettamente ideologica, mentre la «cultura» viene posta al servizio dell’azione politica, anche se, a ben guardare, il discorso di Bellocchio (come della maggior parte dei collaboratori della rivista) si differenzia sostanzialmente da quel contesto generale, conservando una sua singolare autonomia, una forte indipendenza.
Infatti, se da una parte egli continua a non risparmiare frecciate e critiche alla sinistra ufficiale dall’altro lato non manca di prendere le distanze dall’estremismo ideologico, dal settarismo e dal dogmatismo delle frange meno irriducibili della contestazione e dei gruppi extraparlamentari. E per quest’ultimo aspetto sono da vedere il corsivo I rischi inutili e i veri compiti, dove si denuncia il pericolo che «giocare alla rivoluzione» diventi di moda, il gusto della violenza per la violenza e la ricerca dello scontro inutile con la polizia, e l’articolo Santità e competenza, dedicato alla singolare figura del dottor Bethune, in cui viene criticata aspramente l’ideologia del primato della politica, del suicidio dell’intellettuale tipico del «maoismo» e del «guevarismo caricaturali correnti per cui gli unici compiti rivoluzionari sarebbero predicare e operare»3.
È comunque la fase più datata dell’attività intellettuale di Bellocchio, sebbene non manchino anche qui articoli abbastanza singolari, come, ad esempio, L’ultima speranza, Omaggio a «Quindici», che stronca senza mezzi termini e con sarcasmo l’ultima impresa culturale dei rappresentanti del gruppo ’63, il pezzo abbastanza singolare su Aldo Braibanti, un insegnante che nel 1968 è stato condannato a nove anni di carcere perché omosessuale, panteista e anarchico, o, ancora, L’autobiografia di un proletario (su Sante Notarnicola) del 1973. Intanto Bellocchio aveva da poco iniziato a collaborare con l’editore Garzanti, mentre andava pubblicando sulla rivista piacentina alcuni dei testi più compatti e complessi della sua intera attività di saggista, che non a caso segnano, con i primi segnali di crisi dei movimenti di massa, un ritorno agli interessi letterari e cinematografici: Boll e il romanzo, L’itinerario poetico di Raboni, A proposito di Barry Lyndon (il film di Stanley Kubrick, uno dei registi più amati: si ricordi che sul Dottor Stranamore aveva scritto nel ’64 la sua prima importante recensione) e infine Riflessioni ad alta voce su terrorismo e potere, che, per ironia della sorte, apre l’ultimo numero della prima serie dei «Quaderni piacentini».
In quest’ultimo saggio, che rappresenta il massimo sforzo di riflessione etica e politica compiuta fino a quel momento dallo scrittore di Piacenza, viene effettuato un esame severo e inclemente del decennio appena trascorso, dei vizi, dell’ottusità e degli errori della sinistra vecchia e nuova, mentre vengono denunciate la corruzione, l’inamovibilità, l’irresponsabilità e l’impunità della classe dirigente e posto in risalto il distacco dei cittadini dal potere politico e dalle istituzioni della Repubblica. Contro l’accusa di essere all’origine di tutti i mali Bellocchio difende il grande valore politico e ideale del ’68 e afferma che il terrorismo può essere sconfitto non con l’autoritarismo e il regime poliziesco bensì rimuovendo le vere cause del fenomeno: la degradazione politica e sociale, la disoccupazione, l’emarginazione, l’isolamento ecc. Insomma nel saggio si fa una radiografia impietosa dello stato dell’Italia, minata da un malessere profondo e insanabile, e in quelle parole si avverte una profonda amarezza per la sconfitta e il fallimento di una fondamentale e irripetibile esperienza politica, morale e culturale (la nuova sinistra, il ’68) che aveva coinvolto e impegnato un’intera generazione, il senso della fine di un’epoca e di una profonda crisi dei valori. Non a caso questo saggio conclude il primo periodo dell’attività intellettuale di Bellocchio e contemporaneamente anticipa idee, opinioni e sentimenti che saranno espressi e sviluppati nella fase successiva.
La seconda sezione del libro s’intitola L’offesa superflua (dal testo omonimo che prende spunto dai Minima Moralia di Adorno) e comprende i testi dei primi anni ottanta, pubblicati in vari periodici. Dopo la conclusione dell’esperienza della prima serie dei «Quaderni piacentini» Bellocchio inizia nel 1980 a collaborare a «Panorama», un po’ per «ragioni alimentari» e un po’ «incuriosito e tentato da un pubblico diverso, più vasto e indifferenziato», però, come avverte lui stesso, «presto mi fu chiara la totale inutilità della mia collaborazione. Qualunque cosa tu scriva, perde il suo originale significato per confondersi nel contesto. In teoria lo sapevo già, ora ne avevo la materiale, sensibile conferma»4.
Note
1. | ↩ | Bellocchio, Prefazione a L’astuzia delle passioni, cit., p. vii. Il titolo del libro nasce da una sorta di personale rovesciamento della hegeliana «astuzia della ragione». |
2. | ↩ | Bellocchio, Il caso Vandeput, cit., pp. 10-11. |
3. | ↩ | Ivi, pp. 75-76. |
4. | ↩ | Bellocchio, Prefazione a L’astuzia delle passioni, cit., pp. xii-xiii. |
*Giuseppe Muraca, docente di lettere e saggista. Ha fondato e diretto la rivista L’utopia concreta e ha fatto parte della direzione delle riviste InOltre e Per il ’68 e della redazione del giornale Ora locale. Ha pubblicato vari libri, tra cui Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea (Rubbettino, 2000) e Luciano Bianciardi, uno scrittore fuori dal coro (Centro di Documentazione di Pistoia, 2011). Ha collaborato e collabora a numerosi giornali e riviste, tra cui il manifesto, Lotta continua, Il Grandevetro e Dalla parte del torto.
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