Scavando nel suo archivio, la storica Silvia Casilio ha scoperto carte inedite, non utilizzate per la stesura del suo libro Una generazione d’emergenza (Le Monnier 2013). La mania conservatrice, confessa nell’introduzione l’autrice, ha salvato questi frammenti di ’68 che si presentano nella forma apparentemente disordinata di ritagli di articoli di giornali, riviste, pagine di un libro, frasi di un volantino, verbali. Da quegli “avanzi” ha ricavato il materiale che propone nel libro Corri compagno, il vecchio mondo ti sta dietro. Cronache del ’68 (Unicopli, 2018), raggruppati in due capitoli: “La rivolta” e “1968-1969: un nuovo biennio rosso”.
Senza bisogno di grandi interpolazioni interpretative, i documenti parlano da sé, danno l’idea dello spirito del tempo, essendo nella maggioranza prodotti in quel periodo. È sorprendente constatare come per molti commentatori del tempo la contestazione studentesca, che investì le università nel biennio 1967-68, fosse riferita al più generale conflitto generazionale maturato negli anni Sessanta. Tanti infatti erano i riferimenti alla condizione al disagio della nuova generazione che si esprimeva nell’adozione di nuovi stili di vita, di un nuovo costume nel vestire e nel portare i capelli, nell’identificazione con la musica beat e i loro protagonisti.
Nelle parole dei commentatori, la protesta studentesca era considerata la prosecuzione di un disagio giovanile precedente, non un evento improvviso e inatteso. Gli stessi termini, studenti e giovani, sono usati alternativamente come sinonimi. I giovani, si leggeva su «L’Espresso» dell’11 febbraio 1968, «si sono trovati alle soglie di un mondo modellato sulla guerra fredda e il loro rifiuto è stato netto. Rifiuto dell’ipocrisia, della repressione, della guerra capitalista. Non credo che la migliore delle riforme universitarie potrebbe incanalare e calmare questi movimenti». Carlo Casalegno, sulla rivista «Panorama», del 31 ottobre 1968, scriveva che «sotto le chiome lunghe si nascondevano idee calde e propositi di ribellione» ad indicare che si stava passando dai capelli lunghi ai pugni chiusi, che stava emergendo un ceto politico nuovo, «un gruppo di agitatori quasi professionali, dediti a un’attività frenetica, con idee, energia per affermarle e visione strategica» («L’Espresso», 18 febbraio 1968). E non era un fenomeno solo italiano, in un altro ritaglio, salvato dall’autrice, si legge della nascita spontanea di un’internazionale di giovani ventenni europei. Americani, asiatici.
La protesta investiva il modo di fare ricerca presso l’accademia universitaria. Una ricerca, scriveva Guido Viale, sulla rivista «Quaderni Piacentini» del febbraio 1968, che «ricerca sé stessa e le facoltà diventano una torre d’avorio completamente isolata dalla problematica culturale e politica del resto del mondo». Penetrava nel “chiuso” mondo cattolico rompendo il guscio del monopolio monolitico della Democrazia Cristiana; si diffondeva tra i giovani operai di linea e i tecnici dell’automazione, i proletari del Sud. Nelle fabbriche, annotava Eugenio Scalfari, circolavano parole nuove: assemblee di fabbrica, delegati di reparto («L’Espresso», 15 giugno 1969).
Mantenere l’ordine e spegnere sul nascere la protesta, queste le direttive impartite ai Prefetti, alla polizia e ai carabinieri. In una circolare ai Prefetti, il Ministro degli interni Paolo Emilio Taviani scriveva: «Non appena si ha notizia di un’occupazione il Prefetto deve subito prendere l’iniziativa e procedere all’impedimento dell’occupazione o allo sgombero». Cosa che puntualmente avveniva e le pagine dei giornali dell’epoca erano piene di cronache di interventi di carabinieri e agenti di polizia nelle aule universitarie occupate, cui seguivano sgomberi, denunce, arresti di studenti trascinati in questura e sottoposti a prolungati interrogatori, in barba alla Costituzione che diventava «carta straccia per il poliziotto con il manganello alzato, per chi gli ha impartito l’ordine di alzarlo» («L’Astrolabio», 5 maggio 1968). L’origine delle proteste e del malcontento? Secondo una relazione del Prefetto di Napoli, riportata nel libro, era da individuarsi in «pseudo studenti delegati dai partiti estremistici a mantenere in ebollizione gli ambienti accademici».
Il libro è un contributo “divertente” e utile per addentrarsi nel “mito” del ’68, coglierlo nei suoi aspetti reali e quotidiani, misurane la portata e la pregnanza sociale, lasciando la parola ai “fatti”, ai protagonisti diretti e indiretti, colti sul momento, non cinquant’anni dopo. È un invito a una storiografia fattuale, scevra da interpretazioni deduttive del “vero”, a vantaggio di una costruzione del “vero” attraverso la documentazione.
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