- Il vento è sempre annunciato dalla brezza
“Tu cosa facevi, quando è scoppiato il ’68?”
Questa è la domanda che, quando il clamore dei conflitti si era placato ma non era ancora avvolto nella nebbia di ciò che è considerato ormai trascorso o, ancora dopo, non era addirittura giunto alla negazione della sua esistenza, ci si scambiava tra “reduci”.
Scoppiato, il ’68? Come, “scoppiato”? Non era mica una vescica in suppurazione! Anzi…
Anzi, gli anni che hanno preceduto il 68 sono stati esiti di una lunga gestazione che li ha lentamente preparati.
Certo, contribuirono ad essa i film americani, la musica, che scatenava i ragazzi contraddicendo le buone maniere insegnate dai loro genitori, il chewing-gum e i jeans. Ma non è di queste “infiltrazioni dall’esterno” che voglio parlare.
Perché le avvisaglie di quel conflitto generazionale noto come “il sessantotto” hanno avuto precedenti che la vita di ogni famiglia dell’epoca ha potuto riscontrare nella sua vita quotidiana, in quella che veniva considerata, nell’etica ancora contadina e fortemente cattolica o sentitamente comunista dell’epoca, la matrice dell’educazione e la fonte della morale dei figli.
Non parlo degli elettrodomestici e della televisione, che cominciavano ad allargare gli spazi di visuale delle famiglie, ma di più forti cambiamenti nella visione del mondo, in cui tutti erano immersi senza ancora comprenderne la portata.
Alcuni spunti li ricavo dai miei ricordi, così da invitare chi fosse stato al mondo nei primi anni ‘60 a ritrovare anche i suoi.
- Sintomi del ‘68
I principi ferrei su cui si reggeva la società rievocavano in parte ancora quelli di fine ‘800: la netta divisione delle età con le rispettive responsabilità e il corrispondente diritto o meno di parola, l’etica del lavoro come promozione personale e sociale, ma anche come valore religioso, la sobrietà dei costumi, incrinata però dai citati segnali di cambiamento. La parrocchia aveva ancora un ruolo formativo per molti bambini. Le sedi dell’azione cattolica erano diffuse dappertutto.
Mi capitò per caso di farne parte, a dodici anni, proveniente da Fano nella città di Bergamo e accolto da questa con un “Napoletani!” che rispecchiava il fastidio locale per l’ondata di immigrazione dal sud Italia. Tra le iniziative cui un neofita della pre-FUCI doveva dedicarsi era compresa la “San Vincenzo”. Con un cartoccio contenente qualche genere alimentare, io bambino timido dovevo bussare alla porta di vecchie persone, entrare in bugigattoli fetidi e stretti e intrattenere per una mezzora persone il cui dialetto mi era totalmente estraneo.
Non ero obbligato, data la mia età, a partecipare agli incontri e alle conferenze di formazione teologica. Accompagnato dei miei fratelli un poco più grandi, finii però per andarci. Non capivo nulla di quello che veniva detto, ma pian piano cominciai a conoscere e intuire figure come Teilhard de Chardin, i “nuovi teologi” come Congar, Chenu, Danielou, De Lubac, Balducci e Turoldo, persone che aprivano alla mia mente spazi nuovi e intensamente umani. La cultura non si formava nella mia testa solo grazie alla scuola pubblica, ma anche attraverso forme inedite. Il pacchetto ai poveri, le lezioni scolastiche e le profondità del pensiero si mescolavano insieme e rendevano conto l’una dell’altra, trovando coerenza nel pensiero e forza nell’aspirare a ciò che è giusto.
Poi c’erano da riempire di articoli i giornalini studenteschi. A dodici anni fui spedito in non so più quale valle bergamasca con un registratore Geloso, a far domande sui problemi del lavoro a operai di una fabbrica disposti a parlarne con dei ragazzini. Mi trovai immerso in un mondo sconosciuto e incomprensibile. Leggevo ai miei ospiti le domande che avevamo preparato, loro rispondevano a lungo, in un dialetto indecifrabile, intercalando sigle sindacali, sconosciuti nomi di fabbriche e di sindacalisti, problemi di contributi, di cottimo, di contratti… L’impressione che ricavai da quella esperienza fu di una lontananza abissale tra me, quegli ambienti e quelle persone.
E un giorno mi chiamò, ma avevo ormai quindici anni, il preside dell’ITIS che frequentavo, perché voleva che pubblicassi un suo messaggio, da trasmettere nella forma di un’intervista. Non era più accettabile, sosteneva, che un geometra si diplomasse senza aver mai neppure messo mano alla costruzione di un muro. In altre parole: come poteva, un neo diplomato, dirigere i lavori di un cantiere solo con cognizioni astratte, senza avere un’idea del lavoro dei suoi collaboratori?
E, quando di anni ne avevo diciassette ed ero all’ultimo anno d’Istituto, il professore di Italiano e Storia, di cui si sussurrava a mezza bocca che fosse socialista, invitò, ma solo chi di noi avesse liberamente accettato, ad una lezione da tenersi senza formalità in un bar. Ci andai, con la giacca e la cravatta come ancora si usava, e lui ci chiese se eravamo disposti ad una lezione dialogata su un pezzo di storia non compresa nei libri di testo, quella del fascismo. Non ero abituato a quella vicinanza con un professore, a quell’essere ugualmente clienti seduti ad uno stesso tavolo di un bar a bere qualcosa, mentre lui parlava, con la difficoltà del tentar di mantenere su un piano puramente storico una lezione relativa ad un’epoca censurata dai libri di scuola.
- Il ‘68 è ormai alle porte
Si sarebbe detto che trovavo nell’Azione cattolica quella libertà di pensiero che la scuola mi negava.
Quando arrivai a Milano e iniziai nel ’65 a frequentare il Politecnico, imperversava il bullismo sia degli insegnanti che della Goliardia. Ma ambedue cominciavano ad essere percepiti come insopportabili: le festicciole cui diverse “matricole” accettavano di partecipare come vittime erano da molti ritenute disgustose, e la “difesa delle matricole”, cui io matricola partecipai rischiando con e senza l’appoggio di “fagioli”, “colonne” o “anziani”, cominciava a farsi modesto spazio per iniziativa soprattutto degli studenti cattolici.
In quel momento gli studenti vivevano sollecitati dalla valanga ideale del Concilio Vaticano II e della guerra del Vietnam la cui percezione emotiva non era distante da quella del “terzomondismo”, che iniziava ad avvicinare mondi e Paesi allora considerati lontanissimi, visto che lontani e stranieri erano considerati anche quelli alle soglie dell’Italia, come la Francia, la Spagna e la Iugoslavia di Tito. E da tempo circolavano tra i giovani i libri e le opere di Don Milani e gli scritti di don Primo Mazzolari, pregni di antifascismo e di rivolta nei confronti delle gerarchie.
Non era possibile per un giovane, intellettuale o di animo generoso, sottrarsi a un inedito senso di colpa generato dal conflitto tra il benessere in crescita e la miseria cui altri venivano soggetti, e la domanda sui motivi di questo scarto. Se sia il benessere che il terzomondismo erano ambedue cose buone, come mai una provocava l’altra, e la seconda era senza speranza di riscatto?
Una generazione nuova non può che attribuire queste contraddizioni a quella che l’ha preceduta. Fu così che molti ragazzi confluirono dalle fila cattoliche in gruppi “di contestazione”, e che dilagarono nei quartieri di periferia per “fare lotta politica”, insieme, come aveva suggerito in precedenza il Concilio, ad altri “uomini di buona volontà”, cioè i giovani marxisti provenienti da altre esperienze.
A Milano, nel 1965, quando ero appena arrivato, non conoscevo nessuno che avesse la mia età. Così, avevo cercato la FUCI. Anche lì, però, non era facile fare amicizie. L’assistente se ne accorse. Mi prese per un braccio e mi portò nella sala dove si tenevano le prove del coro, cui fui ammesso dopo una prova che superai con la voce strozzata in gola. Così, iniziai a partecipare a quel mondo. Le assemblee periodiche, in cui si discutevano programmi, articoli da redigere, posizioni da prendere su fatti politici o di altra natura, cominciavano ad essere riempite da giovani che avevano militato in Gioventù Studentesca, movimento fondato da don Giussani nel ’54, e che intendevano portarvi la propria modalità di intendere la “testimonianza cattolica”, diversa dalla visione laica della Federazione.
Nel 1966 il cardinale Colombo aveva stabilito che i vertici di GS fossero i vicepresidenti di Azione Cattolica, e che i ragazzi avviati in GS proseguissero la loro formazione nella FUCI. Così, vinsero e occuparono tutti gli spazi, esautorando i fucini tradizionali.
Nel febbraio 1966 GS aveva denunciato gli autori dell’inchiesta pubblicata da “La zanzara“, giornale studentesco del Liceo Parini di Milano, intitolata “Che cosa pensano le ragazze d’oggi“, un dibattito sulla condizione femminile e sulla posizione della donna nella nostra società, condotta criticando la famiglia tradizionale e la morale sessuale in termini forti per quell’epoca. GS aveva ribattuto all’articolo con un volantino firmato “Pariniani Cattolici“, che pur accusando “la gravità dell’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune“, era intitolato Protestiamo! Valori fondamentali della nostra tradizione sono la libertà e la democrazia.
Mi trovai calato in questo cambiamento senza averne chiarezza. Continuai così a frequentare la FUCI, partecipai ai “raggi” e diedi ripetizioni gratuite ai ragazzi della periferia (la “bassa” milanese).
Andai “in comunità” a Sambiase, in Calabria, dove c’erano ancora famiglie che vivevano in palafitte con gli animali. Si era trovato con noi un ragazzo marxista. Un giorno, scandalizzato dalla mancanza di acqua per i poveri abitanti dell’area, che erano costretti a pagarla togliendo quel poco dalle proprie tasche, andò furibondo dal sindaco. I responsabili della comunità lo cacciarono. Mi sembrò una cosa inaccettabile.
Intanto cominciavano le occupazioni delle facoltà universitarie.
- Il ’68 è arrivato
Il 17 novembre 1967 si manifestò il Sessantotto italiano con un’occupazione all’Università Cattolica milanese, a cui parteciparono anche molti aderenti di GS, Azione Cattolica, FUCI. Molti di loro passarono in breve a Lotta Continua e al Movimento Studentesco di Mario Capanna. La crisi che il Sessantotto accese in tutto il mondo cattolico cambiò profondamente la fisionomia di tutte le aggregazioni della Chiesa in Italia.
Ricordo che, quell’anno, improvvisamente tutto tacque, il tempo si fermò in un silenzio assoluto. La goliardia scomparve. Le assemblee nella FUCI, gli incontri di teologia ecc. non si tennero più. Restammo tutti in attesa senza capire di che cosa.
Fu lanciato il Movimento quartieri. Gli studenti uscivano dalle facoltà e dalle scuole e si riversavano nelle periferie operaie. Questo rimescolamento verticale delle “classi” di marxiana memoria, ancora rinnovate nella ideologizzazione dell’operaismo, aveva fondamento, per quanto mi riguarda e forse non solo per me, anche in quei pomeriggi tristi della consegna dei cartocci alle famiglie povere di Bergamo.
La conseguenza, in quegli anni, fu la divaricazione delle militanze cattoliche. Molti s’impegnarono definitivamente nei gruppi politici, mentre altri, visti da quelli prima di malocchio e poi rigettati definitivamente, proseguirono sulla strada dei “valori”.
Con un mio fratello, nel 1969, decisi di formare un gruppo di quartiere. Chiamammo a parteciparvi, sull’onda del Concilio, anche quel ragazzo marxista che avevamo conosciuto a Sambiase. Scegliemmo un quartiere, la Trecca, molto vicino all’Ortomercato, in cui intere famiglie abitavano le “case minime”, costruite negli anni ’30 in via Zama, in parte occupate dalla “mala”, in parte da immigrati dal Sud, chiamate minime perché intere famiglie di quattro o cinque persone venivano stipate in due stanze. Dopo un po’, quel ragazzo scelse la facoltà di sociologia di Trento e ci lasciò.
In quell’anno anche ingegneria decise, dopo inutili tentativi di dialogo con il rettorato, di occupare la facoltà.
Nella facoltà d’ingegneria il voto politico non attecchì granché. Ebbe più favore in quella di Architettura, ma sospetto che le ragioni del suo maggior successo non furono tanto le richieste degli studenti, quanto i progetti del Preside di Facoltà Portoghesi, che riteneva necessario separare per bene gli studi di Architettura da quelli di Ingegneria Civile che stavano, grazie all’informatica, per sovrapporsi. Degradare alcune competenze da riservare agli ingegneri e spingere quelle più tipiche degli Architetti è forse stato il vero motore di quello che banalmente si descrive come il desiderio di non studiare dei giovani politecnici.
Il Movimento quartieri ebbe vita breve. Gli ex giessini di Milano, ora “fucini”, durante la dispersione dei ragazzi nelle formazioni di sinistra, avevano costituito dei “Gruppi di comunione” per mantenere in vita un riferimento per i credenti sparpagliati qua e là. Finché nacque Comunione e Liberazione, fervida di vitalità e di iniziative tutte orientate all’idea di comunità cristiana.
Chiusa, dopo un anno e mezzo, l’attività nella Trecca, ripresi a far parte del movimento di CL, che ancora costituiva la FUCI milanese. Rispetto alla sensibilità diffusa tra i giovani dell’epoca, che intendeva valorizzare i più deboli, in CL la parità espressa nei momenti di riflessione comune, sia di genere che di estrazione sociale, non trovava corrispondenza a mio avviso nell’ambito decisionale, che appariva lontano e concentrato in poche mani. Quando posi questo problema, che mi sembrava contraddire l’idea di comunità, poiché alla fine chi era meno “attrezzato” spesso era destinato a restare muto, a un esponente del vertice, egli mi rispose che “non ero abbastanza dentro”. Così, decisi di uscire da CL, e con me vennero alcuni ragazzi e l’assistente della FUCI milanese.
Insieme ad altri, costituimmo a Città Studi un gruppo ispirato al Concilio e disponibile alla visione ideale e liturgica più ampia. Ci riunivamo in una casa a due piani il cui affitto era irrisorio, così che il nostro gruppo fu noto come quello della villetta, o semplicemente “la Villetta”. Si unirono a noi credenti e non credenti e divenimmo una realtà significativa in quell’area. La messa, che era celebrata la domenica nella “chiesa verde” di piazza Leonardo da Vinci, era aperta a tutti, compresi i ciellini, che però continuarono a celebrare la loro, ed era seguita da un pranzo semplice con la gente del quartiere. Dopo qualche mese, il cardinale Colombo volle istituire pastorali della famiglia, del lavoro e anche dell’università. Partecipai al primo incontro di quest’ultima, che però terminò subito per l’assenza non motivata dei ciellini. La volta successiva non vennero ancora, e neppure la terza. Stanco di essere preso in giro, dissi al vescovo incaricato della pastorale che CL aveva creato una spaccatura tra una destra capeggiata da lei, e una sinistra che comprendeva noi.
Della pastorale universitaria non si parlò più, ma la cicatrice restò aperta.
Cominciai a percepire vagamente i primi segnali di una crisi di fede.
- Il ’68 è alle spalle, è davanti, è dentro…
Giunse la laurea.
Si era discusso a lungo, in facoltà, circa il ruolo “non neutro” dell’ingegnere, e di come avremmo dovuto affrontare il lavoro in fabbrica, senza però trovare soluzioni concrete. Quindi, ciascuno avrebbe dovuto affrontare a suo modo l’ingresso nel mondo del lavoro, e lì “affrontare il conflitto di classe”.
Ci fu chi evitò la fabbrica entrando nel mondo della scuola. Ma chi era destinato ad essa, come gli ingegneri meccanici quale io ero diventato, avrebbe finito, secondo l’idea corrente, per stare “dalla parte del padrone” ed esserne il tramite ferreo nei confronti degli operai, in quegli anni ancora legati alle catene di montaggio. Sapevamo già che la formazione tecnica appresa all’università sarebbe servita solo a far di noi “l’anello della catena di trasmissione” della volontà del titolare.
Io però avevo anche un ulteriore motivo di crisi. Il conflitto tra le classi sociali implicava tra loro una diversa visione del mondo e modi diversi di vivere, di lavorare, di soffrire e di sperare. Come potevo essere certo che il Dio, che avevo appreso essere unico così come era descritto nella storia biblica e nel quale credevo, fosse identico a quello in cui credeva un operaio? Come potevo ritenere che la mia immagine di Dio non fosse filtrata dalla mia condizione sociale?
Il conflitto di classe vissuto intimamente non poteva non dare luogo a crisi personali, al momento di entrare nel mondo del lavoro. La visibilità chiara, che oggi non esiste più, delle diverse classi sociali consentiva l’evidenza dello sfruttamento e la volontà di sconfiggerlo. Ma i tentativi di incontro tra formazioni operaie e gruppi studenteschi non avevano dato risultati costruttivi. I motivi che spingevano alla protesta provenivano da esperienze e storie differenti, difficili da trasmettere e armonizzare. Un modo di superare l’ostacolo poteva essere sperimentare l’esperienza degli altri, ascoltando in silenzio.
Così, alcuni (me compreso) presero uno zaino e partirono per l’ingaggio da qualche parte come operai. Combinazione, lo stesso avevano fatto e facevano ancora dei preti in Italia e in Francia. Questi sperimentatori delle diversità di classe, alcuni alla ricerca della verità operaia e altri della risposta all’universalità o meno della fede, si trovarono, anche se distanti tra loro, a compiere le stesse azioni alle catene di montaggio di auto e trattori.
- Un filo rosso si dipana…
A posteriori, riconosco un filo rosso nell’idea di senso della mia vita. La vita è una scoperta continua, ed è una continua meraviglia, anche se spesso amara. Il sessantotto fu simile all’istante eterno rappresentato nella Cappella Sistina: quello dello sfiorarsi del dito di Dio e di quello di Adamo. Fu il fermarsi del tempo per ricrearne le condizioni. Fu estasi, perché pose i giovani su un monte più alto di quelli esistenti a scrutare un orizzonte vasto. Alcuni, però, credettero di essere Dio, e precipitarono.
Io persi la fede, ma trovai l’uomo. Con questo, l’orizzonte restò come immagine, ma il tempo riprese lentamente a scorrere.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.