Un salto indietro, a cinquant’anni dal ‘68 di Alberto Fazio

 

Una riflessione: Siamo certi che il tipo di “rivoluzione sessuale” che abbiamo vissuto dal ’68 in poi abbia avuto gli esiti liberatori che noi ci aspettavamo? Certo, il modo in cui le nostre figlie hanno vissuto e vivono la loro sessualità non ha nulla a che vedere con la vera e propria segregazione e “libertà vigilata” in cui vivevano le mie coetanee. La naturalezza dell’approccio fra ragazzi e ragazze che vedo in giro non ha nulla a che vedere con le tensioni represse e i fantasmi di pregiudizi dei nostri anni verdi. E’ uno dei risultati del ’68. Forse il più significativo. Prima di allora le regole del vivere civile erano dettate ovunque, anche in Francia, in Germania, dai nostri imam. Il Vescovo di Prato bollava come ‘pubblici concubini’ quelli che si sposavano in municipio.

Ma non possiamo dimenticare che il mondo in cui vivevamo era per due terzi un mondo di contadini con stili di vita e tradizioni patriarcali che affondavano le radici nel neolitico. Quando andavo al liceo questa maggioranza era talmente “altra” da apparire come una razza diversa, nel colore della pelle, nel modo di vestire, nella lingua e nei costumi. Le donne, in particolare, andavano in giro vestite di nero e coperte dagli shador… pardon scialli, sorvegliate a vista da uomini vestiti di velluto e con tabarri blu. Cavalcature, processioni, delitti d’onore, carretti, canti antichissimi che si perdevano nelle campagne assolate dove si trebbiava con i muli. Come ancora accade in Tunisia o in Algeria. Noi eravamo i “francesi”, loro erano gli “arabi”. Emanavamo anche odori diversi.

Nulla faceva presagire che qualcosa sarebbe cambiato in questo assetto millenario del mondo.

E invece, alla fine dei miei anni di liceo, Caltagirone si svuotò.

In quindicimila, su quarantamila abitanti, si avventurarono al nord, in Germania, in Svizzera, a Milano, a Torino… Anche la mia classe di liceo si sparse ai quattro venti. E fra questi c’ero io.

Era successo che le campagne non davano più da mangiare, neanche ai livelli miseri che avevano assicurato fino ad allora. Le macchine, i concimi chimici, l’elettricità e le strade e l’apertura al mercato internazionale avevano industrializzato tutto facendo crollare i prezzi dei prodotti e degli stessi terreni. Quando fu tolto il tappo di una vecchia legge fascista che poneva ostacoli seri al cosiddetto “inurbamento” della popolazione, i villaggi della Riforma Agraria rimasero deserti, i campi e le piccole proprietà curate e coltivate fin lì come la luce dei propri occhi furono abbandonate ai rovi. Non avvenne solo al sud: anche tutte le contrade contadine nelle prealpi venete rimasero disabitate. Assieme allo spopolamento fisico vi fu uno spaesamento culturale che attraversò la società da capo a fondo in modo tale che nulla, proprio nulla fu più come prima.

Un ricordo: era il periodo che precede il Natale, 1965. Tornavo da un drammatico viaggio a Kiel, sul Baltico, in cerca del mio fratello maggiore che era letteralmente fuggito dalla Sicilia.

Il treno su cui viaggiavo ad un certo punto si riempì di migranti pugliesi che tornavano a casa per le ferie di Natale: facce dure di braccianti e contadini da poco strappati alle campagne e scaraventati nelle fabbriche del centro Europa. Era sera e cercavo di appisolarmi quando cominciò un canto lento e profondo che contagiò tutto il mio vagone, forse tutto il treno. Era una canzone della naja, una marcetta dei congedanti, molto conosciuta… ma era stata trasformata completamente nel ritmo e nel modo espressivo, oltre che nelle parole: era diventato un lento, triste e solenne canto di emigranti, con doppie voci e contrappunto com’è nei canti del lavoro dei contadini pugliesi. Parlava di Berna, della Svizzera, della casa lontana e di un macchinista siciliano che doveva condurli a casa. Ascoltavo emozionato e commosso. In quegli anni a Palermo ero stato impegnato proprio nella ricerca, raccolta e registrazione dei canti contadini con Giuseppe Ganduscio, su incarico di Roberto Leydi che curava la trasmissione della RAI “aria di casa nostra” e il cui archivio è ora custodito a Pesaro presso la Fondazione Ernesto De Martino. In quegli anni la mia frequentazione del mondo contadino dei paesi interni della Sicilia era intensa anche per gli adempimenti del mio incarico politico di segretario provinciale della federazione giovanile comunista di Palermo oltre che per la frequentazione del Centro Studi di Danilo Dolci a Partinico.

Ma l’emozione e lo stupore raggiunsero il colmo quando il treno varcò la frontiera di Chiasso: I vetri dei finestrini furono abbassati e migliaia di braccia col pugno chiuso salutarono l’arrivo del treno in Italia mentre si alzava il canto di bandiera rossa.

Ecco. Senza questo retroterra quella grande rivoluzione culturale che esplose nel ’68 e che azzerò il prestigio degli imam cattolici distruggendo la segregazione sessuale e con essa la struttura stessa dell’autoritarismo che marcava il rapporto fra generazioni e fra poteri pubblici e cittadini, non avrebbe avuto il carattere universale che invece ha avuto. Oggi nei vicoli di Palermo o di Caltagirone sfrecciano le ragazze in motorino con l’ombelico al vento, vero simbolo ed immagine della nuova condizione femminile, allo stesso modo che ad Amsterdam, a Padova o a Siviglia.

Ma siamo sicuri che sia tutto oro? Quanta mercificazione del corpo e della mente ha accompagnato questa liberazione? Non c’è un nuovo asservimento, tutto diverso da quello antico ma non per questo forse meno inquietante, ai miti del successo attraverso la “fitness”, la bellezza stereotipa e depilata costruita dai chirurghi estetici, ai valori ed ai modelli di un consumismo mentale da “Grande Fratello” e da sballo del Sabato sera, tutto diverso dalla liberazione per cui ci eravamo messi in gioco allora, sulla nostra pelle, su quella delle nostre compagne e dei nostri figli?

Quanto grande è il patrimonio dell’articolatissima diversità culturale radicata nei modi di produzione, nei saperi contadini e artigiani che è stata annientata? Una diversità che dotava ogni paese, ogni contrada, ogni regione, di sue storie, suoi racconti, suoi canti, sue danze, suoi riti, sue feste, posseduti e radicati in ciascuno da millenni? E non era in questo patrimonio che viveva la sacralità della vita e dei rapporti umani? Tutto è andato irrimediabilmente perduto e oggi, sebbene materialmente più ricchi più “istruiti” e più longevi, siamo culturalmente e mentalmente infinitamente più poveri, espropriati della nostra anima.

Questo nuovo asservimento è il centro della riflessione di Pasolini già all’inizio degli anni ’70. Il suo discorso fu bollato come reazionario, ed era e resta invece il più profondamente e profeticamente sovversivo. Come lui, anche noi lottavamo per l’uguaglianza dei diritti ma non volevamo l’omologazione e la distruzione delle differenze culturali, etniche e di genere che fanno ricca l’anima di un popolo. ‘Integrato’ era la parola che usavamo con disprezzo quando volevamo offendere qualcuno.

Ora tutto questo quadro che appartiene al passato dei più anziani fra noi, si sta riproducendo molto più in grande stile sul piano mondiale. La gigantesca migrazione che sta spingendo l’Africa subsahariana a trasferirsi in Europa ha più di un tratto di somiglianza con quanto avvenuto nella metà del secolo scorso fra il sud e il nord dell’Europa. Le ferite non si sono chiuse, il sud non ha risolto nessuno dei suoi atavici guai, anzi ne ha di nuovi, e a tutto questo si sovrappone la nuova ondata migratoria dovuta all’esproprio di ogni condizione possibile di vita, in quei paesi, da parte delle multinazionali dell’agricoltura e della compagnie minerarie e petrolifere. Quale Grande Politica si sta pensando per quanto accade? Siamo sicuri che il rimedio sia l’Integrazione dei migranti? O non è piuttosto la riforma radicale del nostro modo di vita, di produzione e di dominio occidentale di cui oggi non si vedono alfieri se non in alcuni sognatori ecologisti?

(Padova, aprile 2018)

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