Quasi mai le ricorrenze sono un momento favorevole per la ricostruzione storica dell’accaduto e tantomeno per la capacità di esprimere un giudizio di fatto e di valore. Ciò è particolarmente vero per il ’68 di cui si sta “celebrando” il cinquantenario. Troppe ancora le passioni suscitate e non ancora sopite. Troppi gli interessi del presente che guardano a quel passato per imbrigliarlo, provocando la reazione dei testimoni, incapaci spesso di fare del loro “averlo vissuto” un’interpretazione esaustiva, di passare dalla storia fattuale e personale alla storiografia. La memoria irrompe e, nel caso del ’68, si tratta di “ricordi” distanti, spesso conflittuali, che ripropongono al pubblico contrapposizioni già note. Da una parte il “culto” del ’68, dall’altra i detrattori della “rivolta”, i sostenitori della continuità tra contestazione e lotta armata e del “tradimento” dei rivoluzionari di un tempo, integrati nel corso dei decenni successivi nei ruoli, alti e bassi, della società che volevano cambiare. Due libri ritornano sul tema dell’evento ’68 con approcci diversi ma complementari: Paolo Brogi, ’68 ce n’est qu’un début.., pubblicato dalla casa editrice Imprimatur e Roberto Raja, Il sessantotto giorno per giorno, per le edizioni Clichy.
Sessantotto e 1968
Entrambi gli autori distinguono il ‘68 dall’anno solare 1968. Il primo, inteso come anno della contestazione, era già iniziato nel ’67 con le occupazioni universitarie in Italia e anche prima. Raja fa bene a ricordare alcuni dati strutturali: nel 1968 ci sono circa sei milioni di giovani compresi nella fascia d’età tra i 15 e i 20 anni, sono i figli del boom demografico del secondo dopoguerra; i duecentocinquantamila iscritti all’università del 1961 sono diventati cinquecentocinquantamila. Dati che segnalano la presenza anagrafica di una nuova generazione pronta a contestare i padri, i professori e l’autorità, l’ordine borghese, il perbenismo ipocrita, gli Stati Uniti e la guerra del Vietnam, la Chiesa, le istituzioni politiche e sindacali. È questa quantità numerica in ascesa che si misura con una scuola media superiore e un’università, ancora pensata e strutturata per l’élite, non pronta ad accogliere tutti, con una categoria di insegnanti poco disposti a venire incontro alle esigenze degli studenti. Con pazienza certosina entrambi gli autori hanno raccolto alcune centinaia di minibiografie di protagonisti noti e meno noti che ben rappresentano la personalità ideal-tipica del sessantottino e poi la sua rapida trasformazione in militante di “estrema sinistra” degli anni Settanta, così diverso dal rivoluzionario di professione forgiata dai manuali della Terza Internazionale; imparagonabile con quello, come imparagonabile è il confronto con quanti (pochi) fecero “il salto” nella lotta armata, sposando una dimensione dell’operare e del vivere clandestina e nascosta, separandosi dalla multidimensionalità dell’agire nella tensione perenne del movimento sociale.
Un Sessantotto vivo e tenace
Quello di Paolo Brogi, ’68 ce n’est qu’un début.., è una sorta di diario postumo collettivo che attraversa i luoghi del ’68, affiancando alla memoria dell’autore quella di tanti altri protagonisti. È una sistematica raccolta minuziosa di frammenti e immagini, con storie inedite riportate alla luce da
testimoni partecipanti. Una memoria che si presenta cronologicamente sparsa, come lo era al tempo, un susseguirsi di esperienze formative che costituirono l’ossatura dell’evento chiamato ’68 non solo in Italia, ma nel mondo. Difatti l’azione narrativa spazia dal Giappone a Roma, Berlino, New York, Parigi, Milano, Chicago, Trento, Pisa, Torino, Dakar, Rawalpindi, Belgrado, Praga, Varsavia, Istanbul, Rio de Janeiro, Città del Messico. Per quanto riguarda l’Italia ci sono le lotte degli universitari torinesi, romani, pisani e di tante altre situazioni di protesta, colte nel vivo del loro sorgere e raccontate nelle loro azioni e elaborazioni ideologiche e politiche. C’è il racconto dall’interno di quello che si chiamava il dissenso cattolico, la controcultura beat che sfocia nella costituzione delle comuni, la ripresa della lotta operaia prima del fatidico autunno caldo del ’69, alla Fiat, a Porto Marghera, a Latina a Valdagno, la contestazione al Festival di Venezia, il maggio francese, i braccianti ammazzati ad Avola. È un racconto avvincente che non vuole, in nome del buonismo ecumenico, rappacificare ciò che era opposto, sfumare i colori del conflitto. Le pagine del libro trasmettono la sensazione che quel tempo fu pieno di cose, di eventi, di persone, di sentimenti. Un tempo che trascorse in fretta, per scivolare via velocemente e rumorosamente. La scrittura mordente dà il senso di questo ritmo, di questo procedere incalzante e coinvolgente nella mischia della partecipazione sociale e politica.
Sessantotto per un anno
Al di là dei tanti saggi teorici che ricordano i cinquant’anni dal fatidico e rivoluzionario ‘68, il libro di Roberto Raja, Il sessantotto giorno per giorno, racconta nei particolari tutti i fatti che riempirono quell’anno. Più che un libro di storia è un libro per gli storici, un reportage, uno strumento per lo studioso che vuole ripartire dai fatti, più che dalle interpretazioni, che sul ’68 abbondano. Dal 1 gennaio al 31 dicembre, giorno dopo giorno, l’anno 1968 è passato al microscopio della cronaca minuta. Non solo quindi la rivolta studentesca e giovanile, ma tanti altri episodi nazionali e internazionali. A vederlo da vicino il 1968 non è solo l’anno della contestazione studentesca, ma anche quello del terremoto in Sicilia, della guerra in Vietnam, della Primavera di Praga e dei carri armati di Mosca, delle lotte studentesche in Polonia, in Jugoslavia, tanto per ricordare che la rivolta giovanile si manifestò anche nell’Europa orientale, delle allora Democrazie Popolari. È l’anno negli Stati Uniti degli gli assassini politici di Martin Luther King, con la successiva rivolta dei ghetti neri, e di Robert Kennedy, negli Stati Uniti; del massacro in Messico di piazza delle Tre Culture; del primo omicidio degli indipendentisti baschi dell’Eta in Spagna, del primo delitto del cosiddetto mostro di Firenze in Italia; dell’enciclica Humanae vitae, con cui Paolo VI confermava il no all’aborto e alla contraccezione. Ed è anche l’anno di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, dell’arrivo in Italia di Cent’anni di solitudine di García Márquez, della Canzone di Marinella che con la voce di Mina crea il culto di Fabrizio De André.
Scrivere, come ha fatto l’autore una cronologia del 1968, una storia nel suo farsi giorno per giorno, è costato fatica e lavoro. Ha dovuto sfogliare e riprendere articoli e notizie dai quotidiani, dai settimanali dell’epoca, nonché cronologie già definite. Per quanto riguarda i periodici egli elenca tra quelli consultati il Corriere della Sera, La Stampa, l’Unità, Paese sera, L’Osservatore Romano, L’Espresso, L’Europeo, Le Nouvel Observateur, The Times, The New York Times.
Un ’68 senza riforme
La protesta si innesca prima del 1° gennaio 1968. Comincia quando viene presentato il progetto di riforma dell’Università da parte del Ministro della pubblica istruzione Gui. Già nel febbraio del 1967 gli studenti di Pisa elaborano le “Tesi della Sapienza”; a novembre partono le prime occupazioni: Trento, la Cattolica di Milano e a Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche a Torino. L’anno solare inizia con un giro di vite fin da gennaio: provvedimenti disciplinari per i leader della contestazione torinese, il 16 dello stesso mese il rettore della Cattolica di Milano ratifica
l’espulsione di tre studenti dell’ateneo, tra i quali Mario Capanna (che si iscriverà alla Statale). La contestazione procederà quindi di pari passo contro l’università in quanto sistema di formazione e in quanto sistema di potere, di repressione, fino a mettere in discussione il sistema. Tuttavia questo procedere non era scontato. Una maggiore capacità dialogica delle istituzioni scolastiche e delle istituzioni statali avrebbe potuto incanalare e mantenere la contestazione nell’ambito di un programma di riforme della scuola a cominciare da un rinnovamento della didattica. La domanda di cambiamento e innovazione non trovò risposte adeguate, tranne alcuni casi isolati, come a Torino presso la Facoltà di Magistero o a Trento. Gli studenti recepirono il messaggio: non si poteva cambiare la scuola senza cambiare la società e lo Stato che reprimeva la protesta. Così facendo diventarono avanguardie politiche, pronti all’incontro con altri settori sociali oppressi. Ciò accadde nella primavera del 1968 quando si raggiunse l’apogeo del movimento e il suo maggior momento di sincronicità internazionale. Dopo le storie si differenziarono, in alcuni paesi (Francia, Stati Uniti, Germania Occidentale) il movimento studentesco si esaurì, mentre l’incontro con la protesta operaia in Italia diede vita a quello che è stato chiamato “il lungo ’68”.
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