[Arriva in questi giorni? in libreria il nuovo saggio di Walter Siti, Pagare o non pagare. L’evaporazione del denaro, che inaugura la serie “Trovare le parole” della collana Gransassi di Nottetempo (che ringraziamo per averci permesso l’anticipazione). L’intervento, metà pamphlet metà «autoanalisi di un ceto», è dedicato al nostro attuale rapporto con i soldi. Rispetto a una vecchia generazione che ha conosciuto il “piacere di pagare”, il quale definiva l’identità stessa di una persona (“pagare era una sottospecie del pregare”), per i nativi digitali sono mutati i parametri mentali: pagare (ed essere pagati) è diventato più aleatorio, lavorare per comprare è più una teoria che un fatto, la relazione stessa con l’economico è diventato più rabbiosa, indolente e disperata al tempo stesso (gs)].
Cediamo gratis la nostra anima di consumatori, come regaliamo la nostra creatività fornendo contenuti filmati a YouTube o diventando recensori per Amazon. Ora che Amazon ha aperto a Seattle il primo supermercato 2.0, dove non si paga la spesa e il conto arriva direttamente sulla app del cellulare, quei consumatori lavorano gratis come commessi per Jeff Bezos. Sostituiamo gli operatori delle compagnie aeree (che licenziano i loro in esubero) ogni volta che facciamo il nostro check-in on-line, ma anche se alla fine decidiamo di non partire abbiamo comunque fornito informazioni sulle nostre preferenze turistiche o abitudini lavorative. Manna anche queste per i giganti delle banche dati.
Siamo cavie linguistiche per Google, che usa le nostre frasi (o scannerizza i nostri libri) per migliorare l’efficienza del proprio traduttore automatico e sviluppare le sue ricerche sull’intelligenza artificiale (fino a proporsi come nostro “assistente alla conversazione” e a decidere per noi che cosa ci interessa); le bambole e i robottini parlanti che fanno la gioia dei bimbi imparano a parlare ascoltando i bimbi stessi; i medici possono avere software gratuiti se li scambiano con le schede anonime dei loro pazienti, che fanno gola alle multinazionali del farmaco. Un trilione di pagine web (numero in continuo aumento) significa grosso modo un trilione di ore lavorative, per la maggior parte sgobbate nel tempo libero, senza nessun compenso; un esercito sterminato di manodopera gratuita, su cui i giganti del web costruiscono i loro immensi profitti.
Politici, economisti, sociologi, fondazioni senza fini di lucro, da molte parti giungono suggerimenti sui rimedi che si potrebbero trovare per ovviare a questa asimmetria; si è proposto, per esempio, un sistema di micropagamenti per compensare chiunque fornisca dati utili alla Rete (ma l’attuazione pratica pare molto difficile, data l’impossibilità di determinare l’entità del lavoro svolto, e per chi); l’altra ipotesi, di stabilire un’imposta una tantum per i possessori di big data, comporterebbe accordi internazionali di là da venire. Siamo nell’ambito del futuribile, come per l’idea di tassare i robot o di detrarre dai profitti dei giganti digitali i “costi sociali” del loro intervento nei vari paesi (ivi comprese le responsabilità penali derivanti dalla sedicente neutralità dei loro algoritmi). Soluzioni di questo tipo sarebbero, per cosí dire, attive – cioè presuppongono un confronto ad armi pari e a carte scoperte tra una società ben coesa e una tecnologia cosciente di sé; ho l’impressione che invece il compromesso reale stia avvenendo su una sorta di compensazione passiva e inconsciamente rassegnata. È come se ai giovani (parlo di giovani per comodità narrativa, ma ormai la “giovinezza” rischia di estendersi all’intera maturità) si dicesse: “Sí, è vero, lavori gratis ma in compenso puoi ottenere gratis molte cose, la Rete ti toglie e la Rete ti dà, quindi mugugna pure se questo ti procura sollievo, ma non azzardarti a ribaltare veramente il tavolo”.
La prospettiva (talora assai aleatoria) di un impiego futuro giustifica i vari tirocinii e praticantati e stage a stipendio nullo; l’invocata alternanza scuola-lavoro diventa complicità pelosa con le aziende; la sharing economy fa presto a trasformarsi in “gig economy”, l’economia del lavoretto (tipo Foodora); il part time nei grandi centri commerciali, l’impiego saltuario come merchandising promoter, il voucher truffaldino e via inventando, segnano le coordinate di un nuovissimo sottoproletariato, con punte limite di vero e proprio “caporalato digitale”. La dignità che è indispensabile per un uomo in formazione si cerca altrove che nel lavoro; la catena socialmente consapevole che cinquant’anni fa appariva infrangibile (lavorare ? essere pagati ? pagare ? comprare) è evaporata in una nebbia di delusioni e speranze in cui sembra che il denaro abbia perso la propria funzione di perno, in quanto collegato al lavoro. Se “work is prostitution” (come si legge sulle magliette dei ragazzi in fila per il piú fiammante modello della Nike), allora lavorare gratis è quasi piú dignitoso. Di denaro si parla ossessivamente ma come se fosse un prodotto naturale o magico, che si moltiplica non si sa perché e spira dove vuole. La tecnologia è il nuovo “meraviglioso”, il denaro è il soprannaturale moderno. Lo è, si potrebbe obiettare, fin dai tempi di Goethe e del suo Faust, o meglio del suo Mefistofele: “Se io posso pagare [zahlen] sei stalloni”, riflette quest’ultimo in un passo famoso, “le loro forze non diventano forse le mie? / Corro e sono un uomo giusto, / come se avessi ventiquattro gambe”. Ma se, invece di pagarli, i sei stalloni mi vengono gentilmente concessi dai Padroni Informatici in cambio di prestazioni di cui nemmeno mi rendo conto, come sapere dove mi porteranno le ventiquattro gambe, e chi mi assicura che potrò ancora considerarmi “un uomo giusto”?
(pubblicato da Le parole e le cose – http://www.leparoleelecose.it)
la foto: Lorenzo Lotto. Elemosina di sant’Antonino, part)
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